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Salvare l’anima: e il corpo? Uno sguardo all’antropologia biblica

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UNO SGUARDO ALL’ANTROPOLOGIA BIBLICA 

di Sebastiano Pinto 

Servizio della Parola 546/2023 

Aprile - Maggio 2023 (9 aprile - 28 maggio) Anno A


1. L’anima superiore al corpo in Sapienza 

«La anime dei giusti sono nelle mani di Dio. Nessun tormento le toccherà. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d’immortalità» (Sap 3,1.4). Il libro della Sapienza (circa 30 a.C.) professa l’immortalità (athanasía) della speranza delle anime e la sussistenza ‒ oltre la morte fisica ‒ di una dimensione della vita umana, quella «psichica». Non si accenna alla sorte dei corpi postulando, senza ulteriori specificazioni, l’incorruttibilità (aphtharsía) dell’uomo pio e devoto e cioè la sua amicizia con Dio, mentre gli empi sono annoverati fra coloro che stanno dalla parte della morte (2,24). 

Coerentemente con la visione dicotomica dell’uomo (corpo e anima), il corpo (sia dei giusti sia degli empi) è destinato alla corruzione: «Ero un ragazzo ben disposto, ebbi in sorte un’anima buona o, meglio, essendo buono, venni in un corpo senza macchia» (8,19-20). Nell’esegesi si fa una certa difficoltà nel verificare se l’autore della Sapienza rinvii alla dottrina filosofica della preesistenza delle anime o se, al contrario, non la presupponga. Gli studiosi nel passato si sono divisi in due schieramenti, in cui prevaleva la tendenza ad accordare la diretta influenza dalle dottrine antropologicoplatoniche. Effettivamente, in questi versetti, traspare l’impronta filosofica ispirata al Platonismo, secondo cui l’anima e il corpo hanno diversa origine, destino e importanza, così si ricava dalla dottrina racchiusa nel Fedro di Platone. Secondo la convinzione dell’assegnazione delle anime in base alla purezza, Salomone prende atto che la sua anima buona è entrata in un corpo «senza macchia» e, stando al dettato platonico, risulta quindi essere di secondo livello perché si impianta in un re. 

2. Anima contrapposta al corpo? 

Perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente di molte preoccupazioni. A stento ci raffiguriamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? (Sap 9,15-16).

Questi versetti, alquanto pessimistici, rappresentano l’unico testo nell’Antico Testamento in cui è documentata la visione dicotomica dell’uomo, con una chiara svalutazione del corpo ridotto a zavorra che appesantisce l’anima. Se l’uomo biblico è costituito da un’unità psico-somatica («è un’anima» non «ha un’anima», «è un corpo» non «ha un corpo», «è uno spirito» non «ha uno spirito»), in questo passo si attesta l’accentuazione che richiama una dualità esplicita fra i due principi, quello carnale e quello spirituale. 

Va precisato, a onor del vero, che in Sapienza non può ritrovarsi tout court l’antropologia platonica. Segnaliamo l’assenza sia della dottrina della reincarnazione (la metempsicosi), sia di quella dell’immortalità delle anime. Nell’opera esistono delle anime mortali (quelle degli empi) che sono disperse come pula al vento. A ciò si aggiunga che la tendenza degli studiosi del libro della Sapienza che in questi ultimi decenni hanno sfumato l’idea di un dualismo netto, tale e quale così come lo si potrebbe dedurre dal Platonismo (o dal Neoplatonismo), e ciò in base a ragioni legate al contesto in cui prende vita l’opera. Poiché il suo autore è figlio della diaspora giudaica di Alessandria, la sua teologia non è la semplice riedizione di filosofie conosciute, ma si presenta come una mediazione fra la concezione antropologica biblico-ebraica e quella del mondo greco. Le motivazioni per sostenere questa tesi sono mutuate dal linguaggio sulla vita, sull’immortalità, sull’anima e sul corpo: esso ha un profondo radicamento ebraico anche se è espresso attraverso categorie greche. 

Indubbiamente, l’uso della terminologia greca, ben nota ai contemporanei, porta a circoscrivere l’antropologia di Sap 9 lontano dalla visione olistica e molto prossima a quella dicotomica, così come è evidente il senso stesso del ragionamento che esalta i limiti conoscitivi dell’uomo. Tirando le fila del discorso, pertanto, dobbiamo constatare che, per quanto si vogliano sfumare i contorni dell’antropologia platonica, resta comunque evidente nel pensiero dell’autore del libro della Sapienza la certezza della sfiducia nelle capacità umane di raggiungere le cose celesti. 

