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Chiara Giaccardi «FEMMINICIDIO. Che fanno i cattolici? Il dibattito è aperto»

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VP Plus quindicinale online 14 ottobre 2017

Serpeggia un senso di vulnerabilità diffusa, una percezione di insicurezza generalizzata in un’epoca dove, al di là dei dati effettivi, la presenza della violenza nei media è aumentata e pare non esistere più alcun luogo dove potersi sentire veramente al sicuro. Ma c’è anche una vulnerabilità specifica, proprio dove ci si aspetterebbe tutt’altro: nel cuore delle relazioni sentimentali, affettive, amorose. Una vulnerabilità testimoniata dai tanti episodi di violenza che la cronaca ci consegna, con una frequenza ormai impressionante.

Dunque, alla domanda se esiste una violenza di genere, la risposta non può che essere sì. Femminicidio non è un neologismo a effetto, ma una specifica forma di violenza, consumata dentro un legame di fiducia, dove la donna è vittima. Quante volte si è sentito invece di una donna che ammazza il partner perché vuole lasciarla? Questo tipo violenza non è certo nuova, è sempre esistita, solo che ora viene denunciata - ed è l’unica buona notizia. Ma oggi è tanto più assurda, quanto più sono cambiate le condizioni di contesto: apparente libertà e autodeterminazione per tutti.

A fronte della dovizia di particolari anche macabri che sempre vengono dispensati nel riportare i fatti nel nome del diritto di cronaca, si notano invece, a mio avviso, almeno due gravi lacune nell’analisi del fenomeno: la prima, generalizzata, la definirei ‘miopia interpretativa’; la seconda è una vera e propria forma di ‘imbarazzo ermeneutico’ derivante dalla contrapposizione ideologica in cui è bloccato il dibattito contemporaneo sul concetto di genere (e nella quale anche una buona parte del mondo Cattolico rimane ahimè intrappolato).

Miopia è non volere vedere al di là della superficie più immediata: ogni volta ci si stupisce che persone che parevano normali si trasformino in spietati assassini, ma non si alza mai lo sguardo per vedere un po’ più lontano. Al di là delle circostanze contingenti, dei pretesti che scatenano l’efferatezza, c’è una questione ben più complessa: una cultura iperindividualista dove è buono e vero solo ciò che mi fa stare bene, dove libertà è uguale a scelta, e dunque vale solo ciò che si sceglie; dove l’altro non è davvero altro, ma una mia estensione, un mio possesso; dove l’autoreferenzialità è così alta che abbiamo dimenticato che il movimento dell’amore è un movimento fuori da sé e paradossale: volendo il bene dell’altro alla fine facciamo anche il nostro, mentre ossessionati dal nostro bene distruggiamo noi e chi ci sta vicino. È una cultura dove i legami si sono così infragiliti e annacquati che nessuno intorno è in grado di cogliere segnali preoccupanti e tantomeno di intervenire, perché farsi gli affari propri è imperativo.

Così, mentre ‘Chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza’, come scriveva Goethe, il dovere di non interferenza fa sì che tragedie evitabili si consumino indisturbate. Ci sono, insomma, responsabilità culturali e sociali che non vengono mai adeguatamente riconosciute, perché ci riguardano tutti. E, forse, non abbiamo molta voglia di metterci in discussione.

In più, anche quello che come cattolici potremmo portare in termini di comprensione e di lotta al fenomeno resta per lo più inespresso, in nome di una incapacità perfino di pronunciare la parola ‘genere’. Così, mentre si sta ancora a confondere il ‘distinguere’ e il ‘separare’ le dimensioni biologiche e sociali dell’identità, come se i due atteggiamenti fossero l’uno la conseguenza necessaria dell’altro, per paura di cedere a una cultura che non riconosce limiti a nulla si rinuncia a portare il proprio contributo. Eppure anche Romano Guardini sosteneva che nell’essere umano niente è solo biologico. E poi le tre persone della trinità non sono forse distinte ma non separate? Riconoscere la distinzione è forse il primo passo verso il politeismo?

Il ruolo sociale delle donne è cambiato nel tempo, e forse non si è ancora abbastanza disposti a riconoscerlo. E oggi è evidente, nella concretezza della vita vissuta e non nei modelli astratti e ideologici, che le donne possono essere mogli, madri e lavoratrici, soprattutto se c’è una divisione un po’ più equa dei carichi familiari. È evidente che la femminilità ha tante sfumature, come testimonia la varietà di figure femminili nel Vangelo. È evidente che le donne possono e devono prendere iniziative, il che significa uscire da casa e andare nel mondo: Maria, incinta per di più, non se ne va forse da sola, per strade tutt’altro che sicure, ad annunciare la buona notizia alla cugina Elisabetta? Certo, le fosse successo qualcosa, ci sarebbe stato qualcuno pronto a dire che se l’era cercata... E Giuseppe, nella delicatezza con la quale gestisce l’imbarazzante annuncio, nel suo non rimanere intrappolato nella reazione emotiva e nelle convenzioni sociali è un esempio di virilità da cui molti uomini avrebbero da imparare. Accettare con un libero sì quello che non si è scelto non è un fallimento che grida vendetta, la fine di tutto, bensì potenzialmente un inizio nuovo, una sfida da accogliere con coraggio.

Non possiamo cambiare quello che non va in un secondo, ma forse possiamo portare con più audacia la ricchezza che conosciamo a un mondo che ne avrebbe bisogno, senza lasciarci paralizzare da paure che rendono complici, alla fine, delle cose come stanno.


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