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Vito Mancuso "La religione dell'Io crede solo al denaro ma l'amore e la stima non si comprano"

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Le religioni, soprattutto il cristianesimo e l'islam, hanno da sempre sognato di globalizzare il mondo riconducendolo alla loro obbedienza, nel frattempo però il mondo è stato globalizzato dall'economia.

E il raggiungimento del sogno delle religioni da parte dell'economia ha portato inevitabilmente con sé un nuovo paradigma etico e antropologico, perché nelle menti contemporanee l'economia non è più solo una scienza che analizza la produzione della ricchezza e le altre questioni connesse, non è più per nulla solo una scienza come la fisica, ma, esattamente come la religione, è diventata anche una morale. Di più: è la morale vincente, il modello normativo, il canone. È il vero e proprio Nuovo Testamento della società moderna, il cui trionfo produce la seguente metamorfosi: dalla religione di Dio alla religione dell'Io. 

Così l'essere umano globalizzato è passato da homo sapiens a homo faber et consumens: da un essere che poneva la sua qualifica essenziale nel culto e nella cultura, a un essere che la pone nella produzione e nel consumo (passando dal ritenere di vivere per qualcosa più importante di sé, al ritenere che non vi sia nulla più importante di sé). Per questo il modello ispiratore dei nostri giorni è l'uomo che guadagna e che spende, che tanto più vale quanto più guadagna e più spende, e che, secondo una tendenza sempre più palese, non si cura per nulla della cultura, che anzi irride e disprezza. Se non fosse così, non avremmo un sistema che assegna stipendi poco gratificanti agli insegnanti e ricopre di denaro personaggi equivoci e fatui detti "influencer", e che assegna in un giorno a un calciatore quello che un medico guadagna in un anno e talora in tutta la vita. 

Il vero libro sacro dei nostri giorni, che rende antichi tutti i libri sacri precedenti (della religione, della filosofia, della politica), è il vangelo dell'economia. Tutto infatti, per poter sussistere, deve risultare conforme alla logica economica, è essa il criterio che rende canonico oppure apocrifo ogni aspetto dell'agire umano. Se un evento o un'istituzione non riceve il pollice alzato del responsabile dei conti, proprio come l'imperatore romano con i gladiatori, non sopravvive. 

È giusto che sia così? I conti devono sempre tornare, o talora possono andare? Se i conti devono sempre tornare è perché il denaro ha come fine il denaro; se i conti talora possono andare senza tornare è perché il denaro viene finalizzato a qualcosa di più importante. A cosa? Cos'è più importante del denaro? È più importante del denaro ciò che non può essere acquistato con il denaro. Ovvero il tempo, l'amore, la cultura, la dignità, la stima. Nessuno, per esempio, può comprarsi la stima. Di un essere umano voi potete comprare il tempo, il corpo, le parole, ma non la stima. La stima non è acquistabile, è una libera donazione. Oggi però si pensa che tutto possa essere acquistato con il denaro, che ogni essere umano abbia il suo prezzo e che sia solo questione di individuarlo e di pagare. 

Ebbene, in questo orizzonte dove si ritiene che tutti i conti debbano tornare perché il fine del denaro è di produrre altro denaro e tutto può essere comprato con il denaro, il compito della ricerca spirituale è di ricordare che esiste qualcosa che non è in vendita. È di lottare perché gli esseri umani non si appiattiscano diventando «a una sola dimensione», come preconizzava Herbert Marcuse nel 1964, ma mantengano la loro molteplice stratificazione. Oggi, quando l'economia è diventata una religione, il compito della religione è di ricordare agli esseri umani che «non di solo pane vive l'uomo». È chiaro che senza pane e senza l'economia che lo produce non c'è vita umana, ma il punto è il fine, lo scopo. Occorre sempre ricordare Kant e il suo imperativo categorico: «Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua sia nell'altrui persona, sempre come fine e mai solo come mezzo». Quando, rispetto a se stessi, si agisce come un fine? Scipione l'Africano (proprio quello dell'elmo di cui l'Italia «si cinse la testa») soleva dire: «Mai sono più attivo di quando non faccio nulla». C'è un'attività che non coincide con l'operatività esteriore e che tuttavia è produttiva. Anzi, conferisce più essere, visto che il condottiero romano continuava: «Mai sono meno solo di quando sono solo con me stesso». Egli parlava di ciò che definiva otium, che in questo caso non è il dolce far niente ma la coltivazione della mente e del cuore. È il lavoro come giardinaggio interiore. Lavorando su di noi infatti compiamo il lavoro più prezioso: quello di vincere la solitudine interiore che ci fa stare male e ci porta a circondarci di persone e di cose, di notizie e di rumori, per la paura di rimanere soli con noi stessi. Questo è il grande lavoro umano degli esseri umani: coltivare la propria interiorità, avere momenti di raccoglimento, praticare ciò che Carlo Maria Martini chiamava «la dimensione contemplativa della vita». 

