Lisa Cremaschi "Riconciliarsi con se stessi"
Per-dono = iperdono = dono grandissimo
Vorrei iniziare questa nostra conversazione con una breve nota filologica. Il termine perdono
contiene la parola “dono” con un prefisso, quel “per” che deriva dal greco “ypér”; in italiano noi
diciamo “iper” (ad es.: iperattivo, ipermercato, iperprotettivo) dove quell’iper indica la grandezza,
una grandezza vorrei dire quasi eccessiva. Perdono è un dono grande enorme, grande fino all’eccesso
che Dio ci ha fatto e che noi siamo chiamati a fare agli altri, al nostro prossimo, ma anzitutto al primo
prossimo che noi incontriamo, che siamo noi stessi. Sì, il primo prossimo che incontro sono io e il
vangelo chiede “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Mt 19,19). Potremmo parafrasare: “Perdona il
tuo prossimo come perdoni a te stesso”.
Ma diciamo anzitutto qualche cosa sul perdono a partire dalla Prima lettera ai corinzi 13,5:
“L’amore non aggredisce, non tiene conto del male, non si rallegra dell’ingiustizia, mette la sua gioia
nella verità. Esso copre tutto, aderisce a tutto, spera tutto, soffre tutto”.
L’amore perdona. Perdonare è qualcosa di gratuito, è un dono che noi facciamo a chi ci ha
fatto del male. É un atto creativo che ci trasforma da prigionieri del passato in uomini liberi, in pace
con le memorie del passato. Solo chi è libero sa perdonare, perché il perdono non è una re-azione,
una risposta vincolata, predeterminata, ma è un atto nuovo, non condizionato da ciò che l’ha
provocato; è spezzare la logica del taglione, il desiderio di vendetta. Il perdono è una risposta a una
sofferenza che si subisce per mano di qualcun altro. Essa esige, dunque, l’onesto riconoscimento che
stiamo soffrendo a motivo di un altro dal quale aspettavamo amore. “Proprio da lui! Proprio da lei!”.
Ci è più difficile perdonare le persone che amiamo di più. Se patiamo ingiustizia da parte di un
estraneo, la sopportiamo più facilmente. Il perdono è rivolto a coloro che non scusiamo, perché
capiamo che in qualche modo sono responsabili dell’offesa che stiamo subendo. Siamo disillusi, ci
attendevamo molto da alcune persone, e invece ... Ci sentiamo vittime di gesti di slealtà e di
tradimento. Il perdono esige anzitutto un ritorno in se stessi, l’assunzione della coscienza della propria
povertà interiore: vergogna, sentimento di rifiuto, aggressività, vendetta. Uno sguardo più lucido su
di sé è una tappa obbligatoria sul difficile cammino del perdono.
Il perdono è un atto intenzionale. Dobbiamo volerlo, porre dei gesti, fare un cammino. Non
è un atto, è un processo, un cammino che richiede ripetuti atti di volontà. Non basta dirci una sola volta: “Ho perdonato”. Spesso la ferita subìta riprende a sanguinare e ancora una volta dobbiamo
perdonare.
Tante volte non abbiamo perdonato il passato, anche un lontano passato: i nostri genitori,
un torto subito nell’infanzia ... Oppure non ci perdoniamo di essere stati deboli, di non aver saputo
affrontare le difficoltà della vita, di non aver saputo cogliere occasioni che forse ci avrebbe portato a
vivere in altro modo. Ci sentiamo fallimentari. Il rischio è quello di vivere nel rancore: rancore con
noi stessi, rancore verso la vita. Rancore deriva dal latino rancēre essere rancido. Quante volte
abbiamo il cuore rancido, amaro, un’amarezza di fondo che diventa lo scenario sul quale trascorrono
le nostre giornate. Diventa un grigiore che colora le nostre giornate.
Che fare allora? Dimenticare? Voltare pagina? Perdonare è dimenticare? È possibile
dimenticare? Ci sono ferite che forse non si rimargineranno mai o che a volte si riaprono dinanzi a
eventi che ci fanno rivivere traumi passati. Sul monumento innalzato a Parigi ai deportati morti nei
campi di concentramento tedeschi, per la maggior parte ebrei, sta scritto: “Perdoniamo ma non
dimenticheremo mai”. È secondo il vangelo? Dobbiamo dimenticare? A volte si dice che il tempo
guarisce; no, il tempo non basta. Rimuovere il male subìto, o il male che abbiamo fatto non ci aiuta a
ritrovare la pace né con noi stessi né con gli altri. È necessario rivisitare il passato e questo significa
concretamente riconoscere che soffriamo per il male subìto, riconoscere la propria ferita, fare la
verità. Gesù non ha mai chiesto di dimenticare, chiede molto di più.
