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Rosella De Leonibus "Il corpo delle donne"

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rubrica Psicologia

“Che bel maschiotto!” “Che carina, è una femminuccia!”. Comincia così lo sguardo sui corpi, e lo sguardo sul corpo delle donne è da subito meno entusiasta. “Si, è una femminuccia, ma suo padre la ha tanto desiderata, il maschio ce l’avevano già...”. “Ehi, ancora una femmina? Vabbeh, datevi da fare, il prossimo sarà certo un bel maschietto!”. “Poveretto, ha tre femmine in casa, la moglie e due figlie, da mettersi le mani nei capelli” Non importa se siamo al nord o al sud, in una famiglia acculturata o in una molto semplice, il corpo appena nato di un maschio viene celebrato in media molto di più dell’arrivo di una bambina.
Questa bambina crescerà, e ancora oggi le si prepareranno corredini rosa e giochini (al diminutivo) da femmina, l’abbigliamento scelto per lei sarà in media meno pratico e comodo e più decorato, e lo stesso le scarpe e gli accessori. Molto presto ai suoi capelli verranno dedicate cure lunghe e faticose, e le verrà insegnato precocemente e a muoversi con meno energia e minore velocità, verrà privilegiata la motricità fine e il controllo del corpo a spese di un coinvolgimento più globale, e gli sport a cui verrà avvicinata saranno per la maggior quota quelli individuali o che privilegiano la coordinazione in luogo della squadra e della competizione. Appena venuto alla luce, e per tutta l’infanzia, prosegue questo lavoro minuzioso che rende il corpo delle bambine il più possibile conforme agli stereotipi di genere. Lo sguardo che le osserva e le conforma, giorno dopo giorno, è quello delle figure materne, che però avranno fatto proprio lo sguardo maschile che avevano a suo tempo percepito su di sé. E poi ci penserà il contesto a rinforzare gli stereotipi del femminile, perché colei che risulterà adeguata verrà premiata col consenso e l’approvazione, mentre colei che non risulterà conforme sarà fatta oggetto di critiche, di stigma, rifiuto e riprovazione sociale
GENDERIZZAZIONE
È da questa prospettiva che vengono formattati i corpi delle bambine. Che immagine dovranno avere, come dovranno diventare, con quali modalità dovranno presentare il loro corpo per attrare lo sguardo maschile ed essere apprezzate e approvate? Corpo, appunto, corpo in primo piano, un corpo troppo spesso adultizzato e “lolitizzato”, un corpo che presto deve imparare ad ammiccare, a compiacere, a piacere.
Corpi, non persone. Corpi che devono essere docili, non troppo forti, non troppo spontanei, non troppo originali, corpi “conformi” fin da bambine. Il merchandising la fa da padrone: dalla piastra per lisciare i capelli (già a sette anni), ai fermagli, dai glitter alle calze, dai trucchi per bambine all’impero del fuxia. E la profezia avvera se stessa, perché la ridondanza di questo messaggio di genderizzazione al femminile è tale da far apparire come “naturale”, come “innata” la preferenza che le bambine fin da piccoline sembrano mostrare per una tale immagine di sé, mentre la presunta spontaneità di queste opzioni è il frutto diretto di un condizionamento che passa da tutti i media e tutto il web, da tutti i rotocalchi, dalle vertine e dall’imitazione sociale, con un livello di pressione tale per cui chi non si integra appare subito un tantino strana, sospetta.
