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Massimo Recalcati: «Il rischio dei social è la dipendenza tossica. Non parliamo più di generazione Covid»

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di Walter Veltroni

Massimo Recalcati, c’è un’epidemia di disagio tra i ragazzi?

«L’esperienza traumatica, collettiva, della pandemia ha generato una diffusione ulteriore del disagio tra i giovani. Le manifestazioni ricorrenti sono comportamenti autolesivi, una violenza anarchica, erratica, non ideologica, e poi somatizzazioni, attacchi di panico, disturbi dell’alimentazione. E soprattutto ritiro sociale. Siamo in una congiuntura molto precaria, molto delicata, che non bisogna sottovalutare. Io ho sempre avvertito, anche pubblicamente, che sarebbe un grave errore parlare di generazione Covid, cioè identificare nei giovani le vittime del trauma che ci ha travolti. Perché l’identificazione con la figura della vittima offre un grande alibi e noi adulti dovremmo avere il compito di evitare questa identificazione. Anche perché le generazioni di giovani tra le più creative nel nostro tempo sono state proprio quelle che hanno vissuto grandi crisi, grandi traumi: penso a quella della ricostruzione dopo il fascismo e la Seconda guerra mondiale».

Che opinione hai del rapporto tra la rivoluzione digitale, gli adolescenti e il loro malessere?

«Esiste uno strano paradosso, rispetto all’uso dei social. È ora di dire che l’iperconnessione in realtà è una forma di sconnessione, una forma di recisione del legame sociale. La parola social indica proprio la possibilità di potenziare il legame sociale. In alcuni giovani funziona davvero così e probabilmente la nostra generazione fa fatica a comprenderlo. Al tempo stesso non possiamo non vedere l’altra faccia della medaglia: questa connessione non è reale ma virtuale, e uno dei grandi rischi oggi è proprio confondere il reale col virtuale. In psicanalisi si chiama allucinazione. L’uso dei social genera una dipendenza tossica: l’assenza di pausa, l’assenza di intervallo. Ne è un esempio drammatico l’episodio Roma: un incidente stradale mortale provocato da una connessione continua di 50 ore dei ragazzi che l’hanno causato. Mentre si gioca nella realtà virtuale si toglie la vita ad un bambino nel mondo reale... In generale, la dipendenza dall’oggetto è una forma di autismo, quindi il contrario della socialità. Soprattutto l’iPhone è diventato un oggetto primario. Il simbolo dell’oggetto primario in psicoanalisi è il seno e l’attaccamento all’iPhone è un attaccamento regressivo primario. Se tu stacchi un ragazzo dal cellulare provochi una crisi di angoscia che può davvero evocare l’angoscia primaria, regressiva, del bambino svezzato dal seno».

I social costringono i ragazzi a bruciare le tappe della vita e li espongono presto alla durezza di un giudizio sociale immediatamente pubblico.

«Non sono un grande esperto di social, ne ho una diffidenza di fondo per il lavoro che faccio. Noi siamo stati obbligati ad usare i computer, nel tempo della pandemia, per non abbandonare i nostri pazienti... Ma l’essenza del mio lavoro è sempre l’incontro in presenza. Noi ci aspettavamo, dopo la pandemia, con la riapertura delle scuole, che tutti ci tornassero felici e contenti. Pensavamo che la riapertura fosse un momento collettivo di ripartenza della vita. In parte lo è stato, però molti giovani hanno preferito trasformare il confinamento in una condizione stabile di vita. Vogliono sottrarsi al giudizio, sottrarsi alla vita ridotta a gara, sottrarsi alla vita vissuta come guadagno di popolarità, di visibilità. Dimensione nella quale rientrano potentemente i social, il numero dei follower, la visibilità, l’essere “seguiti”, come si dice oggi. Ecco, il confinamento è l’abolizione di questo mondo del giudizio e dell’ansia che ne consegue. L’isolamento non va confuso con la solitudine. Perché la solitudine è un tempo creativo, è una esperienza da cui può scaturire creatività, riflessione, fantasia. L’isolamento invece è una sorta di deviazione patologica della solitudine. Nella solitudine c’è sempre il rapporto con l’altro. Nell’isolamento ciò che viene soppressa, illusoriamente, è proprio la presenza dell’altro. Soprattutto di questo “altro” che nel nostro tempo diventa un grande specchio che esprime giudizi, spesso spietati, sul tuo essere».

Perché i ragazzi in tutto il mondo sparano nelle scuole?

