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Massimo Recalcati "Le nostre vite governate dal dubbio"

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La Repubblica, 28 febbraio 2023 

Un padre di famiglia mite e profondamente legato al proprio figlio, marito devoto e responsabile, animato da interessi intellettuali ampi, compresa una attività come volontario in una associazione umanitaria, chiede di essere ascoltato per alcuni suoi comportanti nei confronti del figlio adolescente che gli risultano inspiegabili. A fare traboccare il vaso un episodio recente: mentre la famiglia era riunita a tavola, il figlio rovescia involontariamente dell’acqua sul padre che reagisce d’impulso colpendolo con violenza. Si tratta di una reazione che sorprende per primo il padre stesso che non ha mai fatto ricorso alla violenza fisica nell’educare il proprio figlio. Quando mi racconta il fatto appare visibilmente angosciato nel descrivere la rabbia che lo ha spinto contro la propria volontà a infierire sul ragazzo. A quel punto, ancora più angosciato, si chiede se forse quello che lui ha sempre creduto di essere – un padre amorevole e un marito irreprensibile – sia soltanto una maschera, una facciata, una semplice impostura. È un dubbio che lo scuote lasciandolo quasi senza fiato. «Ma chi sono io veramente?» si chiede alla fine della seduta. Questa scena mostra inequivocabilmente come quello che noi crediamo di essere non necessariamente coincide con quello che siamo veramente. Si tratta del capovolgimento del celebre cogito ergo sum di Cartesio col quale si inaugura l’età moderna. Diversamente da quello che pensava il grande filosofo francese, per il mio paziente non esiste alcuna roccia stabile sotto la sabbia corrosiva del dubbio. Conosciamo invece la roccia di Cartesio: se l’esistenza di ogni cosa può essere sottoposta al rigore devastante del dubbio, l’atto del pensiero non può invece che confermare la certezza che chi pensa esiste al di fuori di ogni ragionevole dubbio: cogito ergo sum. Ma questa identità viene scossa alle sue fondamenta dalla psicoanalisi. È l’obiezione che il mio paziente rivolgerebbe a Cartesio: non è vero che io sono quello che penso di essere! Tutto il contrario! Io non credo di essere quello che penso di essere. 
Questo è il problema! 
In un breve testo titolato Una difficoltà della psicoanalisi Freud ricorda le tre grandi umiliazioni inferte al narcisismo umano. La prima risalirebbe a Copernico e sarebbe una “umiliazione cosmologica”: la Terra non può pretendere di essere il centro dell’universo perché è solo un pianeta tra gli altri che ruota attorno al Sole. La seconda a Darwin e sarebbe una “umiliazione biologica”: l’essere umano non proviene da essenze sovrasensibili, ma dai primati lungo la catena dell’evoluzione. Infine la terza umiliazione, quella “psicologica”, sarebbe quella inferta dalla psicoanalisi. Mentre prima di Freud si riteneva che il cogito fosse una proprietà della coscienza e che la sua certezza fondasse indubitabilmente l’esistenza del soggetto, con Freud il cogito viene scalzato dalla sua posizione di comando: «L’io non è padrone nemmeno in casa propria». Quali sono le enormi implicazioni di questa terza umiliazione narcisistica? La ragione filosofica tradizionale riteneva di aver trovato con Cartesio la roccia sotto la sabbia del dubbio e del suo potere corrosivo. Possiamo dubitare di tutto ma non del fatto che è il nostro pensiero che sta dubitando. Freud mostra invece che non è affatto detto che siamo davvero quello che pensiamo di essere. Egli apre uno squarcio tra l’essere e il pensiero rompendo la loro coincidenza. La nostra esperienza, non solo clinica ma anche quotidiana, conferma ampiamente l’esistenza di questa sfasatura. Nella scena del padre che colpisce il proprio amato figlio l’essere e il pensiero si dividono. Il dubbio non è ciò che chiude la divisione ma ciò che la apre: «Sono davvero quello che penso di essere?». È questa l’umiliazione che Freud infligge al narcisismo umano: l’io non è affatto la roccia che persiste sotto la sabbia del dubbio, ma diventa, a sua volta, una realtà enigmatica. Chi sono io? Io sono davvero quello che credo di essere? 