Già a cinque anni di vita il processo di genderizzazione sarà arrivato al suo scopo: cancellare le preferenze e le scelte spontanee della maggior parte delle bambine, per inquadrarle nella cornice dello stereotipo. Perché poi la seconda campagna di condizionamento riguarderà i cervelli, decretando la predilezione per le materie “dure” da parte dei maschietti (matematica, scienze, tecnologia…) mentre per le materie umanistiche le “naturali” attitudini femminili sembreranno certamente più adatte. Senza parlare del fatto innegabile per cui le prime apriranno carriere, retribuzioni e prestigio di ben altra portata rispetto alle seconde. Allo stesso livello, anzi, allo stesso dislivello, incrociamo lo snodo della libertà di espressione concessa ai corpi delle ragazzine: meno azione e meno esplorazione libera del mondo circostante vuol dire sviluppare meno fiducia nel proprio corpo e in se stesse. Permettersi meno sfide e venite indirizzate verso profili di esperienza meno competitivi comporta che si sviluppi un sentimento di autoefficacia più fragile e instabile. La conseguenza non sarà solo nei corpi, percepiti come meno robusti e più vulnerabili, ma si manifesterà con una maggiore dipendenza dalla approvazione e dal sostegno altrui, in particolare da quello maschile, ancora meglio se è rivestito di autorità. Da qui comincia la difficoltà che avranno più tardi le ragazze e le donne adulte, poco propense a vedere in altre donne, a cui viene attribuita la stessa fragilità che viene riconosciuta a se stesse, l’appoggio e l’esempio di cui avranno bisogno.
CORPI A DISPOSIZIONE
E ora, con la pubertà, siamo al terzo livello del controllo sui corpi delle donne. L’emergere della maturazione sessuale e delle evidenti pulsioni che ne conseguono, registra socialmente uno dei gender gap più profondi.
Riconoscere la forza (questa sì, naturale, se ancora questa parola ha un senso) degli istinti e dei bisogni di espressione della sessualità femminile è una conquista degli anni ’70. Una conquista purtroppo ancora di nicchia, riservata alle donne mediamente colte ed emancipate dell’occidente industrializzato.
Gli stessi nomi con cui vengono designati i genitali femminili contengono una forte svalutazione, mentre i vocaboli utilizzati per i corrispondenti organi maschili richiamano significati di forza, di potenza, di valore.
Lo stesso ciclo mestruale, con la mestruazione segno della fertilità e della vitalità del corpo delle donne, è da millenni ricoperto di vergogna e di segreto, se non di superstizioni magiche negative. Ne è negata, spesso anche dalle donne stesse, la componente di disagio e dolore, mentre viene enfatizzata la capacità di gestire il mestruo come se non ci fosse, come se dovesse essere ancora nascosto, eliminata ogni traccia, come gli assassini cercano di fare per i delitti di sangue. Qui comincia la quarta azione sul corpo delle donne, quella di appropriazione della loro persona al livello del piacere, della fertilità e della gestione della propria libertà personale.
La contraccezione è storicamente, e tutt’ora lo è, un problema delle donne, che sono indotte a conteggi tanto incerti quanto complessi, ad assumere ormoni, a fronteggiare gravidanze indesiderate per lo più da sole e in condizioni emotive di ansia e di colpa. Il piacere sessuale femminile è ancora un illustre sconosciuto per molti partner maschili, come lo è la delicata e complessa anatomia dei genitali femminili, la risposta del corpo delle donne all’eccitazione e al desiderio sessuale, che la gran parte dei machi ha “studiato” attraverso la pornografia, acquisendo una immagine completamente distorta della sessualità, come un fenomeno meccanico e prestazionale, certo per le proprie partner, ma anche per se stessi.
Se il corpo delle donne è mero corpo, se non è più la carne viva e animata in cui si riconosce una persona, allora lo sguardo maschile, il controllo maschile, lo reifica, lo trasforma in un oggetto da possedere, da esibire, da controllare, da utilizzare, da far obbedire, da costringere a compiacere chi su di esso detiene il potere e la norma, a compiacere chi, se il comando viene violato, somministra la sanzione.
“Sii bella e stai zitta”, scriveva Michela Marzano (Mondadori, 2010) e semplicemente “Stai zitta”, scriveva Michela Murgia (Einaudi, 2021), perché lo sguardo dei “figli sani del patriarcato” che ti azzera la parola è quello che ti approva e ti disapprova, quello che ti umilia e ti offende, ti motteggia per strada, ti insegue e ti bracca come il cacciatore con la preda, ti controlla, ti limita, ti picchia, ti violenta, ti perseguita e poi, mentre giura di amarti, anche ti uccide. Zitta, sei un corpo, non sei un corpo-parola (Il corpo-parola delle donne: i legami nascosti tra il corpo e gli affetti, di Anna Salvo e Gabriella Buzzati, Raffaello Cortina, 1998), e se non mi obbedisci ti anniento.