Perdonare significa ricordare il passato, che non vuol dire ripetere mentalmente il passato, ma
far riemergere la memoria dell’atto per convertirla. L’oblio non cancella, bensì seppellisce il ricordo
indesiderato nella profondità della memoria, dov’è inaccessibile alla coscienza e produce distruzioni
tanto più gravi quanto più nascoste. Dimenticare è un modo per non affrontare un ricordo fastidioso
o di relegarlo nel passato. É diverso dalla rimozione, perché è deliberato. Posso distinguere tra peccato
e peccatore, non ridurre l’altro al male che mi ha fatto, a quelle parole che mi ha detto, riconoscere
che è più grande di quel singolo gesto, di quelle parole. Per giungere a perdonare è essenziale
continuare a credere alla dignità di colui o di colei che ha ferito, oppresso, tradito. Sul momento chi
ha fatto il male sembra un essere cattivo da condannare.
Ripeto la domanda: Perdonare è dimenticare? Gesù non chiede di dimenticare, chiede
molto di più. Ci sono ferite che non è possibile dimenticare, perché dopo anni sanguinano ancora.
C’è il rischio di essere dominati dall’odio, dall’avversione, ma proprio in quest’odio per chi mi ha
fatto del male gli consento di diventare signore e padrone della mia vita. La tragedia più grande
dell’essere oggetto del male è il fatto che facilmente la vittima viene trasformata in peccatore, e per
questa via si accresce la spirale della violenza. Non c’è da meravigliarsi se i giudei dissero che Gesù
stava bestemmiando quando perdonò i peccati. Umanamente il perdono sincero e incondizionato sembra al di là delle nostre possibilità naturali. Scrive Vladimir Jankelevitch: “C’è una sola cosa che
Dio non sa fare … fare in modo che le cose fatte non siano mai state fatte” (La mauvaise conscience,
p. 82).
Il perdono non è oblio del passato: è il rischio di un avvenire diverso da quello imposto dal
passato o dalla memoria. È spezzare la legge della ripetizione. Ma come perdonare? Cessando di
guardare a ciò che mi ha fatto l’altro per guardare a ciò che ha fatto per me l’Altro, il Signore. Cristo
che abita in me può perdonare, lui che ha concluso la sua vita terrena perdonando (Lc 23,34: “Padre,
perdona loro; non sanno quello che fanno”). Hanno ucciso Gesù, ma non il potere dell’amore
sconfinato. Gesù non chiede il risarcimento delle offese fatte contro di lui, infrange la legge del
taglione e va incontro alla morte liberamente, vivendola non come condanna, ma come dono d’amore.
È iniziata una nuova via per far fronte al male. La base del rapporto non è più costituita dalle offese
che ci procuriamo reciprocamente, ma dall’amore che è capace di vincere il dolore e l’amarezza delle
offese. “L’amore non tiene conto del male, non si rallegra dell’ingiustizia, mette la sua gioia nella
verità. Tutto copre, a tutto aderisce, spera tutto, soffre tutto”.
L’amore ci spinge a cercare di comprendere in profondità l’atteggiamento dell’altro. Forse
non si rendeva conto di quello che stava dicendo; forse era arrabbiato per qualche altro motivo, forse
aveva semplicemente dormito male ... o non si rendeva conto di quello che diceva. Quante volte è
successo anche a te di dire cose che non avresti voluto dire, frasi che hai detto alla moglie, ai figli,
frasi in cui non credevi veramente eppure le hai dette. Tante volte usiamo un doppio peso e una doppia
misura: una misura con noi stessi, un’altra molto più severa ed esigente con gli altri. Ma se il perdono
potesse ridursi alla comprensione, diventerebbe la semplice scusa di un errore di giudizio, la
correzione di una traiettoria deviata.
A volte uno non perdona altri perché non sa perdonare a se stesso di aver permesso che l’altro
lo offendesse. Perdonarsi: accettare di essere persone fragili, limitate, che sbagliano, accettare i propri
errori con serenità senza rabbia contro di sé, avere comprensione e misericordia per se stessi. Nel
cammino di guarigione delle proprie ferite è essenziale poter condividere con qualcuno la propria
sofferenza, dare il nome a ciò che si è perso con il male subìto e poter esprimere i nostri sentimenti:
la frustrazione, la collera, il desiderio di vendetta. Solo se accettiamo che in noi ci sono queste
reazioni, questi sentimenti possiamo guardarli in faccia ed evangelizzarli.
