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Rosanna Virgili: Elisabetta, la nascita di Giovanni come "dono di Dio"

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16 Aprile 2024


«Nei giorni di Erode, re della Giudea c’era un certo sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, sua moglie era tra le figlie di Aronne, e si chiamava Elisabetta. Erano giusti ambedue davanti a Dio e camminavano senza macchia in tutti i precetti e i decreti del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti nei loro giorni» (Luca 1,5-7).

Elisabetta entra nel racconto del Vangelo di Luca nella prima scena, quella che ha come protagonista il sacerdote Zaccaria. Ha un nome teoforo (”Dio ha giurato”) ed è una figlia di Aronne – stirpe sacerdotale – andata in moglie a un sacerdote, donna di piena ortodossia, osservante della Legge come suo marito ma – a differenza di lui – indicata come responsabile della sterilità della coppia («perché Elisabetta era sterile»). Su di lei cadeva il peso di ciò che tutti i Giudei percepivano come una sanzione durissima da parte di Dio, vale a dire la mancanza della discendenza. 

Nonostante si dica della sua osservanza, l’impotenza e l’infelicità di Elisabetta destano il sospetto di una colpa. Ma se il suo corpo è sterile non lo è il suo cuore: mentre suo marito, perfetto nel suo sacerdozio, ha, infatti, il cuore chiuso e incapace di credere alle parole dell’Angelo che gli annunciano la nascita di un figlio (cf. Lc 1, 14.20), Elisabetta riveste di speranza e di un riserbo fecondo il miracolo di una gravidanza. 

«Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, colse un frutto nel grembo e si nascondeva per cinque mesi dicendo: “Ecco quale cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è preso cura di cancellare per sempre la mia vergogna dinanzi al giudizio umano”» (Lc 1,23-25). Alla paura o allo scetticismo dinanzi a un parto da primipara attempata – come si dice oggi – Elisabetta oppone la gioia per la libertà dalla vergogna, dal suo doversi nascondere tra gli uomini. Dalle ingiustizie che alle donne procurava la Legge! Elisabetta canta con le parole di Rachele, la grande matriarca di Israele, la moglie di Giacobbe, quando, anch’ella sterile, fu incinta di Giuseppe ed inneggiò: «Dio ha tolto il mio disonore» (Genesi 30,23). 

Dopo una lunga parte che il primo capitolo del Vangelo di Luca dedica all’annuncio a Maria, alla Visitazione e al Magnificat (cf. Lc 1,26-56), la storia si sviluppa nel racconto della nascita del figlio di Elisabetta: «Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i consanguinei seppero che il Signore aveva largheggiato in misericordia con lei, e gioivano insieme a lei. All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No! Si chiamerà Giovanni» (Lc 1,57ss.). 

A otto giorni dalla nascita si deve circoncidere il bambino. Questo rito rendeva il neonato figlio di Abramo a tutti gli effetti, cioè erede della promessa che Dio aveva fatto al patriarca e al popolo legato al Dio dell’alleanza. Oltre a farsi presenti per celebrare il rito, vicini e parenti propongono anche il nome da imporre al piccino, a suggerire il nome di suo padre, del sacerdote Zaccaria (“il Signore ricorda”) come segno di continuità con la tradizione che custodiva e proteggeva l’identità del popolo eletto e del sacerdozio del Tempio. Ma la madre dice “no”! 

Elisabetta oppone una sorta di obiezione di coscienza dinanzi all’identità di questo figlio che doveva essere impressa ed espressa nel suo nome: non può chiamarsi Zaccaria perché non viene e non volge verso Zaccaria, alla tradizione, al passato, ma è il frutto di un nuovo, meraviglioso, inatteso “dono di Dio”, libero da ogni “brevetto” acquisito. Si deve chiamare Giovanni che significa, appunto, “dono di Dio”. Questa è la verità! Lei ne ha respirato la bellezza, la grazia, il miracolo. Era arrivato come una notizia a sorpresa quando, da anni, non ci sperava più. Giovanni è, dunque, il dono di Elisabetta, il fiore di Grazia che tutti noi – grembi ormai attempati e sfiduciati – attendiamo come la fioritura di una nuova storia, di una rinnovata Chiesa, di una universale, fraterna umanità.


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