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Massimo Recalcati "Caso Scurati, alle radici della censura"

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La Repubblica, 25 aprile 2024 

La dottrina e la pratica della democrazia escludono una concezione proprietaria della verità. È un esercizio difficile ma necessario. Perché è la sola testimonianza oggi possibile dell’antifascismo

Il recente caso Scurati ha sollevato il grande tema della censura. Perché si tratta di un grande tema? Perché è in gioco la definizione teorica e pratica della democrazia. Le istituzioni, i collettivi e i gruppi ideologicamente autoritari e le dottrine politiche avverse allo spirito della democrazia hanno praticato e praticano sistematicamente la censura. La praticano senza censure, si potrebbe dire con un gioco di parole solo apparente, poiché nella loro prospettiva l’esercizio della censura è sempre considerato più che legittimo. 

Scurati lo ha mostrato in modo evidente nel suo straordinario lavoro dedicato a Mussolini e alla storia del fascismo nel nostro Paese. Ma, più in generale, se proviamo ad allargare il discorso al di là del fascismo del ventennio, ogni Chiesa impugna il bastone della censura nel nome della salvaguardia dei suoi valori ritenuti, ovviamente, superiori ad ogni altro valore. 

Il problema antropologico è che questo esercizio non viene vissuto in chi lo esercita come una restrizione della libertà altrui ma come una espressione della Verità. Ecco perché la censura viene eseguita in questi casi senza censure. Anzi, da questo punto di vista, essa più è pubblica, palese, manifesta e più è efficace. 

Per esempio, togliere la parola a chiunque non sia allineato a determinate posizioni teoriche in Università pubbliche o strappare i manifesti degli avversari politici affissi a norma di legge è un palese esercizio della censura che tutela i valori di chi la esercita, dunque, in ultima istanza, la Verità condivisa dai censori. 

In questo senso la censura porta sempre con sé una dimensione religiosa difendendo una versione assoluta della Verità. La metamorfosi del censore in inquisitore che deve discreditare moralmente il censurato è sempre in agguato. Non a caso anche nell’affaire Scurati c’è chi ha evocato una questione di soldi per riportare la voce nobile di chi difende l’onore dell’antifascismo ad una miserevole questione di spiccioli. 

Censura e diffamazione solitamente vanno a braccetto. Ha colpito Pasolini in quanto lurido omosessuale o il direttore del nostro giornale in quanto servo di Israele. 

Ma, ovviamente, gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito. Se si può dire della censura quello che Roland Barthes diceva di ogni lingua, ovvero che è sempre fascista. Ma se questo è vero essa resta tale anche quando viene compiuta nel nome dell’antifascismo o di qualunque altro ideale. 

Non possono esistere, infatti, due pesi e due misure. La sinistra autoritaria, estranea allo spirito laico della democrazia, ha, per esempio, come ogni Chiesa, sempre fatto un uso sistematico della censura. 

È la sua eredità stalinista. E, come accade sempre nell’uso religioso della censura, quell’esercizio era ovviamente giustificato nel nome del carattere supremo della Causa. Il mondo universitario che dovrebbe essere il terreno di cultura del pluralismo e dello spirito della democrazia è oggi attraversato da rigurgiti ideologici autoritari che vorrebbero decidere chi ha diritto di parola senza comprendere che, come accadeva clamorosamente negli anni Settanta, questo stesso gesto è contrario alla libertà di parola che è invece compito di ogni democrazia tutelare. 

Il punto è che la teoria e la pratica del pluralismo democratico esigono la rinuncia al privilegio di una rappresentazione proprietaria della libertà. Il punto è che per essere democratici occorre un grande sforzo soggettivo. Non a caso per Freud la censura si esercita innanzitutto nel soggetto stesso. È il segno di una tendenza autoritaria della personalità che vorrebbe cancellare ipocritamente i propri desideri nel nome di un adattamento conformista alla realtà. Per questo egli auspicava una democrazia interna dove le diverse parti che compongono la soggettività potessero manifestare liberamente la loro istanza. 

La democrazia impone, infatti, il lutto del pensiero unico, dell’unica lingua, del soggetto come identità compatta e indivisa. Si tratta di un lavoro tortuoso e doloroso poiché implica la rinuncia ad ogni versione religiosa della Verità. Ma questo lavoro viene rigettato dalle ideologie autoritarie che ritengono di possedere la Verità e che, pertanto, censurano tutto ciò che non coincide con la loro Verità. 

La dottrina e la pratica della democrazia implicano invece la rinuncia alla tentazione della censura perché escludono una concezione proprietaria della verità. È un esercizio difficilissimo ma necessario perché è la sola testimonianza oggi possibile e credibile dell’antifascismo.


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