A volte non perdoniamo a noi stessi di avere iniziato una relazione che si è rivelata un inferno,
di esserci infilati in situazioni che sono poi diventate a cielo chiuso. Se non abbiamo il coraggio di
assumere la nostra storia, di rileggerla dandole un senso non riusciremo neppure a perdonare gli altri.
Non illudiamoci: il passato lo portiamo con noi. Pensiamo alla guarigione dell’uomo paralizzato in
Mc 2,1-12; Gesù lo perdona, lo guarisce e poi gli dice: “Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua” (Mc 2,11). Alzati, in greco si usa il verbo egheíro, che è uno dei due verbi impiegati per indicare la
resurrezione; potremmo tradurre “risvegliati” oppure “risorgi”. Ma c’è quella annotazione che
potrebbe sembrare fuori luogo: “prendi la tua barella”; ormai a che cosa gli serve? La barella è il suo
passato, non può rigettarlo sugli altri, lo tiene con sé ma quella barella muta di significato: non è più
segno di malattia, ma segno di guarigione.
E qui dobbiamo aver chiaro che non possiamo cambiare il passato, ma possiamo cambiare
il modo di viverlo. Non si piange sul latte versato. Non serve a nulla ripetere mentalmente ciò che
abbiamo vissuto, ricordare i nostri fallimenti, ripeterci che abbiamo sbagliato tutto. Con un lavoro
interiore, con un lungo lavoro interiore possiamo giungere a riconciliarci con noi stessi; sì, sono
questo e nient’altro che questo. Mi accolgo così come sono smettendo di sognare di essere diverso,
abbandonando i periodi ipotetici dell’irrealtà che possono servire per fare esercizi grammaticali
(ricordate a scuola: periodo ipotetico dell’irrealtà; ecc.), ma fanno tanto male nella vita. “Se invece
di comportarmi in quel modo, mi fossi comportato in un altro …, se invece di sposare quella persona
ne avessi sposata un’altra, se invece di farmi monaca, mi fosse sposata …”. Mi perdono di non essere
altro. Più si va avanti nella vita e più ci rendiamo conto che tante cose si sono avverate diversamente
da come avremmo pensato, desiderato, sognato. Forse il bilancio è in rosso. Eppure, se siamo cristiani,
c’è un filo rosso che attraversa la nostra vita: il vangelo, la ricerca del Signore. e allora possiamo
abbandonare la nostra vita, il passato, il presente, il futuro, nelle mani del Signore che ci conosce più
di quanto noi stessi ci conosciamo, che ci vuole bene più di quanto noi siamo capaci di volerci bene
e di voler bene. “Come un bambino in braccio a sua madre è tranquillo il mio cuore”, recita il salmo
131. Dice un padre della chiesa siriaca: “Sii in pace con te stesso, e il cielo e la terra saranno in pace
con te” (Isacco di Ninive, Prima collezione 2). E Serafino di Sarov: “Trova la pace e migliaia di
persone attorno a te troveranno salvezza”.
Ma per trovare la pace con il nostro passato dobbiamo cercare di dargli un senso. Vorrei qui
riprendere la storia di Giuseppe, che tutti conoscete. È una storia di rapporti fraterni “sbagliati”, se
così si può dire. Giuseppe non è un modello di santo; provoca i fratelli con i suoi sogni in cui si vede
come il più grande di tutti, davanti al quale tutti si devono piegare. È il più amato dal padre e sa
sfruttare questo amore a suo vantaggio contro gli altri. E gli altri fratelli non hanno pazienza, non lo
sopportano più, fino a decidere di ucciderlo. Poi interviene un fratello e li convince a venderlo come
schiavo invece di ucciderlo. E Giuseppe in Egitto attraversa una serie di vicende; grazie alla sua
abilità e alla sua intelligenza, fa strada fino a diventare viceré dell’Egitto. Quando la carestia si abbatte
sulla terra di Canaan il vecchio Giacobbe manda i suoi figli in Egitto a cercare del grano e Giuseppe
riconosce i suoi fratelli. Poco dopo si farà riconoscere, svelerà: “Io sono Giuseppe, vostro fratello che
voi avete venduto come schiavo in Egitto”, e farà venire in Egitto tutta la sua famiglia. Ma, dopo la morte del padre, Giacobbe, i suoi fratelli temono che ora si vendicherà di loro, di tutto il male che gli
hanno fatto patire. Hanno paura, ma Giuseppe dice loro: “Non temete. Sono io forse al posto di Dio?