«Per la psicoanalisi il fondamento dell’aggressività — perché sparare nelle scuole è una manifestazione estrema di aggressività — non è solo nella frustrazione, ma anche nella fascinazione. Non tutta la violenza si può spiegare con la frustrazione. Quando un ragazzo spara nelle scuole e uccide dei suoi simili, uccide persone come lui. Ma li vede più felici di lui, gli sembra abbiano più vita di lui, sappiano vivere la vita diversamente da lui. Mi colpì un fatto di cronaca accaduto a Torino, credo nel 2019. Un ragazzo venne sgozzato un sabato sera in piena città da un coetaneo che non aveva alcun rapporto con lui. Non si conoscevano, un po’ come accade quando si spara nelle scuole e si uccidono persone ignote. Alla domanda della polizia perché l’avesse fatto, la risposta che diede l’assassino fu: “perché sorrideva”. Quello che non era sopportabile, per lui, era l’esistenza di una vita felice, di una vita che poteva sorridere. Questa è la definizione che Lacan dà dell’invidia sociale. L’invidia non è per qualcosa che non si ha, non una proprietà, non delle rendite, nemmeno per le qualità dell’altro. L’invidia è sempre invidia per la vita, invidia della vita degli altri che appare più viva della mia. Tu uccidi l’altro che vorresti essere e non sei, tu uccidi la vita felice dell’altro, la vita che sa sorridere alla vita. Sarebbe paradossalmente più logico che si sparasse contro i simboli del potere o dell’autorità, no? Invece no, si colpiscono i pari, i simili la cui colpa è quella di poter vivere, magari sorridendo al mondo. Si colpisce chi rappresenta il nostro ideale irraggiungibile».

Ti sembra che questa società, tutta orizzontale, fatta di fratelli senza padri sia una società smarrita?

«È così. Lacan diceva che il nostro tempo è il tempo della evaporazione del padre. Lo sosteneva all’indomani del ‘68. Da allora una certa rappresentazione patriarcale del padre ha perso consistenza, è evaporata. Quello che vediamo in un grande film di Nanni Moretti, “Habemus Papam”, in cui il balcone di San Pietro resta vuoto e il nuovo pontefice anziché guidare con autorevolezza il suo popolo sprofonda nel pianto smarrito di un bambino. È un’immagine plastica del nostro tempo: il balcone di San Pietro, il balcone del padre, è vuoto. Se avessero inquadrato il palco alla fine dei funerali di Berlinguer credo avrebbe fatto la stessa impressione. Allora quale è il problema? Il problema è cosa facciamo di fronte al balcone vuoto. Esiste il rischio neo libertino, dunque “non ci resta che godere”. Una volta morto, evaporato, il padre, la sola legge che conta diviene l’assenza della legge. È la pulsione, il godimento, o è la cultura della legge ad personam, se vuoi. Noi abbiamo vissuto questa degradazione della figura paterna che, per certi versi, il neo liberismo e il berlusconismo hanno incarnato politicamente. Questo da una parte, ma dall’altra? Si tratta di riempire il balcone, di colmare il vuoto. Come lo si fa? Nostalgicamente. Sono gli ultimi decenni della nostra vita collettiva. Il tentativo violento e disperato di restaurazione del padre del patriarcato. È avvenuto nel modo delirante del terrorismo integralista, per recuperare un dio che detta legge e contrasta il nichilismo dell’occidente. Ma, diciamoci la verità, anche in forme che l’occidente stesso ha espresso: il rimpianto per l’autorità di un tempo, per la famiglia naturale, per il potere forte. Il desiderio, anche delle autocrazie, è restaurare il padre padrone. Queste sono le due tendenze, egualmente sintomatiche: neo libertina e nostalgico restauratrice».

E come si costruisce l’alternativa?

«L’alternativa è abitare creativamente quel vuoto. I nostri giovani hanno bisogno di padri, ma non più dei padri che hanno l’ultima parola sul senso del mondo, su ciò che è bene, ciò che è male, sul giusto, l’ingiusto, sul vero, sul falso. Non abbiamo più bisogno di questi padri. Sono invece necessari i padri testimoni, padri che sanno dare peso alla parola. Perché Mattarella gode di un grande, trasversale, consenso nel nostro Paese? Perché è una figura la cui parola ha ancora un peso. Questo padre di cui parlo, il padre testimone, non ha sesso, non è il padre naturale, non è il padre del sangue. Tutto l’ultimo cinema di Clint Eastwood evoca questa figura di padre al di là della stirpe, del sangue. Il padre è l’allenatore di pugilato, è l’anziano proprietario della Gran Torino... Forniscono senso, con i loro atti.

Se tu avessi davanti il genitore di un ragazzo con la porta chiusa, cosa gli consiglieresti di fare?

«Sempre rispettare il segreto dei figli, anche quando questo segreto ci appare sconcertante. Perché ogni figlio ha un segreto e credo che una componente essenziale dell’amore genitoriale sia amare il segreto del figlio. Nessun figlio è trasparente, noi non possiamo leggere l’anima di un figlio. Non solo non possiamo, ma non dovremmo. Se la porta chiusa evoca il rispetto del segreto allora bisogna che noi rispettiamo quella scelta e aspettiamo che si riapra, perché si riaprirà. Se la porta chiusa invece riflette l’esperienza di un disagio, di una sofferenza profonda, bisogna dare tempo al figlio perché chieda aiuto. Al tempo stesso bisogna avere il coraggio di interrogare i nostri comportamenti in rapporto a quella porta chiusa. Più che forzare la porta, si deve dare tempo al figlio per riaprirla e soprattutto interrogare quale è la nostra responsabilità come genitori, nei confronti di quella porta chiusa. Il mestiere del genitore come diceva Freud è un mestiere impossibile, nel senso che tutti i genitori sbagliano. Questa è la cattiva notizia che Freud ci dà. Però ce ne fornisce anche una buona: ci dice che i migliori tra i genitori sono quelli che sanno di sbagliare». 


Fonte: Corriere

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