Alberto Carrara «Noi siamo responsabili della morte di Gesù»
Nella spiritualità così come nelle devozioni che costellano il periodo quaresimale, spesso ritornano motivi, preghiere e riflessioni che alludono al fatto che tutti noi siamo in un certo senso “responsabili” della morte di Gesù, in particolare continuando a rifiutare il dono della sua morte salvifica con il nostro agire segnato dal peccato. La domanda, tuttavia, sarebbe proprio: qual è questo senso?
Il presente dossier vorrebbe affrontare questo modo di dire: «Siamo responsabili della morte di Gesù», cercando di metterne in luce la pertinenza con l’autentica fede cristiana e il suo possibile significato per una matura e consapevole vita spirituale, evitando vittimismi o pseudo-spiritualismi.
La partecipazione dell’umanità, a diversi livelli, alla morte in croce di Gesù richiede un serio discorso teologico, fondato su una ripresa meditata dei testi evangelici in tutta la loro portata, un valido ripensamento delle categorie teologiche troppo spesso “banalizzate” con superficialità, e la considerazione del valore della colpa e della responsabilità in prospettiva antropologica.
Gli interventi qui raccolti vorrebbero offrire delle piste per fare chiarezza sull’argomento, recuperare gli elementi validi e fondamentali di questa espressione che ha segnato (e continua a segnare) la meditazione e la devozione cristiana, e insieme aprire nuovi orizzonti per sentirci positivamente partecipi dell’evento di salvezza e d’amore che è la morte in croce di Gesù.
1. «Noi siamo responsabili della morte di Gesù», di Alberto Carrara. Diverse e non sempre chiare o lineari sono le riflessioni teologiche condotte attorno alla morte di Gesù, nel tentativo di comprenderne il senso, la dinamica e poter così assegnare una “colpa”. Forse, è necessario rileggere la Crocifissione da un diverso punto di vista, oltre la dinamica del “capro espiatorio” verso quella salvifica del Figlio che si dona.
L’espressione su cui vogliamo soffermarci in questo dossier non è la confessione dimessa di un peccatore che dichiara le sue colpe. Proprio perché non definita, l’espressione consente o, forse obbliga, a pensare che non sono coinvolti solo alcuni, ma tutti. Si potrebbe, quindi, facilmente completarla così: «Siamo tutti responsabili della morte di Gesù». Da notare però il termine che fa da perno a tutta la frase: «responsabili», non «colpevoli». Il dizionario Treccani online definisce così il termine: «responsàbile (ant. risponsàbile) […] 1. agg. e s. m. e f. a. Che risponde delle proprie azioni e dei proprî comportamenti, rendendone ragione e subendone le conseguenze».
Invece, per «colpevole» lo stesso dizionario dice: «Responsabile di un’azione che costituisce colpa; più genericamente, che è in colpa, che è macchiato di colpe».
Dunque, l’espressione dice che dobbiamo rispondere della morte di Gesù, dobbiamo assumercene le conseguenze. Non dice, per sé, che quella morte è colpa nostra. Una certa tradizione cristiana era, a questo proposito, decisamente più esplicita. A partire dalla Prima lettera ai Corinzi: «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (15,3) si era arrivati a forme spesso pesanti di colpevolizzazione collettiva. L’appello alla responsabilità nel nostro modo di dire è, diciamo così, più leggero: un invito a prendere sul serio quella morte, considerarla evento che ci riguarda, ci tocca. La colpevolezza, forse, è sullo sfondo, ma non è esplicitamente affermata.
Non è necessario sentirsi in colpa per sentirsi responsabili.
1. «Noi» e «responsabili», oggi
Oltre al termine «responsabili» è fondamentale il «noi».
Dei possibili interlocutori con i quali l’uomo crocifisso del Golgota è coinvolto, il nostro modo di dire cita quelli verso il basso, verso «noi», appunto. Non cita quelli verso l’“alto”, il Padre e lo Spirito. Non li nega, certo, ma non li cita. Di conseguenza, resta in sordina quella che la teologia chiama «l’economia della salvezza». Di tutte le disposizioni e gli eventi nei quali Dio si apre agli esseri umani e li salva, si cita soltanto la morte di Gesù, collocata oltretutto sotto il termine forte ma limitante della responsabilità umana.
Tutto questo risalta ancora di più se confrontato con le espressioni portanti della teologia biblica della Pasqua. È noto come la Pasqua, nella Bibbia, è un evento trinitario. Si commenta spesso l’espressione passiva usata da Paolo: il Figlio «fu risuscitato» (1 Cor 15,5). La risurrezione di Gesù è iniziativa del Padre. Il tema ritorna più volte nel Nuovo Testamento (At 2,24; 3,15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,30.37; Rm 4,24.25; Gal 1,1; Ef 1,20; 1 Ts 1,10; 2 Tm 2,8). Anche per questo, l’intero mistero pasquale, e non solo la morte, è «salvezza». Il concilio Vaticano II ha contribuito a rendere comune questa visione teologica della salvezza. A questo proposito, viene in mente un nome che, per molti di noi, ha contribuito ad acclimatarci a questo tema: François-Xavier Durwell, che, con il suo celebre La risurrezione di Gesù. Mistero di salvezza (1) , ha fatto storia. In un libro più recente, lo stesso Durwell riassume efficacemente gli aspetti “celesti” del mistero della Pasqua:
Interamente filiale, la morte di Gesù è trinitaria. La generazione da parte del Padre, l’accoglienza da parte del Figlio si compiono nel mistero dei Tre. Lo Spirito Santo è onnipresente nella Pasqua di Gesù. Egli è la potenza glorificante con la quale il Padre dona di morire verso di lui, la potenza accogliente con la quale il Figlio muore verso il Padre. Il Padre dona di morire, il Figlio muore, lo Spirito Santo è il santo morire, lui che è «lo Spirito di vita» (2) .