Se voi avevate pensate del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere
quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,19-20). Giuseppe non tiene conto
del male ricevuto dai suoi fratelli, anzi sa trasformarlo, trasfigurare il male che ha patito da parte dei
fratelli, ricavando da quella storia che è stata così dolorosa, qualcosa di buono, di positivo, sa trarre
il bene anche dal male. A volte è proprio così; se viviamo tutto con bontà e pazienza scopriamo che
anche da quello che è andato male, dal dolore, dalla sofferenza possiamo ricavare un insegnamento,
imparare un po’ di bontà. Il dolore va riscattato, è sempre un grido alla vita, un’attesa della
resurrezione, un’invocazione al Signore perché venga presto. Nulla è perduto e niente ci può separare
da Cristo Gesù (Rm 8,35-39).
I padri giungono a dire che il nemico può diventare nostro maestro. Quando qualcuno ci fa
del male, noi che ci credevamo tanto buoni, scopriamo di avere dentro di noi desideri di vendetta,
tanta rabbia, il desiderio cattivo di farla pagare all’altro. In questo il nemico ci fa da maestro: ci fa
toccare con mano che non siamo buoni, ci fa conoscere i sentimenti che abbiamo nel cuore, ci offre
un’occasione per convertirci.
Il nemico come medico e come maestro
Vorrei leggervi due testi tratti da monaci
Abba Zosima: (Palestina, fine V sec. - inizio del VI)
“Abba Zosima diceva: ‘Se uno accoglie un pensiero riguardo a chi lo ha afflitto, gli ha fatto
torto, lo ha offeso o gli ha fatto del male, e trama pensieri contro di lui, costui tende un laccio alla
propria anima al pari dei demoni. Si tende un laccio da solo! Ma perché dico: trama? Se non pensa a
chi gli ha fatto del male come a un medico, fa torto a se stesso … Devi accogliere quanto ti viene da
lui come una medicina che Gesù ti ha mandato’” (Zosima, Colloqui 3).
Un secondo testo è tratto dagli insegnamenti che Doroteo, monaco nel deserto di Gaza, nel VI
secolo, dava ai suoi fratelli. Dice in una sua catechesi: “A volte uno pensa di essere nella pace e nella
tranquillità ma, non appena un fratello gli dice una parola che lo rattrista, si turba e ritiene di aver
tutto il diritto di rattristarsi, dicendo dentro di sé: ‘Se quel fratello non fosse venuto a parlarmi e non
mi avesse turbato, non avrei peccato!’. Questa è un’illusione, un falso ragionamento. Forse che chi
gli ha detto quella parola ha messo in lui la passione? Gli ha solo manifestato la passione che era in
lui, perché, se vuole, possa pentirsene. Costui somiglia a un pane di grano puro, esteriormente di
bell’aspetto, ma che appena spezzato, rivela il suo marciume; così anche lui credeva di starsene in
pace, ma dentro di sé aveva la passione senza saperlo. Una sola parola del fratello ha fatto uscire il
marciume che teneva nascosto dentro. Se dunque vuole ottenere misericordia, si penta, si purifichi, cerchi di fare progressi, e vedrà che deve piuttosto ringraziare il fratello per essere stato per lui motivo
di profitto” (Doroteo di Gaza, Insegnamenti 7,82).
A questi due testi ne vorrei accostare un altro che non è stato scritto da un cristiano, ma dal
Dalai Lama, la massima autorità tibetana:
“La compassione di cui parla il buddismo mayahana non è l’amore comune che sentiamo
verso coloro che ci sono cari e vicini; questo amore può essere accompagnato da egoismo e ignoranza.
