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Enzo Bianchi, Fabio Rosini, Rosanna Virgili "Commenti Vangelo 19 marzo 2023"

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"Commenti Vangelo 19 marzo 2023"

Quarta Domenica di Quaresima 

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 C’è chi è cieco ma dice di vedere 
  Gv 9,1-41

¹In quel tempo Gesù vide un uomo cieco dalla nascita ²e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». ³Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe» - che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». ¹⁰Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». ¹¹Egli rispose: «L'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va' a Sìloe e làvati!». Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». ¹²Gli dissero: «Dov'è costui?». Rispose: «Non lo so». ¹³Condussero dai farisei quello che era stato cieco: ¹⁴era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. ¹⁵Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». ¹⁶Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c'era dissenso tra loro. ¹⁷Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». ¹⁸Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. ¹⁹E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». ²⁰I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ²¹ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l'età, parlerà lui di sé». ²²Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. ²³Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l'età: chiedetelo a lui!». ²⁴Allora chiamarono di nuovo l'uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da' gloria a Dio! Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore». ²⁵Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». ²⁶Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». ²⁷Rispose loro: «Ve l'ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». ²⁸Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! ²⁹Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». ³⁰Rispose loro quell'uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. ³¹Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. ³²Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. ³³Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». ³⁴Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. ³⁵Gesù seppe che l'avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell'uomo?». ³⁶Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». ³⁷Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». ³⁸Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. ³⁹Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». ⁴⁰Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». ⁴¹Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane».

 

Nel cammino verso la Pasqua, dopo il tema dell’acqua viva che Gesù Cristo dona al credente in lui, la chiesa ci fa meditare sulla luce, o meglio, sull’illuminazione, azione compiuta da Gesù affinché noi vediamo e siamo strappati dalle tenebre.

 

Il lungo racconto della guarigione di un uomo cieco dalla nascita in realtà è la narrazione di un processo in diverse tappe intentato a Gesù. Un processo a colui che è “la luce del mondo” (Gv 8,12), la luce venuta nel mondo, quella che illumina ogni essere umano, eppure luce non riconosciuta e non accolta da coloro ai quali era stata inviata (cf. Gv 1,4-5.9-12). Questo racconto è paradossale, perché ci testimonia che chi è cieco, non vedente, incontrando colui che è la luce del mondo diventa “capace di vedere”, mentre quelli che vedono, incontrando Gesù restano abbagliati fino a rivelarsi ciechi, incapaci di vedere. Questo brano, inoltre, è altamente cristologico, presenta molti titoli attribuiti a Gesù, titoli che ritmano la progressione dalla cecità al vedere, dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla fede testimoniata. Ma come sempre ascoltiamo il testo con umile obbedienza.

 

Uscito dal tempio di Gerusalemme, dove ha celebrato la festa di Sukkot, delle Capanne, festa autunnale nella quale si invocava l’acqua come dono di Dio per la vita piena, Gesù vede nei pressi della piscina di Siloe un uomo colpito dalla cecità fin dalla sua nascita. Non avviene, come in tanti altri racconti di miracolo, che il malato invochi Gesù e gli chieda la guarigione, ma è Gesù che, passando, vede, discerne un uomo bisognoso di salvezza. Anche i discepoli che sono con Gesù vedono questo cieco, ma con uno sguardo diverso. Conoscono la dottrina tradizionale che lega in modo automatico malattia e peccato, non sanno vedere innanzitutto la sofferenza di un uomo ma cercano di spiarne il peccato. Per questo domandano subito a Gesù: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.

 

Gesù, che non vede il peccato ma piuttosto la sofferenza e il grido di aiuto in essa presente, dichiara che quella malattia è l’occasione per il manifestarsi del Dio che interviene e salva. Il suo è uno sguardo diametralmente opposto a quello colpevolizzante dei discepoli, uno sguardo che dice interesse per la sofferenza umana e volontà di cura conforme al desiderio di Dio. Di fronte al male noi umani, soprattutto noi credenti, cerchiamo una spiegazione, vogliamo individuare la colpa e il colpevole. Gesù invece rifiuta questo sguardo, lo sguardo dei discepoli, non propone alcuna spiegazione a quella cecità, al male sofferto dal cieco, e con una reazione di umanissima compassione si avvicina al cieco e si mette a operare per sopprimere il male e far trionfare la vita.

