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Sabato Santo. Le donne davanti alla tomba e davanti al dolore degli altri: una meditazione

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Nel vangelo di Matteo si legge che sedute di fronte alla tomba di Gesù c’erano due donne, Maria di Màgdala, e l’altra Maria. Mentre «molte donne» durante la crocifissione osservavano da lontano (Mt 27,55) ora solo due di esse stanno sedute, ad osservare la sepoltura di Gesù (Mt 27,61). Sono le stesse che poi, di sabato – quando, secondo Matteo, è ancora sabato (e per questo, secondo l’evangelista, non portano aromi come le donne negli altri vangeli) – andranno ancora a vedere (Mt 28,1) quella tomba.

Per aiutarci a vivere questo Sabato Santo, pubblichiamo un altro estratto dal volume di G. Michelini, “Stare con Gesù. Stare con Pietro”, che contiene le meditazioni agli esercizi spirituali tenuti alla Curia Romana nella Quaresima 2017 (Edizioni Porziuncola).

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Cosa potevano fare quelle donne che contemplavano da lontano il crocifisso? Cosa si può fare davanti al dolore degli altri? Come si può intervenire? E, ancora, cosa facevano, sedute, davanti alla tomba in cui veniva deposto il corpo di Gesù? Se è vero che faceva parte «del patrimonio condiviso dalle donne al seguito di Gesù […] la familiarità con la morte, che acquisivano grazie ai loro compiti sociali»[1], che cosa però osservavano?

In alcuni casi, si può solo stare, come, si legge nel Quarto vangelo: Maria stabat sotto la croce di Gesù (Gv 19,25). Dacia Maraini, in un articolo per un quotidiano italiano[2], commentando l’atroce massacro in Aleppo, scriveva che «la globalizzazione ci ha resi tutti più vicini» – perché addirittura possiamo ascoltare voci che prima non avremmo mai potuto udire, come le richieste di aiuto che giungevano ai giornalisti tramite twitter – ma paradossalmente «la globalizzazione non ci ha resi più solidali o partecipi dei dolori altrui. […] Abbiamo le braccia sempre più corte e impedite. Difficile non pensarci, non sognarseli la notte, non chiedersi: ma io cosa posso fare per questa povera gente che sta morendo di fame, di terrore, di un’attesa brutale di morte?». Sognarseli la notte, ci viene da pensare – come la moglie di Pilato – che ha sofferto per il giusto perseguitato. Almeno, non cambiare canale. E poi, provare a fare qualcosa di concreto.

Stare sedute di fronte alla tomba di Gesù non è però un gesto vuoto o inutile. Queste donne alla tomba ci ricordano quello che ha fatto la sorellina di Mosè, Maria, al momento in cui questi venne lasciato nelle acque del Nilo. Siamo sulle rive del grande fiume. Da Es 2,4 leggiamo che la «sorella del bambino [Mosè] si pose a osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto». Il momento è drammatico. Lei è solo una bambina, e la mamma sta abbandonando il proprio figlio, Mosè, perché il Faraone ha decretato che tutti i maschietti debbano essere messi a morte. Di fronte a lei il fiume, con le sue correnti pericolose, gli animali feroci, i nemici egiziani. Cosa può fare una bambina, Maria? Può solo osservare da lontano. Ma poi, al momento opportuno, è capace anche di agire. La scaltrezza di questa sorellina, che è pronta a istruire la figlia del Faraone che non ha idea di come allattare il bambino («Devo andare a chiamarti una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?»: Es 2,7), salverà la vita a Mosè (una seconda volta, in quanto nella tradizione rabbinica Maria sarebbe già intervenuta precedentemente perché Mosè venisse alla luce). In questo modo il bambino è salvato non solo dalle acque del Nilo (Mosè = preso dalle acque; cf. Es 2,10), ma soprattutto dalla perdita della propria identità ebraica, e questo grazie a chi l’ha riportato alla sua madre biologica, la quale, anche se solo fino allo svezzamento, gli potrà instillare il legame con la propria origine. La tradizione dei saggi d’Israele, infatti, immagina che la figlia del Faraone provò a far allattare Mosè al seno di una donna egiziana; il bambino, semplicemente, rifiutò il suo seno, come quello di ogni altra donna di quel popolo. Solo a quel punto intervenne Maria, che – pazientemente e con fede – era rimasta ancora una volta a osservare. Avuto il permesso della figlia del Faraone di chiamare la madre, il bambino le si attaccò al seno e cominciò a nutrirsi. Allora la principessa d’Egitto le disse: «Ecco ciò che è tuo, nutri questo figlio» (Soṭa 12b): l’autore sacro ci dice che, quando Dio vuole ristabilire la giustizia e ridare ad una madre ciò che aveva dovuto sacrificare con la forza, lo fa addirittura con ironia.

