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Lidia Maggi "Pensare la vita con la Bibbia"

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Pensare la vita con la Bibbia

 di Lidia Maggi 
Rocca” n 4
15 febbraio 2023

Non sono una teologa di professione. Lo dichiaro subito per onorare il lavoro di quelle figure accademiche che fanno volare alto il pensiero, con anni di studio e di confronti serrati. Alla loro produzione attingo e il più delle volte mi stupisco della ricchezza delle chiavi di lettura proposte, delle intuizioni che danno avvio a costruzioni raffinate. Dovrò pagare il debito che ho nei loro confronti, io che sono una teologa di seconda mano! Queste righe sono un po’ come la prima rata, versata con un senso di gratitudine per il prestito ottenuto; e segnata dall’intenzione di mostrare che quel credito accordato non è stato vano. Se mi chiedessero quale tipo di teologia sento più mia, non saprei rispondere. Mi appassiona il procedere sistematico di un Karl Barth e l’ermeneutica del sospetto di Elisabeth Schüssler Fiorenza, le domande esistenziali di Paul Tillich e quelle politiche di Dorothee Sölle. Colgo le differenze di pensiero ma sento il conflitto delle interpretazioni come espressione legittima, persino necessaria, di una verità sempre più grande che le teologie provano a scorgere da diversi punti di osservazione. 

la Bibbia, uno spazio di discussione 

Non è così già nel mondo plurale delle Scritture ebraico-cristiane? È proprio al mondo delle Scritture che sono ricondotta dalle diverse produzioni teologiche. Ed è nell’abitare quel mondo che sento l’esigenza di dare forma ad un pensiero teologico. Non saprei stare diversamente nel mondo delle narrazioni bibliche, a meno di ridurle a repertorio di frasi religiose a cui attingere a seconda dei gusti e dei bisogni personali. Come dire: se sei solo una turista nel mondo della Bibbia, non ti serve la teologia: ti basta scattare qualche foto e comprare dei souvenir. Ma se quel mondo decidi di abitarlo, allora è impossibile eliminare il pensiero, a beneficio del solo sentimento. Nell’agorà delle Scritture, prendono la parola i diversi personaggi e autori, insieme a lettrici e lettori delle diverse epoche storiche. Non è un talk show che punta all’audience: lì si pongono questioni di vita e di morte. E su quei nodi si apre il dibattito. La Bibbia è una grande discussione! Quando leggiamo un libro di narrativa, la nostra attenzione è rivolta ai diversi personaggi e alla trama del racconto. Lo stesso avviene per la Bibbia. 

un personaggio «tortuoso» 

Ma si potrebbe anche pensare che il Libro stesso è un personaggio. Sfuggente, misterioso, come lo sconosciuto che lotta con Giacobbe presso il fiume Yabbok (Genesi 32). Per me è un raccontospecchio, una scena che ha la forza di restituire l’intera narrazione biblica. Nell’accidentato percorso esistenziale, pieno di imbrogli fatti e subìti, di situazioni fuori controllo con esiti imprevedibili, Giacobbe, uno dei personaggi biblici più complessi, deve affrontare il fratello Esaù, a cui aveva sottratto vent’anni prima la primogenitura. Si trova a vivere quel particolare momento in cui i nodi giungono al pettine. E con essi la paura di non riuscire a scioglierli. 
I conflitti sono ingrediente fisso di ogni vita – per Giacobbe persino prima del venire messo al mondo – ma alcuni conflitti sono più decisivi di altri, fanno da spartiacque. Qui Giacobbe subisce un terremoto esistenziale; la paura ha il sopravvento e la lotta che ne segue mostra i tratti di una seduta psicanalitica. Non è chiaro con chi lotti Giacobbe. Noi ci chiediamo se sia un uomo o se sia Dio: vi è come una sovrapposizione tra l’esperienza del divino e l’esperienza dell’umano, come, del resto, in tutta la Scrittura. Una lotta che Giacobbe vince, senza per questo risolvere la sua angoscia. 
La paura, che permane anche dopo essere stato dichiarato vincitore, lo spinge ad adottare una strategia di retroguardia: manda avanti prima i doni per ingraziarsi il fratello e solo alla fine gli va incontro di persona. Il nome Giacobbe significa «tortuoso»; e qui tutto è tortuoso: il patriarca, Dio, il racconto. Tortuosa, in realtà, è la vita e, dunque, anche quel mistero che ne è la fonte e che noi chiamiamo Dio, insieme alla narrazione plurale che attesta la relazione. Tortuosa e dunque soggetta a discussione, sottoposta ad interrogazione. 

chi è davvero il benedetto? 

