Con la guida profonda e sensibile di don Pierangelo Sequeri andiamo in cerca dei segnali che orientano la fede dentro la cultura di questo scorcio del nostro tempo nel quale vediamo prevalere fattori di incertezza che sembrano scoraggiare l’esperienza credente. Ogni domenica per otto settimane il celebre teologo milanese, da tempo firma cara ai lettori di Avvenire, ci condurrà alla scoperta della «fede dove non te l’aspetti» attraverso parole-guida offerte a tutti i «cercatori e trovatori».
Il futuro è un’invenzione recente. Naturalmente, non parlo del futuro elementare, quello dei verbi della grammatica e quello del tempo dell’orologio, che viene dopo il presente e il passato. Intendo "il futuro" pensato come destino dell’avventura umana, come approdo della storia totale, come icona di un mondo che ha finalmente risolto i suoi problemi e trovato la sua forma ideale.
"Questo" futuro non è sempre esistito. Possiamo considerare come segno emblematico di questa specializzazione antropologica dell’idea di futuro l’operetta di Tommaso Moro, Utopia, pubblicata nel 1516. L’operetta, scritta nella forma di un romanzo di viaggio, ha trovato un nome anche per questa nuova idea di futuro, che avrà molto successo: utopia, appunto. Il nome, inventato da Moro, attinge al greco, giocando però su una intrigante ambivalenza. La versione latina del nome "utopia" è compatibile sia con un’origine greca di un composto che significa "luogo ottimo" (se lo fai derivare da eu-topia, buon-luogo), sia con una combinazione che significa "nessun luogo" (da ou-topia, "non luogo"). Il titolo ebbe più fortuna del contenuto e diede un nome al senso della storia: il nostro compito è costruire il futuro, tenendo davanti agli occhi la città ideale.
Ma che cosa c’era prima dell’invenzione del futuro come senso della storia? La risposta non è difficile: essenzialmente c’erano due cose.
La prima era il passaggio fra la Terra e il Cielo. Due mondi completamente diversi. Il Cielo non era il futuro della Terra, era l’al di là del mondo, fuori dal tempo: il mondo degli eroi, dei trapassati, degli spiriti. La storia invece rimaneva interamente nel tempo, destinata a consumarlo e a esserne consumata. La seconda cosa che c’era, prima dell’invenzione del futuro, era lo sforzo di assicurarsi la stabilità immutabile del presente, allargando il suo dominio, mirando alla sua virtuale immortalità. Gli Imperi facevano così. E producevano il riflesso di questa immagine nella vita dei popoli e dei singoli. Un giorno tutta la terra sarà sotto Cesare, sotto Serse, sotto Alessandro, sotto Hitler ("E domani il mondo intero").
Questi due schemi continuano ad agire, naturalmente, sia pure nelle forme più diverse. La costruzione del futuro di utopia - ossia di una società umana pienamente soddisfatta del suo benessere e perfettamente regolata dalla sua intelligenza - ha avuto successo. Le grandi ideologie del Novecento vi hanno attinto a piene mani.
Tuttavia, affidare il nostro destino al futuro ha le sue controindicazioni. Nel futuro appaiono anche forze che non si lasciano addomesticare e pulsioni distruttive alle quali l’umano non resiste. Il risveglio è più duro, se il sonno era pesante. L’allarme aveva incominciato a darlo la fiction, ricordate? Proprio nei decenni del progresso verso il futuro di utopia, la fantascienza narra ostinatamente e implacabilmente di un futuro "distopico". L’immaginazione del futuro approda alla catastrofe globale del day-after: atomica, pandemica, aliena, robotica, e non so che altro. Come mai? Come è potuto accadere che, nel bel mezzo della spinta di un futuro progressivo, l’immaginazione si sia impiantata così ostinatamente sulla fine del mondo? L’apocalisse non era una superstizione medioevale, roba dell’anno mille? Di più. Nella fase attuale della storia, tuttavia, la fine del mondo sta diventando una lucida previsione della scienza e non più soltanto un incubo della fantascienza. L’ingenua ambizione di costruire il regno di Dio in terra ci ha fuso i circuiti e i motori (ci siamo forse cascati anche noi credenti, nonostante gli ammonimenti di Gesù?).
Inseguendo l’Isola che non c’è abbiamo perso di vista la Terra che c’è. La Terra è molto imperfetta, ma anche molto umana. Forse Dio è rimasto l’unico a commuoversi per l’umanità della terra, anche se imperfetta e piena di falle. La commozione di Dio non è riservata al futuro, né al presente. I bambini uccisi da Erode possono forse essere archiviati e scaricati nel buco del lavandino del tempo passato? La storia è in debito con essi, come con quelli che ammazza ora.