Maria, la sorellina, non può far altro, ma in questo modo svolge il ruolo prezioso della custodia della vita del fratello, e si preoccupa anche che la sua identità religiosa e familiare potesse essere tramandata. Ed ecco che siamo immediatamente portati a pensare alle donne che, se da lontano assistono alla morte e sepoltura del Messia, saranno poi quelle che annunceranno la notizia della sua risurrezione. E non ci deve sfuggire un dettaglio curioso, che prendiamo ancora dalla tradizione giudaica: la sorellina di Mosè era, come anche la madre di Mosè, levatrice, abituata cioè a custodire la vita. Questo dettaglio ci porta ad una bella interpretazione simbolica riguardante, ancora, le donne.

 

Il sepolcro nuovo. Damiano Marzotto in un libro dedicato alle figure femminili nei vangeli e alla relazione con Pietro[3], osserva come le donne nel vangelo secondo Matteo siano protagoniste di «un parto straordinario», in senso simbolico, che si intravvede nel loro stare sedute di fronte al sepolcro. Matteo, diversamente da Marco, precisa infatti che il sepolcro offerto da Giuseppe d’Arimatea perché accogliesse Gesù era “nuovo”, e poiché di fronte ad esso si trovavano Maria di Magdala e l’altra Maria, «questo monumento “nuovo” tagliato nella roccia è come un nuovo grembo “verginale” che si apre ad accogliere e a custodire nella memoria, delle donne innanzitutto, il corpo del crocifisso. Di fatto questo “nuovo grembo verginale” non si chiude per sempre sul corpo di Gesù, ma proprio le donne che hanno assistito alla reposizione sono le stesse che recandosi a continuare la loro contemplazione del sepolcro (theoresai ton taphon, Mt 28,1), sono di fatto testimoni della sua apertura, del grande terremoto, della rimozione della pietra che chiudeva l’ingresso della tomba […]. Le donne che hanno contemplato la morte di Gesù in croce, che hanno assistito alla sua sepoltura quasi accogliendolo nella loro interiorità, prendono ora parte alla sua rinascita al mondo in un contesto di sommovimenti apocalittici che sembra mimare il travaglio del parto escatologico»[4].

Le donne, dunque, alla tomba di Gesù osservano come faceva Maria, e sperano. Attendono, come le partorienti, offrendo tutto ciò che possono offrire – cioè, come Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini scrivevano sopra a proposito della moglie di Pilato – la loro sofferenza. Rileggiamo quanto abbiamo già sentito dalle loro parole: «Qual è il titolo per cui una donna si legittima a difendere un essere umano? Com’è che una donna si schiera dalla sua parte? “Ho sofferto molto” è il titolo della sua partecipazione e della sua difesa». […]

 

[1] M. Perroni, Le donne di Galilea. Presenze femminili nella prima comunità cristiana, EDB, Bologna 2015, 48.

[2] D. Maraini, «Ma la morte di Aleppo non riesce a svegliarci», Corriere della Sera, 15 dicembre 2016, 1; 13.

[3] D. Marzotto, Pietro e Maddalena. Il vangelo corre a due voci, Àncora, Milano 2010.

[4] D. Marzotto, Pietro e Maddalena, cit., 14-15.


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