 

Gesù si dice “inviato” per compiere le opere di Dio, e ciò è possibile “finché è giorno”, finché è nel mondo, tra gli uomini, quale luce che le tenebre non possono sopraffare (cf. Gv 1,5). Dette queste parole, fa un gesto di cura, terapeutico: impasta della polvere con la sua saliva e la spalma sugli occhi del cieco. In tal modo ripete il gesto con cui Dio ha creato Adam, il terrestre, plasmandolo dalla polvere del suolo (cf. Gen 2,7). Non è un gesto di magia, ma un gesto umanissimo: l’uomo non vedente si sente toccato da Gesù, sente le sue dita e il fango sui propri occhi, sente di poter mettere fiducia in chi lo ha “visto” e lo ha riconosciuto come una persona nel bisogno. E non appena Gesù gli dice di andarsi a lavare nella piscina adiacente – detta di Siloe, cioè dell’Inviato di Dio –, egli obbedisce, va, poi torna da Gesù capace di vedere. A differenza di Naaman con Eliseo (cf. 2Re 5,10-12), egli crede alle parole di Gesù come parole potenti, efficaci, e così trova quella vista che mai aveva avuto. Il quarto vangelo descrive in appena due versetti la guarigione, senza indugiare sui particolari. Questo infatti è un “segno” (semeîon), più che un miracolo (dýnamis): non è il fatto in sé che deve trattenere la nostra attenzione, ma ciò che va cercato è il suo significato e soprattutto chi è all’origine del segno.

 

Ma questo fatto, questa azione scatena un processo contro Gesù, un processo in contumacia, perché egli non è più presente accanto all’uomo guarito. Il processo è articolato in quattro scene, ma alla fine è Gesù ad annunciare il vero processo in corso, nel quale si rivela chi vede e chi è cieco. La prima scena (vv. 8-12) ha come protagonisti i vicini, quelli che incontravano abitualmente il non vedente, i quali si rivolgono a lui, ora guarito. Essi si interrogano tra loro su cosa sia accaduto al cieco, se è veramente la stessa persona. Ed egli rivendica con forza la propria identità: “Sono io, che prima ero cieco e ora ci vedo”. I suoi interlocutori gli domandano cosa sia accaduto ed egli racconta loro ciò che l’uomo chiamato Gesù ha fatto e detto. Essi allora, presi dalla curiosità, gli chiedono dove sia questo Gesù, per poterlo incontrare, ma egli non sa rispondere.

 

Altri uomini, attenti alla Legge, portano il cieco dai farisei, gli osservanti esperti della Torah, affinché giudichino l’operato di Gesù (vv. 13-17). Infatti, precisa l’autore, “era un sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e aveva aperto gli occhi al cieco”. Segue dunque la domanda: “Può un uomo che infrange il divieto di lavorare in giorno di sabato, dunque un peccatore, fare un’azione buona?”. La risposta sembra ovvia: “No, egli non viene da Dio!”. Questo i farisei vorrebbero sentirsi dire dall’uomo guarito, che invece risponde: “È un profeta”, passo ulteriore verso la scoperta dell’identità di Gesù. Egli sta progredendo nella fede…

 

Segue la terza scena (vv. 18-23): non accettando la dichiarazione dell’uomo guarito, questi uomini religiosi fanno chiamare i suoi genitori e li interrogano sulla cecità del loro figlio. Costoro, colti da paura, preferiscono non leggere, non interpretare ciò che è accaduto al loro figlio. Dicono che egli era cieco dalla nascita, che ora ci vede, ma non sanno come ciò sia potuto accadere. Per questo scaricano su di lui la responsabilità: “Chiedetelo a lui. Ha l’età, parlerà lui di sé”.

 

Ed ecco la quarta e ultima scena (vv. 24-34). Quei farisei chiamano nuovamente l’uomo guarito e lo invitano ad ascoltare la solidità della loro dottrina. Cercano di convincerlo, perché loro “sanno”, hanno l’autorità di discernere che Gesù è un peccatore, dunque non può fare nulla di buono. Ma l’uomo guarito conferma, con buon senso: “Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo”. Ma queste parole non bastano, per cui essi insistono nell’interrogarlo, chiedendogli di raccontare per l’ennesima volta l’accaduto. In risposta, egli ironizza: “Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”. Segue la reazione sdegnata di quegli uomini religiosi, che disprezzano e insultano il malcapitato. La pretesa di questi farisei, esperti delle Scritture, è quella di “sapere”, di conoscere la tradizione alla quale vogliono restare fedeli: non possono dunque ammettere che una buona azione possa essere compiuta mediante una violazione del sabato. Questo sapere, questa conoscenza che pretendono di possedere, impedisce loro di riconoscere una “novità”, che pure si manifesta mediante l’emergere del bene. Solo il passato per loro è normativo, ed essi lo qualificano come tradizione autorevole: per questo non sanno né vogliono sapere l’origine di Gesù. L’uomo che era cieco, invece, ora vede, cioè sa: sa di essere stato guarito da Gesù, sa che Dio non ascolta il peccatore ma chi fa la sua volontà. Egli viene dunque cacciato fuori, fuori dalla comunità degli osservanti fedeli alla Legge, fuori come tutti quelli che riconoscevano Gesù quale Messia (cf. v. 22).

