Clicca

Fulvio Ferrario "A chi appartiene Dietrich Bonhoeffer?"

stampa la pagina
A chi appartiene Dietrich Bonhoeffer

Riforma” 
settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi 
8 novembre 2024 

La storia non è nuova né solo americana, ma ovviamente acquisisce particolare slancio in fasi infuocate dello scontro politico, come quello che in queste ore pone gli Stati Uniti di fronte a una scelta che avrà enormi conseguenze planetarie. Da parte di ampi settori religiosi di orientamento conservatore, e oggi sostenitori di Donald Trump (e dei suoi soci sulla scena globale, dalla Russia all’Ungheria, dalla Germania all’Italia), si rivendica l’eredità di Dietrich Bonhoeffer: il teologo ucciso dai nazisti nell’aprile 1945 diviene cioè una sorta di testimonial del neoconservatorismo cristiano, profeta della “guerra al terrorismo”, delle tesi “pro life”, della “famiglia naturale” eccetera. Anche i percorsi per autori di violenza, se vengono costretti a rimuovere la complessità per corrispondere alle logiche del penale e dunque a misurare, certificare e “disciplinare”, finiscono per tradire il loro scopo di promuovere un cambiamento profondo. 
«Non accettava la separazione»: dietro questa frase si celano interpretazioni tra loro contrapposte. 
La più immediata enfatizza l’assurdità della sproporzione della reazione. Una, insidiosa e ambigua, legge la violenza come “deficit di virilità”, frutto di un disordine. Si alimenta così la nostalgia per quella norma maschile perduta che dominava le donne, ma regolava i comportamenti maschili. 
Eppure è proprio quell’ordine gerarchico che genera la violenza. 
Perché l’esperienza per tutti e tutte dolorosa di una separazione risulta così intollerabile negli uomini scatenando questa reazione distruttiva e autodistruttiva? Molti uomini dopo aver ucciso rivolgono la violenza contro se stessi o si consegnano al carcere. Non è semplicemente il dolore per l’abbandono: è l’esperienza di impotenza incompatibile con il mito di autosufficienza a cui siamo stati allevati. La reazione esplode di fronte alla libertà di una donna che dice di no, che se ne va, e la violenza si autolegittima come punizione per una colpa femminile: una scelta illegittima e inaccettabile. 
Oggi la cultura del controllo e del dominio si veste dei panni del vittimismo. Uomini minacciati dal cambiamento, discriminati dalle pari opportunità, aggrediti dall’opportunismo femminile, castrati dalla dittatura del politicamente corretto. Il rancore frustrato maschile non si esprime solo nella dimensione individuale: è uno dei pilastri della paranoia del complotto ostile che alimenta i populismi nazionalisti. La frustrazione individuale trova una sponda nel senso comune. Al contrattacco misogino e sciovinista non basta replicare con la “predica delle buone maniere”. Non si tratta di chiedere agli uomini di esercitare la virtù virile dell’autocontrollo o di “rinunciare” al dominio. 
Forse è più utile provare a svelare quanto ogni atto di dominio e di violenza comporti una perdita per la propria umanità. Vedere quanto ognuno, imponendo se stesso, si tradisca. Così l’ironia verso le “femminucce”, o lo stigma verso l’omosessuale impongono a tutti i maschi la disciplina della virilità. Il dominio e l’inferiorizzazione dell’altro, l’incapacità a leggere le differenze fuori da una logica gerarchica ci impongono un’esperienza alienata e coatta. 
La disumanizzazione degli altri, la rappresentazione paranoica di un Occidente circondato da un mondo minaccioso, che oggi legittima la guerra come unica soluzione, ci disumanizza. La strada del potere si rivela un vicolo cieco che impoverisce le nostre relazioni. Abbiamo vissuto nel mito, come uomini e come cittadini, della libertà dalle relazioni e ci ritroviamo incapaci di pensare una libertà nelle relazioni. L’immaginario patriarcale non offre agli uomini un senso sul loro stare al mondo. 