Dobbiamo amare anche i nostri nemici … Se io ho aiutato qualcuno per quanto ne ero capace e costui
mi offende nel modo più vergognoso, io devo considerare questa persona come il mio più grande
maestro. Se i nostri amici si trovano bene con noi e ci sono vicini, niente ci può rendere consapevoli
dei nostri sentimenti o delle nostre idee negative. Solo quando qualcuno ci combatte e ci critica
possiamo accedere alla conoscenza di noi stessi e giudicare la qualità del nostro amore. In questo i
nostri nemici sono i nostri grandi maestri. Essi ci mettono in grado di vagliare la nostra forza, la nostra
tolleranza e il nostro rispetto per gli altri. Se noi invece di nutrire sentimenti di odio verso i nostri
nemici, li amiamo ancora di più, allora non siamo lontani dal raggiungimento dello stato del Budda:
la consapevolezza illuminata che è lo scopo di tutte le religioni” (citato in Parole dal deserto, a cura
di L. Cremaschi, Magnano 1992, pp. 125-126).
L’AT esorta all’amore per lo straniero, alla compassione per il nemico; in Es 23,4-5, fra le
disposizioni riguardanti il dovere di rendere giustizia in modo imparziale nei processi, si trova il
seguente precetto: “Se tu trovi il toro del tuo nemico o il suo asino smarrito, abbi cura di
ricondurglielo. Se tu scorgi l’asino del tuo nemico soccombere sotto il suo carico, guardati bene
dall’abbandonarlo; al contrario aiutalo a scaricarlo”. E Lv 19,17-18 ammonisce: “Non odiare il tuo
fratello in cuor tuo ... Non vendicarti e non conservare rancore verso i figli del tuo popolo, e ama per
il tuo prossimo ciò che ami in te”. La regola d’oro: “Non fare a nessuno ciò che non ti piacerebbe
subire”, fa la sua comparsa per la prima volta in Tb 4,15. Verrà ripresa da rabbi Hillel, che, quando
un non-ebreo gli chiese di insegnargli tutta la Legge nel lasso di tempo in cui riusciva a stare ritto su
un piede solo, disse: “Ciò che risulta odioso non farlo al tuo prossimo. Questa è tutta la Torah e il
resto non è che commento. Va’, imparalo”. Gesù la trasformerà in senso positivo: “Fa al tuo prossimo
ciò che vorresti fosse fatto a te” e nel discorso sul monte ammonisce ad amare i nemici e a pregare
per i persecutori (Mt 5,43-45; Lc 6,27-28.35). Se il cristiano, vivendo lo spirito delle beatitudini,
conosce opposizioni, rifiuti, persecuzioni, d’altro non deve essere lui a entrare in conflitto con gli
altri, crearsi dei nemici. È nemico di nessuno, ma ha molti nemici. Il suo amore per chi gli ha fatto
del male è generato dall’amore che Dio ha avuto per lui mentre ancora gli era nemico (Rm 5.8.10).
Dobbiamo amare fino alla fine, come ha amato Gesù. Rabbi Natan diceva: “Il più grande eroe è colui
che trasforma il suo nemico in amico”. Occorre uscire dalla demonizzazione dell’altro: il pagano, lo straniero, l’ebreo, l’eretico, il musulmano sono alcuni dei visi storici in cui i cristiani hanno incarnato
il nemico.
Ma il vero nemico è in noi e non fuori di noi e la lotta che dobbiamo ingaggiare è quella
interiore. Lotta per non cedere alla cattiva tristezza (2Cor 7,10), per non lasciare che l’amarezza
domini la nostra vita; una lotta “secondo le regole” come dice Paolo (2Tm 2,5), cioè secondo il
vangelo, secondo la legge dell’amore.
Ma come realizzare tutto questo? Ne siamo capaci? È solo il Signore che sa perdonare, solo
se accogliamo il Signore dentro il nostro cuore, dentro la nostra vita, allora sarà lui stesso a perdonarci
e a perdonare. È l’invocazione che rivolgiamo nel Padre nostro: “Perdona i nostri peccati, come anche
noi perdoniamo a chi è in debito con noi”. Perdonaci, Signore! Insegnaci a perdonarci e a perdonare.
E anch’io, alla fine di questa nostra conversazione, sento di dover chiedere a Dio e a voi il
perdono, perché avverto la distanza tra le parole e la mia vita, tra quello che dico e quello che riesco
a realizzare. Nel vangelo di Luca si racconta che il padrone, che ha consegnato le monete ai suoi servi
perché le facessero fruttare, a quel servo che ha avuto paura e non ha fatto lavorare la moneta che gli
era stata affidata dice: “Dalle tue stesse parole ti giudico” (Lc 19,22). Che il Signore ci perdoni! Ma
se Dio non si stanca di perdonare, perché dovremmo stancarci noi?
Fonte: Parrocchia San Giovanni Maria Vianney
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