Questa prospettiva si smarrisce di fronte al tema della responsabilità umana nei riguardi della morte di Gesù. Lo splendore divino dell’amore che si offre viene come offuscato dall’uomo che, con la sua responsabilità, deve farsi carico della morte del Salvatore.
2. I responsabili di allora
Il modo di dire che stiamo commentando parla della nostra responsabilità, che viene data come scontata. Il tema intriga se si confronta la nostra responsabilità così perentoriamente affermata con la responsabilità di coloro che hanno effettivamente messo a morte Gesù. La quale è insieme più diretta ma meno chiaramente definita. È un tema molto dibattuto, come noto. Dai racconti evangelici veniamo a sapere che la condanna a morte di Gesù, quello che potrebbe essere definito il suo assassinio, sia stata decisa soprattutto dalla casta sacerdotale e dai gruppi che governavano il tempio. Questi, però, hanno delegato, in qualche modo, l’esecuzione capitale di Gesù al potere romano, con il quale erano ampiamente conniventi. La responsabilità storica nella morte di Gesù è fluida, dunque. I responsabili sono evidenti, anche se non è evidente in che misura e in che forma attribuire la responsabilità ai due poteri coinvolti. Quello che diventa evidente è una specie di cerchio degli accusatori che si stringe attorno all’accusato. La colpa di Gesù non appare, per la semplice ragione che non c’è. La colpa è comunque affermata dal convergere unanime degli accusatori contro di lui.
3. Gesù, l’innocente Gesù è innocente.
È la verità semplice e sconvolgente che è stata variamente elaborata dall’antropologo francese René Girard. In altri termini, nei vangeli si racconta che Gesù viene designato come capro espiatorio esemplare (3).
Avviene spesso che una società entri in una crisi grave, in uno stato di violenza generalizzato in cui tutte le articolazioni, le “differenze”, sulle quali la società si regge, vengono meno. Sono i momenti cruciali delle grandi pestilenze, degli scontri tra fazioni rivali, delle lotte politiche… Gli uomini che fanno parte di quella società si aggrediscono gli uni gli altri. Quando la crisi raggiunge il massimo, i protagonisti si accorgono che tra di loro c’è qualcuno che si distingue o perché più grande degli altri, come il re, oppure perché più debole e marginale: l’handicappato, lo straniero. Basta questo piccolo segno distintivo perché la società si volga verso di lui per designarlo irrazionalmente come il responsabile di tutto. È la «crisi delle differenze» o «crisi sacrificale» della quale Girard ha parlato in La violenza e il sacro (Milano 1993) oltre che in diverse altre opere, e la vittima designata diventa, appunto, capro espiatorio. Tutti puntano il dito contro di lui e avviene, in maniera sorprendente, il miracolo: prima erano tutti contro tutti, ora tutti sono d’accordo nel dire che uno solo è colpevole. La società si trova riconciliata.
Nei riguardi di questa “verità” la Bibbia, sempre secondo Girard, dice una cosa colossale, diversissima nei riguardi della vittima espiatoria: la vittima così ostinatamente dichiarata colpevole è, invece, innocente. Nei vangeli, e in particolare nei racconti della Passione, l’innocenza di Gesù viene proclamata solennemente. Nel Vangelo di Giovanni si trova una definizione di una chiarezza folgorante. È Caifa che parla. Egli dice, a proposito di Gesù: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50).
Dunque, Gesù è innocente, muore per evitare che perisca il popolo. Il condannato non è condannabile e, per riprendere l’espressione del nostro modo di dire, il responsabile non è colpevole.
4. Responsabili, oggi. L’uso distorto della nostra libertà e la morte che dà la vita
Il meccanismo facile del capro espiatorio non funziona più, dunque. Gli uomini sono sì responsabili, ma delle loro azioni, buone o distorte, dell’uso, buono o distorto, della loro libertà, non della morte del Signore.
Dire «noi siamo responsabili» della morte di Gesù, infatti, significa certo “liberare” Gesù del fardello pesante di un male che non ha commesso. Per farlo, però, ci assumiamo noi la responsabilità della sua morte. Abbiamo cambiato vittima ma abbiamo mantenuto vivo il meccanismo che la designa.
La vera alternativa è alzare gli occhi e riconoscere nel morente della croce colui che libera. La notizia è che non siamo stati noi a ucciderlo, ma che la sua morte è «per noi», una risposta alla nostra morte. Lui solo è capace di liberare dal peso delle colpe perfino un delinquente che sta morendo con lui: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43), dice Gesù al “buon ladrone” crocifisso accanto a lui.
Non siamo noi, dunque, a dare la morte a lui. Non ne siamo colpevoli e, ad essere precisi, non ne siamo neppure responsabili. Di certo, però, una luminosa e consolante verità è che è lui a dare la vita a noi.
1 F.-X. Durwell, La risurrezione di Gesù. Mistero di salvezza, Città Nuova, Roma 1993.
2 Id., La mort du Fils. Le mystère de Jésus et de l’homme, Cerf, Parigi 2006, 182
3 Cf. R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 2020.