Contraddittoria, a tratti paradossale, è la vicenda dei due «fratelli coltelli». Il narratore, che precedentemente ha messo in scena un Esaù che ha rinunciato alla sua primogenitura, per disprezzo; e poi un Esaù che non ha potuto avere la benedizione perché gli è stata letteralmente rubata con l’inganno; ora, mette in scena un Esaù che, sorprendentemente, non è un uomo astioso, ma una persona riconciliata e benedetta, pieno di figli e figlie, e tanto bestiame; un uomo disponibile ad andare incontro al fratello: gli corre incontro, lo abbraccia e lo bacia. Giacobbe, invece, continua ad ingannarlo, non fidandosi del cambiamento espresso nell’incontro. Colui che non si è potuto appoggiare sulle stampelle della benedizione divina sembra aver camminato nella vita con più serenità. Esaù è un uomo risolto, riconciliato prima ancora che con il fratello, con se stesso. Mentre Giacobbe, nonostante la benedizione e il confronto con il messaggero divino, è ancora incapace di parlare la lingua della fiducia e della lealtà. Alla fine del percorso: chi tra i due è davvero il benedetto? 

la Bibbia domanda di essere pensata 

Questa scena tortuosa, per certi versi contraddittoria – come, del resto, è contraddittoria la vita! – si presta ad evocare la necessità di una riflessione teologica, che sappia essere all’altezza di una vita che sfugge alle semplificazioni e di un Dio il cui operato non ha nulla delle evidenze religiose da sempre attribuitegli. Senza teologia c’è spazio solo per l’homo religiosus e per il Deus ex machina. 
Per esistenze poco lineari, abitate da sentimenti contraddittori, e per un Dio che ribalta gli immaginari più consolidati ed entra nella mischia della storia occorre la fatica del pensiero. Solo la discussione teologica si profila come l’arma con cui provare ad affrontare la lotta. 
Se è la Bibbia stessa a domandare di essere pensata, interrogata, discussa, con un atteggiamento per nulla fideistico, remissivo, ossequioso, allora il pensiero può sentirsi a casa nel mondo delle Scritture. Allora – per dirla con un amico teologo, recentemente scomparso, Armido Rizzi – si tratta di «pensare dentro la Bibbia». L’affermazione sembra semplice, quasi evidente. In realtà, per secoli la Bibbia è stata considerata solo come la premessa al vero e proprio esercizio del pensiero: un repertorio di immagini che i teologi, armati degli strumenti messi a punto dalla filosofia, usano per edificare sistemi la cui coerenza risponde a criteri extra-biblici. Il recupero operato dalla Riforma della comprensione già patristica della Scrittura «interprete di se stessa» è stato un grido di battaglia per ritrovare il logos biblico, troppo in fretta abbandonato in favore di quello filosofico. Come dire: non c’è, da una parte, un mondo naif, quello della narrazione biblica e, dall’altra, la ragione che, con sufficienza, guarda a quei racconti mitici e prova a strapparli dall’ingenuità infantile per condurli alla maturità del concetto. Piuttosto, c’è una ragione propria di quei racconti, un’intelligenza biblica della realtà. Fare teologia significa dire il mondo con la lingua delle Scritture. Essere teologhe e teologi implica l’avere come lingua madre quella delle Scritture. 
Vuol dire scommettere – a ragion veduta! – che quella lingua, quello sguardo intensificano la visione, fino a far emergere quella vita buona che è il sogno di Dio fin dalla fondazione del mondo. 