Non si tratta di agire contro o a dispetto dell'economia, si tratta di conferire a tale scienza, oggi ritenuta assoluta, un criterio superiore. Se ci vogliamo salvare. Dico salvare come esseri umani, senza continuare a distruggere gli ecosistemi del nostro pianeta e senza cadere preda delle macchine umanoidi economicamente molto più performanti e convenienti di noi. 

A questo punto però è inevitabile chiedersi: a cosa serve quello che ho detto? Possiamo forse cambiare il sistema economico nel quale siamo immersi? È almeno dal 1848, data del Manifesto del partito comunista di Marx e Engels, che la filosofia ha cercato di cambiare il sistema economico, ma dopo quasi due secoli da quel poderoso incipit («Uno spettro s'aggira per l'Europa, lo spettro del comunismo») il risultato è sotto gli occhi di tutti: lo spettro del comunismo non fa più paura né affascina nessuno, mentre sono ben altri gli spettri che si aggirano per l'Europa e ci fanno tremare. Lo stesso vale per gli ammonimenti della religione, altrettanto fallimentari, si pensi all'esito delle parole di Gesù: «Beati voi poveri! Guai a voi ricchi!», mentre il mondo in ogni momento ripete allegramente l'esatto contrario: «Guai ai poveri! Beati i ricchi!». 

Se però guardiamo le cose dall'alto con uno sguardo più ampio, il bilancio non appare così negativo: almeno da noi non ci sono più schiavi né servi della gleba, non si lavora più dodici o tredici ore al giorno come all'inizio della rivoluzione industriale, la miseria delle famiglie per la gran parte è vinta, i diritti dei lavoratori sono riconosciuti e anche abbastanza tutelati. E se talora accade il contrario, il diritto interviene e libera e punisce chi di dovere. Oggi poi si assiste al fenomeno della cosiddetta "Great Resignation", "Grandi dimissioni": chi può si dimette da lavori che ritiene umanamente poco gratificanti e si riprende la vita, nella consapevolezza che non si vive per lavorare ma si lavora per vivere e che esiste qualcosa più importante della carriera (nel 2022 negli Usa sono stati più di 40 milioni a lasciare il lavoro; da noi più di 2 milioni, con una media di oltre 180.000 dimissioni al mese). È un fenomeno negativo o positivo? Di certo segnala la presenza di eretici rispetto al dogma del primato assoluto dell'economia. 

Vorrei inoltre aggiungere che grazie al mio lavoro sono entrato in contatto con alcune grandi aziende del nostro paese e sono felice di poter dire di averne tratto un'ottima impressione, giungendo a farmi l'idea che se il nostro paese, nonostante tutto, ancora tiene è proprio grazie al sistema aziende. Ho visto attenzione al bilancio sociale, al territorio, alla qualità delle relazioni umane, spesso ho riscontrato un vivo senso di responsabilità verso i dipendenti, talora sincera reciproca gratitudine. Quando sono guidate bene e con lungimiranza, le stesse aziende sono le prime a essere consapevoli che i conti non sempre devono tornare, che qualche volta li si deve lasciar andare, perché "andando" alimentano la fiducia e l'umanità. Vorrei concludere dicendo che siamo chiamati a rimodellare la nostra utopia: prima che a cambiare il mondo, si tratta di non farci cambiare dal mondo. Di non farci ridurre a merce. Di non guardare noi ogni cosa e ogni persona come merce. E tale cambiamento può essere praticato già qui e ora da ognuno di noi. Ognuno di noi è un sistema economico, una specie di azienda, e può scegliere a cosa dare il primato: se al negotium o all'otium, agli oggetti o alla cultura, all'avere o all'essere. Il modo migliore per cambiare il mondo è migliorare quel piccolo pezzo di mondo su cui abbiamo realmente potere: noi stessi. Diceva Gandhi: «Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». 

Vi ho parlato in quanto teologo, laico ma comunque teologo, e se questa disciplina antichissima che è la teologia oggi ha ancora un valore è quello di ricordarci che non viviamo di solo pane, che non siamo solo merce, né solo «gene egoista». L'intelligenza e l'amore di cui siamo capaci, e che non si possono comprare, costituiscono il vero scopo del nostro vivere.  


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