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Alberto Maggi “Chiesa d’altri tempi… la denuncia di Sant’Antonio di Padova”

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Per gentile concessione dell’autore, proponiamo un estratto da Roba da preti (Cittadella editrice), libro del biblista Alberto Maggi*.

CHIESA D’ALTRI TEMPI

Antonio di Padova[1], il corpulento, instancabile fustigatore dei corrotti costumi ecclesiastici, è conosciuto ai più come lo sdolcinato fraticello imberbe che si trastulla col Bambinello, trova oggetti smarriti e mariti alle zitelle.

Quasi sconosciuta è l’opera letteraria di questo santo, riversata in sermoni rimasti volutamente sconosciuti per la scandalosa violenza delle espressioni usate contro la gerarchia ecclesiastica[2].

I sermoni, scritti negli ultimi anni della sua vita, non sono la trascrizione dei discorsi tenuti dal santo, ma un prontuario di omelie domenicali e festive da lui composto ad uso dei suoi frati. Le violente invettive contenute in questi sermoni non nascono pertanto dalla foga della predicazione, ma sono state tutte pensate e poste volutamente.

Scritti nel linguaggio schietto dei profeti, i sermoni sono un’impietosa critica alle autorità religiose, anche se nessuno oserebbe affermare che Antonio non amasse la Chiesa: è proprio l’amore per la Sposa di Cristo che spinge il santo a denunciare quanti l’hanno ridotta a una baldracca.

Antonio e i vescovi del suo tempo annunciavano lo stesso vangelo di Gesù. La maniera di viverlo era profondamente diversa.

Il santo rimprovera apertamente la gerarchia ecclesiastica di seguire Satana, anziché Gesù Cristo, e non esita a denunciare “i prelati del nostro tempo, che non sono discepoli di Cristo ma dell’anticristo”[3].

Profondo conoscitore della Sacra Scrittura, Antonio ricorre sovente agli episodi biblici per censurare gli ecclesiastici, come irrispettosamente accade a proposito dell’asina di Balaam[4]:

“Il vescovo del nostro tempo è come Balaam, seduto sopra l’asina: essa vedeva l’angelo, mentre Balaam non poteva vederlo. Un vescovo scandaloso è un tronco inutile: con il suo cattivo esempio precipita la fraternità dei fedeli prima nel peccato e poi nell’inferno; con la sua stoltezza, giacché è anche inetto, sconcerta i fedeli; con la sua avarizia divora il popolo. Costui, assiso sopra l’asina, non solo non vede l’angelo, ma vi dico che vede il diavolo pronto a precipitarlo all’inferno”[5].

Rinnovando la denuncia di Gesù a “scribi e farisei ipocriti che ingoiano cammelli e filtrano moscerini”[6], Antonio smaschera l’ipocrisia di una Chiesa corrotta che, abbandonato il vangelo, crede solo al proprio prestigio e difende i suoi privilegi, innalzando muraglie di decreti e leggi canoniche.

“Amate i vostri nemici, fate del bene a chi vi odia, benedite chi vi maledice”[7] è l’insegnamento di Gesù che per Antonio deve preferirsi a tutte le regole, istituzioni, tradizioni, invenzioni:

“Nelle curie dei vescovi i birboni fanno risuonare la legge di Giustiniano e non quella di Cristo: fanno grandi chiacchiere, ma non secondo la tua legge, o Signore, che ormai è abbandonata e presa in odio”[8]“Se un vescovo o un prelato della Chiesa fa qualcosa contro una decretale di Alessandro, o di Innocenzo, o di qualche altro papa, viene subito accusato, l’accusato viene convocato, il convocato viene convinto del suo crimine, e dopo essere stato convinto viene deposto. Se invece commette qualcosa di grave contro il vangelo di Gesù Cristo, che è tenuto ad osservare sopra tutte le cose, non c’è nessuno che lo accusi, nessuno che lo riprenda”[9].

Gli effeminati prelati del nostro tempo

Senza il minimo reverenziale timore, sant’Antonio deride i tronfi prelati, descrivendoli come “vacche belle e troppo grasse che pascolano in luoghi paludosi”[10]. L’appetito di questi religiosi, dediti unicamente al culto del dio ventre, sconcerta il santo che, sconsolato, constata: “Ahimè, quante cose mangia [il prelato] e i poveri gridano alla porta con il ventre vuoto e nudo”[11].