il caso serio della Parola 

Pensare dentro le Scritture non è il privilegio di chi, con posa aristocratica, non ritiene sufficiente credere e basta. È la mossa consapevole di chi prova a prendere sul serio quella Parola che dice il mondo e conosce il mio nome. È la passione dell’amata per l’amato, capace di leggere tra le righe del detto, in grado di scorgere l’intenzionalità del discorso, di collocare le singole parole entro una storia di relazione. È l’inseguimento amoroso della ragazza del Cantico dei cantici, insieme alle domande angosciose di Giobbe; è il mondo visto alla luce della redenzione, come narrato nell’Apocalisse, insieme al rigoroso principio di realtà del Qohelet. È sguardo percepito come unico – «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» – e, allo stesso tempo, necessariamente dialogico e aperto a profezie straniere – «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci. 
Ma Gesù gli rispose: Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi». Nessuna semplificazione è possibile per chi pensa dentro la Bibbia. La parola delle Scritture intensifica la percezione del vissuto, attivando sul medesimo evento una molteplicità di chiavi di lettura; e discute quegli assoluti troppo a nostra misura, partendo però proprio dal nostro sguardo limitato e offrendo una parola pedagogicamente tagliata su misura delle nostre possibilità. 
Non è raro per chi prova a pensare dentro le Scritture di esprimersi con ossimori; e non per un vezzo esoterico, a motivo di un linguaggio iniziatico, riservato a soli eletti. Piuttosto per fedeltà al mondo, alla vita e a un Dio sempre più grande delle nostre categorie in bianco e nero. Penso alla prima parola di questa lingua, al momento sorgivo dell’esperienza credente attestata nelle Scritture. 
È lo stupore o il grido? È la meraviglia per una realtà giudicata «buona, molto buona», come afferma il Creatore fin dalla prima pagina? Oppure è il grido disarticolato e privo di interlocutore degli schiavi oppressi e disperati, con cui si apre il racconto dell’Esodo? Entrambi appaiono come l’inizio di un pensare dentro la Bibbia. E non solo l’inizio. Stupore e grido sono le chiavi dell’intero spartito biblico. Segnano l’esperienza del popolo d’Israele, di Gesù di Nazaret e quella dei suoi seguaci. Esprimono quel mistero dell’esistenza che è racchiuso nel desiderio di una vita buona, riconosciuto con stupore e non arreso di fronte alla sua negazione ingiusta. Stupore e grido dicono il mondo col linguaggio della bellezza e con quello della giustizia. Insieme. Mai l’una senza l’altra, pena quel «mancare il bersaglio» che la lingua delle Scritture chiama «peccato». E che si comprende meglio se non lo si intende come trasgressione che implica una sanzione ma, piuttosto, come interiezione sulla bocca di Dio: «peccato che non riesci a vedere in profondità il mistero della vita!». 

la teologia come esercizio di responsabilità 

C’è un’espressione del filosofo ebreo Franz Rosenzweig che mi appare significativa per il mio modo di leggere le Scritture. Aprendo la prima pagina del Libro, afferma: «Dio ha creato il mondo, non la religione!». Forse, a qualcuno potrà sembrare solo una frase ad effetto; in realtà, esprime la postura dello sguardo che la narrazione biblica, nel suo incipit, suggerisce a chi legge: il mondo narrativo che inizi a percorrere parla di te, del tuo mondo, dei desideri che ti abitano, insieme alle contraddizioni, al caso e alla necessità. Non è un libro che ti spinge a guardare il cielo – lo dirà anche il Risorto, in un altro incipit, quello che dà inizio alla testimonianza evangelica fino alle estremità della terra. 
È un racconto realistico, per nulla idealistico; è una parola vicina, lievito per l’agire quotidiano, visione che orienta le scelte, anticorpo alla rassegnazione allo stato di cose presenti. 
Per me, teologa di seconda mano, il pensare dentro le Scritture è diventato un esercizio di responsabilità nei confronti di un’umanità che fatica ad accendere sguardi di senso sul proprio vissuto, che rischia di limitarsi a funzionare invece che vivere. E, insieme, un esercizio gioioso, di grazia – un’eccedenza di gratuità e di graziosità, che fa da filo rosso a tutta la Scrittura. Una teologia sensibile alla giustizia e alla bellezza, al grido e allo stupore, che si lascia interpellare dalla vita, che apprende la necessità di abitare il mondo rispondendo: «eccomi». 
Ha scritto Günter Anders: «Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi». 
Una teologia che pensi dentro le Scritture è un servizio che le persone credenti nel Dio di Abramo e di Sara, di Gesù e di Maria Maddalena, non possono esimersi dallo svolgere, a beneficio del mondo, amato da Dio e sognato come giusto e bello, luogo in cui possa fiorire la vita buona.

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