Non può darci le risorse per vivere in un mondo privato dalla rassicurante convinzione della nostra superiorità e della nostra autosufficienza. Quel mondo è tramontato e abbiamo bisogno di altre parole, altri desideri che ci liberino dalla distruttività delle passioni tristi. 
Il fenomeno stupisce chi è abituato a considerare Bonhoeffer antesignano di ogni sorta di “progressismo” teologico. In effetti, il mondo evangelical, ma anche molto cristianesimo detto (impropriamente ormai, visto che è minoritario) “main stream”, sia cattolico sia protestante, ha sospettato a lungo il pensiero bonhoefferiano di essere eversivo, a motivo di alcune tesi abbozzate, assai velocemente, nelle lettere inviate dal carcere, specie in quelle dell’estate 1944. Da decenni, tuttavia, è in corso, a partire dagli Usa, ma con un’espansione a macchia d’olio, una riscoperta di aspetti del pensiero e della pratica bonhoefferiana di stampo “tradizionale”: esegesi biblica di tipo non storico-critico, difesa del “diritto alla vita” e critica dell’“eutanasia” (quella nazista, che non è esattamente la problematica del fine vita oggi in discussione: ma chi strumentalizza non va troppo per il sottile), esaltazione della civiltà borghese e molto altro. Con un po’ di fantasia, Bonhoeffer diventa un “evangelicale”, o anche un filocattolico di destra. Il manifesto di questa lettura reazionaria di Bonhoeffer è la biografia di Eric Mataxas, tradotta anche in italiano dall’editore Fazi nel 2012, in una collana intitolata «Campo dei Fiori», in quanto riteneva di ispirarsi, niente meno, allo spirito libertario di Giordano Bruno. Storico sostenitore di Trump, Metaxas saccheggia la biografia fondamentale di Bonhoeffer, dovuta a Eberhard Bethge, ma propone un ritratto diverso e stravagante, immediatamente stroncato da tutta la critica seria. 
Curiosamente, un’operazione speculare a quella di questi reazionari viene condotta “da sinistra”, accusando il teologo di non essere un teorico della democrazia liberale, di non essere femminista (anzi: un pericoloso fallocrate) e di avere abbandonato, nell’ultima fase della vita, il pacifismo degli anni Trenta. Negli ultimi decenni, quest’uomo, finito in galera perché coinvolto nel tentativo, riuscito, di far espatriare un gruppo di ebrei (la sua partecipazione alla congiura è stata scoperta solo alla fine dell’estate 1944) è costantemente accusato, dalla teologia, anche cristiana, detta “post-Olocausto”, di essere più o meno antisemita. La qualifica di «Giusto tra le nazioni» gli è stata negata, mentre è stata riconosciuta a suo cognato Hans von Dohnanyi, arrestato e ucciso esattamente per le stesse ragioni fatali al teologo. 
La verità, naturalmente, è che Dietrich Bonhoeffer è un uomo del proprio tempo: geniale, originale, indubbiamente coraggioso, profondamente immerso nel cristianesimo tedesco e protestante degli anni Trenta, con la sua grande tradizione spirituale, teologica, musicale, ma anche con i suoi pesantissimi condizionamenti. Troppo spesso chi, come chi scrive, si considera appassionato di questo autore, cede alla tentazione di farne un cavaliere senza macchia e senza paura, anticipatore di tutte le idee fascinose con le quali amiamo identificarci. 
La strumentalizzazione reazionaria delle idee di Bonhoeffer, così come la critica disperatamente banale e anacronistica proveniente da “sinistra”, potrebbero anche essere viste come un monito per chi è esposto alla tentazione di mitizzarlo. Bonhoeffer non è un brand del quale appropriarsi, bensì un classico da leggere criticamente: con ammirazione, perché no?, ma senza sottrarlo alle ambiguità della storia e dell’umano. La mistificazione di destra, poi, non merita nemmeno una contestazione puntuale: basta lasciare da parte Metaxas e i suoi epigoni e rileggere, ancora una volta, le fascinose pagine nelle quali il teologo ci parla, in modo inconfondibile, del Signore per il quale è vissuto ed è morto. 


«Ti è piaciuto questo articolo? Per non perderti i prossimi iscriviti alla newsletter»

Aggiungici su FacebookSegui il profilo InstagramSegui il Canale di YoutubeSeguici su Twitter



stampa la pagina

Gli ultimi 20 articoli