Il pomposo abbigliamento religioso con il quale gli ecclesiastici incedono “tronfi e impettiti, a pancia in fuori”[12], per sottolineare la sacralità della propria persona e distinguersi dai comuni mortali, non impressiona il santo, che anzi così li ridicolizza:

“Che cosa dirò degli effeminati prelati del nostro tempo, che si agghindano come donne destinate alle nozze, si rivestono di pelli varie, e le cui intemperanze si consumano in lettighe variopinte, in bardature e sproni di cavalli, che rosseggiano del sangue di Cristo?”[13].

Antonio è spietato nella sua denuncia.

Non trova alcuna attenuante o virtù nei prelati: vescovi e preti non sono pastori, ma lupi rapaci che “predicano per denaro”[14], mentre i chierici, “molli, effeminati e corrotti, si presentano per denaro nei tribunali e nelle curie, come le prostitute”[15]. Per Antonio prelati e chierici sono i “predoni del nostro tempo”[16], che eccellono solo nella loro insaziabile ingordigia:

“Non c’è in essi alcuna forma di virtù, non c’è onestà di costumi, ma solo marciume di peccati; fa eccezione la formazione delle unghie, con le quali arraffano i beni dei poveri… questi indegni prelati della Chiesa non hanno alcuna energia nella mente, non essendo capaci di resistere alle tentazioni del diavolo: ma tutta la forza l’hanno nelle braccia e nei fianchi, forza di rapina e di lussuria”[17].

Anziché essere seguaci di Gesù che ha detto “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”[18], gli uomini di Chiesa usano il sacro per saziare la loro avidità: “con le offerte dei fedeli, che spellano, i sacerdoti ingrassano i loro cavalli e puledri, le loro concubine e i loro figli”[19].

La bramosia dei preti è tale che Antonio li denuncia di arrivare a prostituire persino il sacramento dell’amore:

“I sacerdoti, anzi, per meglio dire, i mercanti, tendono la rete della loro avarizia per ammassare denaro. Celebrano la messa per denaro, e se non fossero sicuri di ricevere i soldi, certamente non celebrerebbero la messa; e così il sacramento della salvezza lo fanno diventare strumento di cupidigia”[20].

Mentre Cristo “da ricco che era si è fatto povero”[21], i suoi immaginari rappresentanti si arricchiscono impoverendo il popolo:

“Il prelato della Chiesa è un leone che rugge con la sua superbia, un orso affamato con le sue rapine, che spoglia il misero popolo”[22]“Ecco a chi viene affidata oggi la sposa di Cristo, il quale fu avvolto in panni e adagiato in una mangiatoia, mentre essi si rivestono di pelli e si abbandonano alla lussuria in letti di avorio”[23].

Chierici e cretini

Nella sua invettiva Antonio non esita ad accusare le voraci autorità ecclesiastiche per il commercio che fanno del Signore:

“Gesù Cristo, oggi viene venduto da quei mercanti che sono gli arcivescovi, i vescovi e gli altri prelati della Chiesa. Corrono e discorrono; vendono e rivendono la verità per le menzogne, distruggono la giustizia con la simonia”[24].

Gesù aveva paragonato il Tempio ad una spelonca e i sacerdoti a banditi che vi ammassano la refurtiva[25]. Per Antonio, la curia non è altro che un luogo di loschi affari, di bustarelle e tangenti, dove i “Notai della loro curia, che sono degli infami sfruttatori (scrocconi), succhiano il sangue dei poveri, svuotano le borse dei ricchi, e distribuiscono a nipoti e nipotine e, forse anche a figli e figlie”[26].

Nei suoi scritti Antonio parla spesso di “figli e figlie” di ecclesiastici. Forse il celibato dei preti doveva fare acqua da tutte le parti, se Antonio, senza peli sulla lingua, può denunciare pubblicamente il clero di paternità non solo spirituali:

“I prelati e i sacerdoti del nostro tempo… hanno realmente mogli e figli, serpenti che gridano dietro ai sacerdoti: Guai, guai!”[27]“Le orse del nostro tempo, cioè i prelati corrotti, partoriscono carni morte, cioè i figli carnali”[28].

Il santo non si limita a denunciare il comportamento morale degli ecclesiastici, ma rigetta pure il loro vuoto insegnamento.

Per Antonio i prelati sono come gli scribi che onorano il Signore con le labbra, mentre il loro cuore è là dove hanno il tesoro[29]:

“Tutto il giorno gridano in chiesa, abbaiano come cani, ma non capiscono neanche se stessi, perché hanno il corpo in coro ma il cuore nel foro”[30].

