Di quest’ultima potevamo anche fare a meno. Delle offese a Gino Cecchettin sul web, intendo. E meno male che c’è un padre come questo! Voglio ringraziare il padre di Giulia per il suo discorso lucido, critico, ma misurato e amorevole. Non è un discorso da «padre padrone», ma da «padre». Ecco, è questo che manca ai nostri adolescenti. Se è giustificato l’utilizzo del termine patriarcato da parte della sorella di Giulia, presa da un dolore profondo, e se può diventare un facile slogan nelle manifestazioni, ritengo che il concetto di patriarcato sia inapplicabile alla società occidentale attuale. Il termine patriarcato si riferisce ad un tempo nel quale la presenza paterna era l’autorità, la legge, il diritto di vita e di morte sui familiari, come nel caso dell’omicidio di Saman Abbas. Esercita forza repressiva, rende impossibile anche soltanto pensare prospettive alternative. Grazie soprattutto, dobbiamo dirlo, alla succube condiscendenza materna ed intrafamiliare.
Evaporazione del padre
Forse più che una società patriarcale dovremmo parlare, oggi, di una «società senza padri». Chi siano i padri nella nostra società è un tema del quale dibattiamo poco. Recalcati parla di «evaporazione del padre». La sua figura appare oggi come una delle più complesse del nostro tempo, molto spesso trascurata e collocata, invece, solo nel contesto extrafamiliare e ricondotta al suo ruolo, prestigio, realizzazione o ai loro contrari.
Mentre decliniamo l’educazione soprattutto al femminile; dell’insegnante, della maestra, della madre alle quali viene delegata anche la trasmissione delle regole sociali.
Il conflitto necessario
La mia generazione, per nostra fortuna, ha potuto costruire una identità autonoma proprio attraverso il conflitto con i padri, e questo ci ha permesso di crescere. Essere vissuti all’epoca del «parricidio rituale» di un padre «reale», come massimo segno di contestazione ad una autorità esplicita, incarnata in un padre presente e spesso ingombrante, è stato, però, anche il massimo segno di riconoscimento della figura paterna. Ciò ha permesso di dare spazio anche a grandi padri «ideali» che sanno accompagnare lungo il dubbio. Padri che non danno lezioni e che permettono di «provare» la propria vita (Morin), inducendoci a un pensiero ricco di interrogazioni. Diciamolo in una parola, un padre autorevole.
Invece, ora, «del padre è rimasto ben poco» (Mitscherlich). Semmai siamo di fronte alla sua dissoluzione; diventa un «padre invisibile», un padre che ha perduto di «concretezza fisica», assente per separazione o divorzio, per la scelta di madri single, per famiglie disgregate.
La sua funzione educativa viene spezzettata, delegata, frammentata. Per dirla con un solo termine «esautorata». La sua assenza attiva una dinamica sotterranea, meno esplicita di quanto sia stato in quel sano conflitto generazionale al quale mi riferivo.
Nei «casi» di disagio o disabilità discussi nel mio Corso di laurea fiorentino, ad esempio, «i padri» non c’erano mai! Spesso il disturbo psichico o il disagio sociale si erano costruiti anche attraverso l’assenza di confronto con la figura di un padre «reale».
In questi ultimi anni, il progressivo impallidire dell’immagine paterna ha prodotto una forma di relazione di frequente ambigua per la presenza contraddittoria di assertività e di indifferenza, di affettività e rigore. Padri spesso irresponsabili e lontani, per ragazzi che non hanno alcun un punto di riferimento che gli permetta di riconoscersi in essi né di ritenerli esempi di scelte consapevoli.
Invece la figura del padre non ha solo una portata psicologica, ma storica, e riappare proprio nell’autorevole discorso del padre di Giulia: «A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte».
Questo invito ad assumere su di sé una responsabilità personale ha, come hanno detto in molti, il tono di una orazione civile; ma quale padre ha l’autorevolezza per dire «no» che non appaiano supponenti, irragionevoli e a volte cattivi.
La mancanza di auctoritas
La figura del padre ha sofferto del progressivo svuotarsi dell’auctoritas, dell’esempio, dell’orgoglio di appartenenza, riducendo la sua funzione spesso al solo aspetto economico. Limitato lo scambio diretto di esperienze, ridotti i tempi da poter condividere, districandosi con difficoltà tra modelli di vita dissolti in rivoli contraddittori, i progetti di vita dei ragazzi vengono proiettati verso l’esterno, anzi spesso nascono proprio per essere estranei. I padri, «relegati nel regno delle ombre» della vita lavorativa (Mitscherlich), perdono troppe volte l’opportunità di assolvere al compito affettivo di vivere insieme la prassi della vita quotidiana ed esercitano soltanto quella che Pasolini chiamava una «pedagogia delle cose», di quelle cose che costituiscono i simboli dei valori in cui si crede. La maggior parte dei padri è invisibile, indifferente o pervasa dal senso di colpa per la propria assenza, da non esercitare più la funzione di «scomoda» guida, ma quella di «concretizzatore» dei desideri (l’ultimo telefonino, la scarpa firmata, il tatuaggio estremo), oppure di strenuo difensore dei propri figli contro tutte le avversità della giornata, incarnate dalle valutazioni scolastiche o sportive, per esempio. Il peso del proprio insuccesso si riversa nelle prestazioni del figlio, in una dimensione spesso fanatica di un padre che ha bisogno dei figli per sanare le proprie insoddisfazioni, per insegnare loro a «vincere» al posto suo!.
I padri di oggi
Qual è, allora, oggi la funzione educativa del padre è un interrogativo al quale non è facile rispondere.
La diffusione di uomini «tesi, contratti, angosciati» dalle difficoltà economiche (Riesmann) e insoddisfatti di sé, privi a volte di un riconoscimento familiare, interviene nel rapporto educativo in forma nascosta e pericolosa. Emblematico e dolente, come spesso solo la letteratura sa essere, è questo dialogo amaro da «Vittima del dovere» di Ionesco. «Figlio, il mio mestiere mi obbligava a girare per tutto il mondo, da ottobre a marzo nell’emisfero nord; da aprile a settembre nell’emisfero sud. C’erano, nella mia vita, soltanto inverni». «Padre non ci siamo mai capiti. Eri duro, non eri forse cattivo… non odiavo te, ma la tua prepotenza, il tuo egoismo… Non avevo pietà delle tue debolezze… Avremmo potuto essere buoni amici… Avevo torto a disprezzarti. Non valgo più di te… Guardami. Ti assomiglio».
Allora, in una «società senza padri», prigionieri a loro volta della loro vita, poveri di autorevolezza e dagli ideali lacunosi, resi insignificanti agli occhi dei figli dagli sforzi quotidiani, diventano incapaci di educare ad un «io culturale» solido e contemporaneamente flessibile.
Semplicemente il figlio cerca i propri modelli al di fuori di lui; in «eroi leggendari, forti e senza paura», in influencer resi mitici dall’amplificazione dei media, in figure significative di gruppi sociali spesso «portatori di regole irregolari».
In questa che sempre più diventa una «epoca delle passioni tristi» (Benasayag e Schmit), i padri non riescono a più a costituire quella sana sponda grazie alla quale le trasgressioni e i conseguenti richiami all’ordine sono «una sorta di gioco tra desiderio ed esame di realtà». Padri incompiuti, intolleranti, eterni adolescenti, insicuri e indifferenti. Ma soprattutto padri lontani, perché la grossa difficoltà è nel costruire identità distinte se partiamo da identità distanti.
Patrizia de Mennato
Fonte: Corriere del Mezzogiorno
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