Massimo Recalcati "I diversi volti del disagio giovanile"
La Repubblica, 21 giugno 2023
Il disagio del mondo giovanile sembra aver assunto dimensioni preoccupanti. La sua fenomenologia
è variegata, ma se dovessimo provare a trovare in essa dei denominatori comuni potremmo isolarne
almeno due. Il primo è quello della spinta neo-libertina a godere senza limiti, a fare del godimento
la sola forma possibile della Legge. Questa spinta può assumere le forme della festinazione
permanente, dell’apatia frivola, dell’assenza di responsabilità, dell’abuso di sostanze, del consumo
compulsivo, dell’indolenza, del rigetto della prova e della fatica. Si tratta di una forma di disagio
che da tempo permea il mondo giovanile e che collude con l’affermazione di quella che Pasolini
definiva “la società dei consumi”. Il secondo denominatore comune è invece di tipo neomelanconico e consiste nella tendenza a sottrarsi alla vita, a chiudersi, a ripiegarsi su se stessi. Il
trauma della pandemia ha esasperato in particolare questa seconda declinazione del disagio
giovanile. Se nella prima forma prevale l’estroversione, in questa seconda prevale l’introversione.
Non si tratta però solamente di una tendenza genericamente depressiva, ma di una inclinazione
securitaria: il mondo è percepito come una fonte minacciosa di stimoli, come luogo di perturbazioni
angoscianti, come un urto dal quale proteggersi. È uno dei paradossi più significativi del nostro
tempo: la cultura neo-libertina del godimento immediato e del rigetto del senso della Legge
nasconde nelle sue pieghe una tristezza di fondo, una profonda angoscia nei confronti dell’ignoto,
un sentimento di precarietà che coinvolge tutta l’esistenza. È la piaga segreta che intacca l’euforia
neo-libertina: la vita come gara di tutti contro tutti, come spinta compulsiva a consumare ogni cosa
non genera affatto soddisfazione, non favorisce la creazione di legami sociali generativi, ma
produce caduta del senso, paura e difesa dalla vita, ritiro sociale, confinamento, isolamento.
Tagliarsi fuori dal circuito maniacale dell’iperattività produttiva o edonistica del discorso sociale
dominante, è un gesto disperato di rifiuto ma è anche un gesto che prova a creare un rifugio.
Barricarsi in casa, non uscire più, sembra per un giovane un destino beffardo in un tempo che
invece esige il divertimento come obbligo e il culto della performance ad ogni costo.
Queste due forme del disagio riflettono una tendenza più generale della civiltà contemporanea: la
spinta a godere sino alla dissipazione della vita e quella a rifiutare la vita isolandosi in una nicchia
protetta. Sono la versione hard e cool del disagio della giovinezza ipermoderna. Ma quello che
viene meno in entrambe queste posizioni è l’istanza del desiderio.
Nell’oscillazione neo-libertina essa si trova inabissata in un godimento illimitato che ne sopprime la
spinta generativa. Il desiderio si affloscia in una vita troppo piena di oggetti per essere desiderante.
Nell’oscillazione neo-melanconica essa sembra invece più semplicemente spegnersi, disattivarsi,
non esistere più. Anziché vivere pienamente la vita, si preferisce chiudere i ponti con la vita, creare
sistemi di difesa, isolarsi appunto, separarsi dal mondo. L’indebolimento del desiderio è il vero tema
che attraversa il disagio giovanile contemporaneo: la fatica di desiderare, l’eclissi, la scomparsa del
desiderio come forza generativa. Cosa fare allora? Come uscirne?
Evocare il padre col bastone, rimpiangere la sua vecchia autorità simbolica? Restaurare l’ordine
della famiglia tradizionale, rafforzare gli strumenti di controllo o di repressione? Condannare le
cattive pratiche e i comportamenti irresponsabili? Bisognerebbe sempre ricordare che il disagio
giovanile non coincide con il mondo giovanile. Per evitare la sua estensione bisognerebbe
innanzitutto avere fiducia nei giovani e nella loro audacia.
Includerli il più possibile nella vita civile e sociale. Potenziare la Scuola e i luoghi di formazione,
credere nelle loro capacità, offrire occasioni di lavoro, di espressione, di parola. Insomma il
contributo delle vecchie generazioni non può limitarsi a segnalare il disagio giovanile delegando
agli psicologi la sua cura, ma deve aprire le porte, coltivare i talenti, trasmettere la potenza vitale del
desiderio, favorire gli spazi anche pubblici, collettivi, della sua esistenza. Non si tratta tanto di
sorvegliare e di punire, ma di scommettere davvero sulle nuove generazioni. L’esistenza dei figli
dovrebbe costringerci a decentrarci da noi stessi, a pensare che il tempo ha una profondità che non
coincide con la nostra vita, che i nostri figli ci sopravviveranno. Dovrebbe ricordarci che il compito
delle vecchie generazioni non è quello di ostacolare le nuove ma quello di favorire la loro crescita.
Facile a dire, ovviamente, difficile assai da praticare perché implica il dono del nostro arretramento,
del nostro tramonto.