 

A questo punto ecco che si svela il vero processo in corso. Saputo che quell’uomo è stato espulso dalla sinagoga, Gesù lo va a cercare e, trovatolo, gli pone una domanda, da cui nasce il dialogo che costituisce il vertice di questa pagina:

-           “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”.

-           “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”.

-           “Lo hai visto: è colui che parla con te”.

-           “Credo, Signore!”. E si prostrò davanti a lui.

 

Ecco l’approdo alla fede: l’uomo chiamato Gesù (v. 11), il profeta (v. 17), uno che viene da Dio (v. 33), il Figlio dell’uomo (v. 35), è il Kýrios (v. 38), il Signore. Gesù allora, conosciuta questa fede, dice ad alta voce: “Io sono venuto in questo mondo per un giudizio, del quale è in corso il processo. Sono venuto perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. La reazione di quei farisei mostra che hanno capito la posta in gioco. Gli chiedono infatti: “Siamo ciechi anche noi?”. E Gesù conclude, con autorevolezza: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane”. Vedere un segno compiuto da Gesù e non riconoscere il bene che esso rappresenta, non riconoscere che Dio è all’origine del suo agire, significa essere gettati fuori, essere nelle tenebre, non vedere.

 

Non resta che chiederci se anche noi siamo dei ciechi nella fede: crediamo forse di vedere e invece non riconosciamo chi è la luce, Gesù Cristo?


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“Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?. Rispose Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Questa quarta domenica di Quaresima ci offre un altro stupendo affresco dal Vangelo di Giovanni, un testo miliare, una di quelle scene tra le più solenni e significative a segnare la tipicità della fede cristiana. Gesù si trova ancora a Gerusalemme quando incontra un uomo cieco dalla nascita il quale, a causa della sua menomazione – che segnala una implicita colpa – non può entrare nell’area pura e sacra del Tempio. In ogni malattia o invalidità fisica si cela, infatti, un’impurità e, quindi, un impedimento al rapporto diretto di chi ne è portatore col Santo, con Dio. La ragione di questa dottrina è scritta nel libro dell’Esodo dove si legge: “Il Signore passò davanti a lui, proclamando: Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 34,6-7). Ci troviamo nel momento in cui il Dio del Sinai – che aveva interrotto la sua alleanza col popolo a causa del vitello d’oro – torna sui suoi passi e rinnova l’alleanza presentandosi come un Dio ricco di grazia. Nel ricordare che a chi violerà di nuovo la legge toccherà, in ogni caso, un castigo, Dio dice – per bocca di Mosè – che questo colpirà fino alla terza e alla quarta generazione. Una punizione che era prevista anche in altre religioni e culture del mondo antico, dove la colpa dei padri era una hybris, una sorta di macchia sul destino dei figli. Ma qui colpisce l’asimmetria tra il castigo e la ricompensa per Israele: per contro Dio userà misericordia per mille generazioni! Ed ecco che dinanzi a un cieco nato i giudei, non potendo giustificare la cecità con un peccato commesso dall’uomo stesso, ricorrevano a questa soluzione: un genitore doveva aver peccato prima di lui e fatto così ricadere sul figlio o il nipote il castigo della sua colpa. La ragionevolezza di una retribuzione individuale per il peccato si era già affacciata, tuttavia, nel profeta Ezechiele che, a questo proposito, cita, per poi smentirlo, un proverbio: “Mi fu rivolta questa parola del Signore: Perché andate ripetendo questo proverbio sulla terra d’Israele: I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati? …oracolo del Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele …Voi dite: “Perché il figlio non sconta l’iniquità del padre?”. Perché il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine, ha osservato tutte le mie leggi e le ha messe in pratica: perciò egli vivrà. Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio” (18,1-3.19-20). Ma Gesù supera anche la giustizia dei profeti e alla domanda: “di chi è la colpa?” da cui anche i suoi discepoli si aspettano che venga indicato il responsabile della stessa, risponde con una parola imprevedibile e spiazzante: di nessuno è la colpa! La cecità non è una colpa…ma è posta ad occasione della grazia. Gesù spezza definitivamente il legame tra malattia e colpa, tra danno e delitto, tra il peso del male che possiamo ereditare e l’innocenza della libertà su cui rinasce il nostro futuro, per aprire un varco alla grazia che scioglie la pietra della colpa e libera dal peso del peccato. Le tenebre negli occhi di quell’uomo diventano per teatro e sacramento della potenza della luce che è Gesù stesso: “Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato…Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo”. Parole che riecheggiano, mentre si realizzano nel miracolo del cieco nato, di quanto annunciato “in principio” dal Vangelo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Del resto anche il Gesù di Luca, nel suo manifesto programmatico esposto nella sinagoga di Nazareth, aveva detto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista” (Lc 4,18). La Sua Parola è la luce con cui ogni umano riceve intelligenza, giustizia, libertà, via verità e vita. E noi crediamo che “le tenebre non l’hanno vinta” e mai la vinceranno.  (Agensir)

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