3. Polarità più che opposizione 

Per comprendere la portata del rapporto corpo-anima bisogna approdare al Nuovo Testamento e indagare lo sviluppo antropologico che propone Paolo. Egli presenta una polarità più articolata, perché centrata su tre dimensioni dell’umano, ossia spirito, anima e corpo: «Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Ts 5,23). 

Coerentemente con la terminologia anticotestamentaria (ruaḥ-spirito, nefeš-anima e baśar-corpo), Paolo presenta il credente coinvolto attivamente in un percorso salvifico che interessa la sua intera capacità relazionale. Lo spirito (pnéuma), cioè la sua dimensione strettamente soprannaturale che lo lega direttamente a Dio, il corpo (sṓma), cioè la materialità-vulnerabilità, e l’anima (psychḗ), cioè la capacità intellettivo-volitiva (ma anche l’essere umano colto nella sua vitalità), sono i tre poli attraverso cui la salvezza di Cristo è comunicata ai credenti. 

Spirito, anima e corpo sono, dunque, i tre canali della grazia e le tre dimensioni in cui si palesa la forza rinnovatrice della risurrezione nel «qui e ora». 

4. Risurrezione, non immortalità dell’anima 

Il centro del messaggio neotestamentario ‒ il kḗrygma ‒ è dato da questa dichiarazione teologica: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture […] fu sepolto […] è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e […] apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1 Cor 15,3-5). 

L’Antico Testamento non conosce questa verità, che è pienamente rivelata nel Nuovo Testamento, sebbene in tre passi riconducibili al secolo II a.C. si attesti la fede esplicita nella risurrezione, o in una certa idea di risurrezione non meglio precisata (Dn 12,2-3; 2 Mac 7,23; 12,43). Si omette, infatti, di descrivere i tempi e i modi della sua attuazione. I testi andrebbero approfonditi, ma qui ci limitiamo a constatare che più che la dottrina della risurrezione, i passi contengono quella della «risuscitazione». Essa consiste nella reintegrazione fisica, nella rianimazione del cadavere, nel recupero dell’integrità psico-fisica, così come si ritrova anche nel Nuovo Testamento per la risurrezione di Lazzaro (egli recupera il corpo e le sue relazioni). La fede nella risurrezione risulta, a questo stadio, incompleta, acerba e fortemente centrata sul corpo biologico. Non ci pare che i brani consultati consentano di spingerci oltre. 

La risurrezione di Cristo, invece, ri-significa e getta un’inedita prospettiva sulle aspettative dell’uomo biblico circa la vita oltre la morte, conferendo nuovo significato a quanto la fede ebraica aveva già maturato nei secoli. Paolo focalizza l’attenzione dei destinatari della sua lettera sulla comunione Cristo-cristiani. Dalla risurrezione di Cristo deriva quella dei cristiani: 

Se si annunzia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni fra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede (1 Cor 15,12-14). 

Nel kḗrygma non rientra, pertanto, il dato dell’immortalità dell’anima che, evidentemente, non rappresenta il cuore della fede. La risurrezione va molto oltre la semplice sussistenza dell’anima dopo la morte, perché coinvolge tutto l’uomo (spirito, anima e corpo) in un processo di ricreazione.

5. L’ornamento dell’anima 

Con il battesimo il cristiano è inserito nella nuova dimensione inaugurata da Cristo, ma non ancora pienamente compiuta. Il suo corpo «spirituale» non è da intendersi in termini dualistici (il corpo sta sotto ed è soggiogato dallo spirito che cerca di tirare le redini della sua sensualità), né in quelli spiritualistici (il corpo leggero che plana sulla terra). 

L’attesa della risurrezione finale getta nuova luce sul rapporto da avere, in generale, con il proprio corpo e, in particolare, getta nuova luce sull’ornamento esteriore: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti – ma piuttosto, nel profondo del vostro cuore, un’anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio» (1 Pt 3,3-4). 

Il corpo spiritualizzato è la «carne» che è morta al peccato e già risorta con il battesimo, in quanto coinvolta nel processo di trasfigurazione in cui l’uomo vecchio ha lasciato spazio a quello nuovo (Rm 6; Ef 4; Col 3). In altri termini: il corpo spirituale è un corpo che vive secondo la legge dello Spirito Santo e che, quindi, trasforma già su questa terra la propria creaturalità e carnalità, lasciandosi finalizzare e orientare verso la pienezza della vita eterna. L’anima incorruttibile a cui rimanda la Prima lettera di Pietro va intesa, pertanto, come bontà d’animo, pienezza di virtù e condotta irreprensibile. 


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