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Severino Dianich "Pregare in tempi di guerra"

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Pregare in tempi di guerra

Severino Dianich

Ebbi la ventura, anni fa, di ritrovarmi nei territori palestinesi, pochi chilometri fuori Ramallah, nel villaggio di Ein Arik: un quarto degli abitanti cristiani, una moschea e due chiese,  una piccola comunità cattolica di rito latino. Il parroco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, mi confessava la difficoltà di far partecipare i fedeli alla Liturgia delle Ore.

C’erano fra  loro alcune famiglie costrette ad abbandonare casa e terra di fronte all’avanzata dell’occupante: come avrebbero potuto cantare il Salmo 78, lodando Dio che «sulla loro eredità gettò la sorte, facendo abitare nelle loro tende le tribù d’Israele»? Recitando i Salmi, non di rado, la preghiera incespica, la lingua sembra rifiutarsi di declamare le stesse espressioni con cui il salmista antico pregava, ma che il cuore cristiano non può far sue.

Quando egli ha voluto colpire, Gesù gli ha detto: «Rimetti la spada nel fodero» (Gv 18,11). Egli non può più dire: «Il Signore addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia» (Sal 144,1), né invocarne la potenza: « Salvami, Dio mio! Tu hai colpito alla mascella tutti i miei nemici, hai spezzato i denti dei malvagi» (Sal 3,8).

La commissione, preposta alla redazione della Liturgia delle Ore, dopo il Concilio, ha avuto consapevolezza del problema e ha espunto dai Salmi 110 e 137 le loro imprecazioni finali e dal 139 i versi 21 e 22: « Detesto quelli che si oppongono a te! Li odio con odio implacabile». Giovanni aveva sentenziato: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida» (1Gv 3,15).

I salmi

Spero, quindi, venga ascoltato l’auspicio, risuonato negli incontri di ascolto del Cammino Sinodale, che si provveda, in un riordinamento della preghiera liturgica, a una nuova scelta di testi biblici, che permetta ai fedeli di sintonizzarsi con le parole che pronunciano. Nel clima avvelenato di questa guerra, cristiani di una parte e dell’altra sono tornati a pregare per il trionfo del proprio esercito e lo sfacelo dell’avversario: il canto dei Salmi rischia di trasformarsi in un peana per la vittoria e di alimentare l’odio del nemico.

Torna alla memoria, con tristezza, anche se con la dovuta comprensione per chi sta subendo sulla propria pelle l’aggressione, la disapprovazione indignata di molti cristiani di fronte al gesto di una signora russa e una ucraina che, nella Via Crucis dello scorso Venerdi Santo al Colosseo, hanno portato la croce e hanno pregato insieme.

Il problema della violenza, attribuita a Dio dai testi dell’Antico Testamento, ha sempre coinvolto gli studiosi delle Scritture, i quali hanno cercato di comprendere come, in una cultura diversa dalla nostra, sia stato possibile attribuire a Dio sentimenti e propositi di morte e distruzione. I maestri di vita spirituale hanno aperto vie diverse per leggere con fede tutta la parola di Dio, senza censurarne alcuna espressione, e hanno suggerito sottili interpretazioni allegoriche, per tradurre le immagini cruente della guerra nella lotta spirituale da affrontare, per far prevalere la virtù sulla potenza del male.

In un qualche museo, ricordo di essermi trovato davanti, con disgusto, un quadro vistoso, rappresentante un’aureolata signora che afferra per i piedi un bambino, nel gesto di sbatterlo contro un blocco di marmo. L’artista, dopo aver ascoltato lo struggente lamento di apertura del Salmo 137: «Lungo i fiumi di Babilonia…», non si è sgomentato nel doverne rappresentare l’imprecazione finale: «Figlia di Babilonia… beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra».

Per riportare sulla tela quell’orrore, gli era bastato, scrivere sul blocco di marmo: «La Virtù che abbatte i Vizi». Era l’illusione della spiritualità del tempo di poterne fare una diafana allegoria della vittoria del bene sul male, rendendone sopportabile all’immaginazione il fosco spettacolo.

Parole performative

Ma è esperienza di tutti: le parole esercitano la loro potenza prima di essere interpretate, appena giunte alle labbra: o uno le ricaccia in gola prima che escano dalla bocca, o si rischia di farle proprie e di assorbirne tutto il veleno. Pregare, infatti, coinvolge i sentimenti; non si prega senza emozione. Non è la stessa cosa studiare i Salmi, esporne nella catechesi il senso e il valore, o pregare con i Salmi.

Soprattutto in questo tempo di guerra, per non restare travolti dal cupo clima di violenza nel quale si vive, chi prega i Salmi dovrebbe rifornirsi, in un angolo della memoria, di una antologia delle più belle parole di amore della Sacra Scrittura. Egli potrà, quindi, estrarre, di volta in volta, l’una o l’altra delle espressioni di pace e sovrapporle alle parole della violenza e dell’odio, che resteranno sullo sfondo ma velate, come in filigrana.

La Parola di Dio propone all’orante la dolce e potente immagine di «Dio che stronca le guerre» (Gdt 16,2), alimenta il sogno del giorno beato nel quale Dio «romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel fuoco gli scudi» (Sal 46,10), promette che egli si farà «arbitro fra molti popoli» ed essi «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4), invita a pregare perché «le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia» (Sal 72,3) e annuncia che «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11).

I Salmi suscitano nella mente un turbinio di immagini. Al di sopra di tutte il cristiano conserverà imponente quella di Gesù, «venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,17). Gesù risorto, che ha mandato nel mondo coloro che credono in lui, augurando loro per ben tre volte: «Pace a voi!» (Gv 20,19; 20;26) mantiene alta, per sempre, l’esaltazione dell’antico profeta: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza» (Is 52,7).

  • Pubblicato su Vita Pastorale (febbraio 2023).
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