L’idea di svenarci per un futuro ideale non ci avvicina alla soluzione del senso della vita: anzi, rischia di rendere più doloroso il contraccolpo della disillusione (come sta avvenendo ora, soprattutto per le giovani generazioni). Vi dico il mio pensiero con una paraboletta banale. Il vostro bambino è a tavola con voi, vede la televisione intanto che mangia. La pubblicità commerciale mostra una madre in carriera, che stira e ammira: bella come una principessa, capelli, trucco, vestiti e forme perfette. Mostra anche un padre in affari, orologio e sartoria esclusivi, che sale sul jet e si commuove per un maccheroncino che la sua bambina gli ha infilato nel taschino del completo gessato. Il vostro bambino vi guarda ed eleva a Dio una muta preghiera: "Signore, perché a me questi due?". L’incanto di un mondo perfetto finisce per avvilire il mondo che c’è. Film come Matrix hanno efficacemente trascritto la virtuale potenza di questa illusione nel linguaggio della sua simulazione digitale. (C’è anche un altro film interessante, benché di fattura meno sofisticata, che si chiama L’Isola, dove un habitat naturalisticamente perfetto, come quello delle pubblicità esotiche, è sorteggiato per pochi eletti di un’umanità segregata dalla contaminazione totale. Nella realtà, i vincitori dell’illusione vengono scientificamente "terminati", e utilizzati come provvista di organi per "l’immortalità" di benestanti che possono pagare).
Tutto lascia pensare che siamo caduti in trappola del tempo dell’orologio: abbiamo trasmesso ai giovani questa strana euforia del futuro come ottimizzazione di un godimento illimitato, che deve arrivare col progresso degli strumenti adatti (ma domani, quelli disponibili sono già obsleti). Questa ingenuità ora mostra la corda e non attacca più.
La buona notizia è che, ormai, dalla trappola del tempo dell’orologio, che decide il senso della storia, possiamo uscire una volta per tutte. Il tempo dell’orologio è utile per ricordare gli avvenimenti e sistemare l’agenda: non di più. La storia non è circolare, non è lineare, non è una spirale (e nessuna delle tre è "biblica"). Liberati dal fraintendimento simbolico dei tempi dell’orologio (chronos), possiamo ora fare mente locale al tempo della vita (kairos). Il tempo dell’orologio è stupido, ingoia tutto, si lascia riempire da tutto, si svuota di tutto con la stessa ottusa indifferenza. La potenza del tempo della vita, invece, ha fame e sete di giustizia degli affetti, nei quali cerchiamo legami eterni. La domanda del tempo della vita è completamente diversa da quella del tempo dell’orologio. Quante e quali possibilità ci sono, qui e ora, per le strategie del voler-bene, che uomini e dèi dovranno onorare - se sono degni del loro nome - per tutta l’eternità? Che cosa devo inventarmi per aprire un varco nel tempo, e resistere in esso, all’amore creativo per un mondo imperfetto, in una società imperfetta, con una vita imperfetta? Quali pensieri, quali politiche, quali poesie, quali macchine, quali musiche, quali racconti, quali coltivazioni, quali manufatti, quali automatismi?
Il Vangelo di Gesù, che ha certamente riaperto tutta la storia religiosa e secolare del tempo del mondo alla identica e struggente prossimità di Dio, attesta una volta per tutte che il regno della prossimità di Dio è all’opera per filtrare la storia imperfetta del tempo-vissuto verso l’eterna allegria del voler-bene.
Il passato non è affatto archiviato, per questa fibrillazione di Dio, che tiene conto - a differenza di noi - di tutti i suoi sospesi. E l’incantesimo di un futuro che tiene in ostaggio i popoli e seleziona i vincenti deve svanire. Non è il futuro dell’uomo. Non è neppure il futuro di Dio. (Gesù l’ha detto chiaramente: succederà sempre di tutto, ma non sarà la fine). La partita della creativa complicità del voler-bene a un mondo ostinatamente imperfetto è molto più eccitante delle lagne religiose o laiche sulla fine del mondo. Non guardare l’orologio, che prima ti agiti per niente e poi ti addormenti per sempre. La rete che riapre la storia e bucherella gli imperi si fa con una manciata di discepoli (quanti ne vuoi avere, più di Gesù, per muoverti?) e con i samaritani, i pubblicani, le cananee, le maddalene, gli zacchei, i due soldi della vecchina e i due pesci dei ragazzi. Sono milioni. Non vogliono costruire il futuro dell’isola che non c’è. Vogliono riaprire la vita della terra che c’è.