Ti avevo già annientato come corpo sociale, imponendoti fin da bambina standard di bellezza innaturali e insalubri, negando nel tuo corpo i segni della tua storia, i segni del tempo, dividendoti e mettendoti in competizione per questo con le tue pari, selezionandoti come una razza di animale domestico, da lavoro o da compagnia a seconda dei casi, lasciando addosso al tuo corpo tutto il peso delle gravidanze, dei parti, della cura della prole e della casa, salvo poi dirti che sei ormai ridotta male, sei una cosa inguardabile, quindi zitta se cerco carne di femmina più giovane e compiacente, ne troverò di certo, sono prede come te, le altre… E se prima eri una bomba sexy, un pasticcino, una miniatura, una bella gnocca, ora sei una balena, una buzzicona, un manico di scopa, e se non mi obbedisci, vedrai, sarai un vuoto a perdere, sarai da rottamare.
VECCHIE E NUOVE PAROLE PER DIRLO
Ma, scusate, come potranno mai essere onorati, rispettati, i nostri corpi vivi e vitali, ricchi di sensazioni, belli perché unici e veri, pieni di anima e di emozioni, i nostri corpi-parola, i nostri corpi-pensiero, se quando ci cercate per l’amore vi rivolgete a noi avendo nella vostra mente e nella vostra voce verbi come assediare, conquistare, vincere, accerchiare, espugnare, puntare, braccare, dare la caccia, costringere a cedere, far arrendere, stanare…
E quando fate sesso con noi (far l’amore è un’altra cosa, davvero in troppi non sapete cosa sia…) avete nella mente e nella voce verbi come prendere, penetrare, possedere, ingravidare (e fino a qui ci andate ancora leggeri!), e poi verbi come spaccare, castigare, sbattere, sventrare, fottere, infilzare, sverginare, devastare, domare, e parole come te lo faccio vedere, te lo faccio sentire, come se quel nostro corpo fosse un nemico, un territorio di guerra… Si, ecco! Questo è linguaggio di guerra, non è il linguaggio dell’amore.
E proprio in guerra arriva il peggio, crudele ed emblematico: lo stupro di guerra inchioda il corpo delle donne a mero oggetto da distruggere, stupro come arma di distruzione, dove il vincitore (maschio) umilia il vinto (maschio) attraverso l’appropriarsi di un suo possesso, attraverso la contaminazione di una sua proprietà.
Non sentite anche voi sulle vostre spalle il peso ormai logoro di questo stereotipo del predatore, del guerrafondaio, del padrone crudele e accecato dall’ira, del cavernicolo acculturato, dominato un tempo dal testosterone, sublimato ora in un bisogno di affermare il proprio potere, bisogno di potere tanto più spasmodico quanto più l’insicurezza profondamente vi attanaglia?
Nessuno, o proprio solo una quota infinitesima, di voi uomini del terzo millennio vorrà rivendicare per sé queste macerie decrepite del patriarcato, ora che avete aperto gli occhi e vedete che erano state costruite sull’assoggettamento graduale e sistematico dei nostri corpi di donne…
Scriviamo piuttosto insieme un altro vocabolario per i corpi, per i nostri e anche per i vostri, un vocabolario i cui verbi siano nuovi, come incontrarsi, scoprirsi, rispettarsi, avvicinarsi, chiedere il permesso, comprendersi, essere affascinati, giocare, liberarsi, esprimersi, dire no e dire sì, accostarsi, sintonizzarsi, creare, ammirare, sostenersi, darsi forza, trasmettersi emozioni e sensazioni, darsi tenerezza, darsi meraviglia, prendere slancio, darsi slancio, accogliersi, invitarsi, rendersi disponibili, unirsi, gratificarsi, assomigliarsi e differenziarsi, respirare insieme, convibrare, coesistere , condividere intensamente la vita, il piacere, l’amore, il mondo… (Condividere il mondo, di Luce Irigaray, Bollati Boringhieri, 2009)
Molto del lavoro lo abbiamo già fatto noi, la parte che resta è un vostro compito e dovrete assumerlo in prima persona. Vi aspettiamo. La Storia vi aspetta.









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