Violenza di genere, cosa dice di noi il modo in cui raccontiamo un femminicidio?
Dal 2017 esiste il Manifesto di Venezia realizzato de giornaliste e giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell'informazione. Un vademecum che pone l'attenzione sul «rispetto della deontologia, no al sensazionalismo, a cronache morbose, a divulgare i dettagli della violenza, no all'uso di termini fuorvianti come “amore”, “raptus”, “gelosia” per crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento». Ma molto spesso davanti alla narrazione di crimini come i femminicidi c'è il rischio di porre troppa attenzione sul racconto di chi ha ucciso portando quasi ad empatizzare con lui mettendo in secondo piano la vittima e chi è rimasto.
Qual è il confine tra la curiosità umana e il voyeurismo? Tra la morbosità e il diritto all'informazione? E cosa dice di noi il linguaggio che cerchiamo e utilizziamo in questi casi?Lo abbiamo chiesto alla sociolinguista Vera Gheno.
Perché ci troviamo davanti a questo tipo di narrazione?
«Occorre premettere che esiste un codice comportamentale riferito a come parlare di femminicidi, violenza sulle donne e anche sui minori che è il Manifesto di Venezia. Dunque il modo di avere informazioni corrette ci sarebbe ma ho l'impressione che in certi casi manchi questa volontà e in altri casi ci sono degli interessi che portano, da più in alto, verso una narrazione romanticizzata che possa servire per fare clickbaiting. Quindi è doveroso premettere che ci sono i mezzi ma non vengono utilizzati».
A quale necessità risponde la «narrazione romanticizzata»?
«Il denominatore comune del tono che leggo in tante notizie è quello di cercare una spiegazione che permetta di operare una cosiddetta alterizzazione dell'assassino, cioè riconoscere in qualche modo che è un soggetto esterno alla nostra comunità o perché incapace di intendere e di volere o perché preso da un raptus, o comunque insomma non in grado in quel momento in cui ha agito di farlo razionalmente. Questa necessità di narrare il femminicidio così è volendo anche comprensibile da un punto di vista umano perché è molto più facile pensare “quello non è come noi”, piuttosto che pensare “in determinate situazioni persino io potrei trovarmi a fare una cosa del genere”. Oppure pensare che comunque sia qualcosa che possa rientrare nell'orizzonte delle possibilità anche di un soggetto che fa tranquillamente parte della società, quindi non una cosiddetta “mela marcia".
Da cosa nasce questa esigenza?
«Secondo me tante di queste giustificazioni, come il trovare una motivazione e dire “che in fondo lei però lo aveva lasciato”, eccetera, tutto questo secondo me nasce dall'esigenza di darci delle spiegazioni razionali. Perché semplicemente accettare che ci possa essere un problema sistemico, strutturale che è quello della visione patriarcale della donna come oggetto di possesso, questo è molto più difficile. Nascono da qui tutte quelle reazioni come #notallmen, il bisogno di fare delle distinzioni perché molte persone non capiscono nemmeno la differenza tra sistemico e sistematico».
Spieghiamolo.
«Sistemico non vuole dire tutti gli uomini diventano femminicidi ma significa che riconosciamo che esiste un substrato culturale che permette anche di arrivare a questa soluzione estrema, per fortuna, nella tragicità della cosa, comunque non sempre. D'altra parte, questo desiderio di condividere, umanizzare da una parte l'assassino e quindi raccontare dettagli della sua vita vanno incontro ancher al fatto che purtroppo la vittima non parla più, non ha più nulla da raccontarci mentre la persona che è rimasta in vita sì. Quindi un po' di curiosità rispetto alla persona che è rimasta in vita e che ha commesso il gesto anche questa è abbastanza umana, come capisco la curiosità nei confronti dei particolari morbosi della morte, perché c'è un voyeurismo della morte altrui che è abbastanza umano. Capisco che esista questa pornografia della violenza, che è pornografia della morte che finché non ci tocca personalmente guardiamo con una certa curiosità. La riconosco come una compulsione non per forza positiva ma molto umana e dobbiamo farci i conti».
Cosa c'è di sbagliato allora in questa narrazione?
«Mi perplime di più che ci sia un cedimento, diciamo così, dei mezzi di comunicazione di massa per andare incontro a questa morbosità. Capisco la morbosità delle persone ma capisco meno che i giornali indulgano, pur avendo la carta di Venezia, in questa narrazione, per fare clickbaiting. Allora il focus non è più fare informazione ma farci profitto e su questo sono molto critica».
C'è il diritto all'informazione.
«Sì, secondo me l'informazione si può dare in maniera oggettiva e in maniera completa senza indulgere nei vari tipi di pornografia. Io penso che chi lavora con l'informazione non possa proprio cedere al ricatto della gente perché altrimenti cadiamo in un circolo vizioso. Io credo ancora nella possibilità di mezzi di comunicazione di massa che possano essere il watchdog della democrazia ma anche mostrare una linea etica».
Qual è secondo lei?
«È giusto il racconto di tutto quello che riguarda la vicenda processuale di Filippo Turetta ma forse non è questo il momento di indulgere troppo sulla sua vicenda umana. Cos'aggiunge dal punto di vista di News o del femmincidio il fatto che lui abbia chiesto la Bibbia piuttosto che un'altra cosa? Si rischia di umanizzare l'assassino mentre della vittima invece non si parla quasi più».
Come si diventa più attenti al linguaggio?
«Con la formazione, l'istruzione e il sottolineare la morbosità di certe narrazioni. Non dobbiamo essere soggetti passivi per forza davanti a queste narrazioni ma possiamo anche protestare e questo per me rimane centrale. Abbiamo bisogno di fare analisi della comunicazione e dare strumenti alle persone. Non è semplice denuncia ma dare gli strumenti per comprendere e avere più consapevolezza davanti a certe narrazioni».
Fonte: Vanity Fair