Antonio sbugiarda l’ostentata santità degli uomini di Chiesa e afferma che la loro esibita devozione in realtà nasconde il vuoto:

“I trafficanti sono gli abati e i priori ipocriti e i falsi religiosi, i quali, per il denaro della lode umana, nella piazza della vanità mondana vendono le false merci di una santità che non hanno sotto il pretesto della religione”[31].

E come Gesù aveva messo in guardia da quei teatranti che pregano “stando ritti per essere visti dalla gente”[32], così Antonio invita a non farsi ingannare dai pii atteggiamenti di quei religiosi che sembrano essere in contatto con Dio. In realtà essi sono già nella dannazione:

“E chi poteva mai immaginare che i prelati e i religiosi, che fanno le viste di parlare con Dio faccia a faccia, che detengono le chiavi del regno dei cieli, potessero essere condotti all’esilio della morte eterna!”[33].

Queste feroci reprimende avranno avuto effetto?

Probabilmente no.

Nel bel mezzo della sua voluminosa opera, Antonio si rende conto di parlare al vento, e amaramente conclude il suo sermone dichiarando che i prelati, chiusi nella loro arroganza, “anche se ascoltano una predica, non capiscono. Predicare ai chierici e parlare ai cretini: quale utilità in entrambi i casi, se non chiasso e fatica?”[34].

note:

[1] Fernando de Bulloes y Taveira de Azevedo nacque a Lisbona (Portogallo) verso il 1190-95 e giovanissimo entrò tra i Canonici regolari di S. Agostino. La visione delle reliquie dei cinque primi martiri francescani lo spinse, nel 1220, a entrare nell’Ordine dei Frati minori, dove assunse il nome di Antonio. Incaricato da San Francesco di insegnare teologia ai frati, fu il più grande predicatore del suo tempo e venne definito da Papa Gregorio IX “Arca del Testamento e armario della Iscrittura divina”. Ammalato d’idropisia morì all’Arcella (Padova) il 13 giugno 1231.

[2] Il Sant’Uffizio, ancora nel 1948, proibiva la traduzione in lingua italiana dei “Sermones Dominicales”, perché i fedeli non erano pronti (dopo sette secoli) a sostenerne l’impatto.

[3] Sermone della IX Domenica di Pentecoste (I, 9). Trad. it. “Sant’Antonio di Padova, I Sermoni”, trad. di Tollardo G., (Padova: EMP, 1996).

[4] Nm 22,21-30.

[5] Serm. Dom. Palme, 3,11.

[6] Mt 23,24.

[7] Lc 6,27-28.

[8] Serm. IX Dom. Pent. 1,9.

[9] II Serm. II Dom. Quar. 1,4.

[10] Serm. VI Dom. Pasqua, 2,10.

[11] Serm. XXII Dom. Pent., 1,2.

[12] Serm. XII Dom. Pent. 1,2.

[13] Serm. Annunc. 3,14.

[14] Serm. IV Dom. Pent. 3,13

[15] Serm. X Dom. Pent1,9.

[16] Serm. X Dom Pent. I,9.

[17] Serm. IV Dom. Pent3,14.

[18] Mt 10,8.

[19] Serm. V Dom. Pent. 2,15.

[20] Serm. V Dom. Pent. 2,15.

[21] 2 Cor 8,9.

[22] Serm. IX Dom. Pent1,7.

[23] Serm. Annunc. 3,14.

[24] Serm. XII Dom. Pent. 1,4.

[25] Mc 11,15‑17.

[26] Serm. XIII Dom. Pent. 3,23.

[27] Serm. V Dom. Pent. 2,11.

[28] Serm. IV Dom. Pent3,14.

[29] Mt 15,8; 6,21.

[30] Serm. X Dom. Pent. 1,9.

[31] Serm. XII Dom. Pent. 1,4.

[32] Mt 6,6.

[33] Serm. XII Dom. Pent. 1,4.

[34] Serm. X Dom. Pent. 1,9.

*L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme.

Biblista e assiduo collaboratore de ilLibraio.it, è una delle voci della Chiesa più ascoltate da credenti e non credenti. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (MC), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Con Garzanti ha pubblicato Chi non muore si rivede, Nostra signora degli ereticiL’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi, Due in condotta, La verità ci rende liberi (una conversazione con il vaticanista di Repubblica Paolo Rodari) e Botte e risposte – Come reagire quando la vita ci interroga. Il suo ultimo libro, sempre edito da Garzanti, è dedicato alla figura di Bernadette.



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