Questa frattura tra l’essere e il pensiero rende l’animale umano strutturalmente agitato dal dubbio. È la tragedia dell’Edipo di Sofocle che crede di essere il re di Tebe, il marito di sua moglie, il padre dei suoi figli e invece scopre di essere un regicida–parricida, il figlio di sua moglie e il fratello dei suoi figli. Ma è anche la tragedia dell’Amleto di Shakespeare che pur sapendo – diversamente da Edipo – la verità sulla morte di suo padre, non riesce a liberarsi dalle catene del dubbio che paralizzano la sua azione. La frattura che scinde l’essere e il pensiero e dalla quale scaturisce il dubbio non è l’espressione di una patologia, ma costituisce l’essere umano come un essere strutturalmente diviso, il quale, diversamente dalla vita animale, non è mai ciò che crede di essere. 
È proprio per questa ragione l’amore dei cani ci appare unico: diversamente dall’amore umano, un cane ci ama davvero per quello che siamo. 
Nondimeno, la psicoanalisi mostra che non è il dubbio ma la sua assenza ad essere profondamente patologica. Lo sosteneva Lacan quando affermava che se un pazzo con un colapasta in testa crede di essere un re è evidentemente un pazzo, ma è assai più pazzo un re che crede di essere un re. Non è forse questa la malattia mentale per eccellenza? Credersi, al di là di ogni dubbio, un io? 
Una delle intuizioni più profonde della psicoanalisi consiste nel ritenere che la forma più grave di malattia mentale si generi non per difetto di identità, ma per una sua ipertrofia. È un rovesciamento del senso comune: non è l’indebolimento dell’io a generare malattia quanto il suo rafforzamento. 
L’attaccamento al nostro io impedisce infatti l’apertura caratteristica del movimento dubbio. Irrigidendo la coincidenza tra l’essere e il pensiero, questo attaccamento istituisce confini, distinzioni rigide, manichee, promuove segregazioni. Non a caso i grandi paranoici (pensiamo a Hitler come paradigma) si mostrano assolutamente privi di dubbi. La propria identità diviene la sola misura della verità. È quello che vediamo emergere anche nell’età della giovinezza. Per un verso il dubbio diviene protagonista corrodendo le credenze ingenue dell’infanzia. È la profonda affinità che sussiste tra l’adolescenza e il pensiero critico. Per un altro verso però esiste una tendenza dei giovani ad identificarsi con un ideale eroico di purezza che in nome del dubbio vorrebbe poter spegnare ogni dubbio. È questo il punto dove l’adolescenza diviene patologica attribuendo fuori di ogni dubbio ai propri genitori o alle vecchie generazioni la responsabilità del loro disagio. È il manicheismo che può contraddistinguere la giovinezza, dal quale sorge ogni forma di fanatismo. È quella certezza assoluta di essere nel giusto che può armare la mano del giovane terrorista senza farla tremare: nessun dubbio, nessuna indecisione, nessuna pietà. Non avere dubbi sull’essere nel giusto può giustificare l’uso della violenza. In questo senso la psicoanalisi resta erede della grande tradizione socratica. Conoscere se stessi significa disfare la credenza paranoica di essere quello che pensiamo di essere. Per questa ragione la forma massima dell’ignoranza non è tanto quella di ignorare il sapere – non sapere tutto il sapere – ma quella di pretendere di sapere, fuori di ogni dubbio, la verità. 
Se la psicoanalisi è laica è proprio perché ignora le verità ultime che invece ogni pensiero dogmatico pretenderebbe di conoscere e possedere. Il fanatismo dogmatico esige, infatti, l’estirpazione sistematica del dubbio. Da qui scaturisce il suo fascino inquietante: possedere la verità significa ricucire quella frattura tra l’essere e il pensiero che invece ci segue come un’ombra. 
È avere una risposta su tutto senza però accorgersi che questa non è la forma massima della sapienza, ma quella massima dell’ignoranza.
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