Massimo Recalcati "Iran. L’odio per la vita"
La Repubblica, 20 dicembre 2022
Le esecuzioni pubbliche dei ragazzi che si oppongono al regime dimostrano un’ideologia delirante.
Le impiccagioni pubbliche dei giovani oppositori al regime teocratico degli ayatollah intendono
frenare la rivolta in corso in Iran attraverso l’esibizione terroristica della morte. Una schizofrenia
temporale sconcertante appare sotto ai nostri occhi.
Da una parte un popolo, guidato alla rivolta dalle donne, esige libertà e democrazia muovendosi con
decisione e coraggio verso un nuovo avvenire. Dall’altra parte il sistema politico del regime teocratico
che resta vincolato ad un passato remoto, immobile, insensibile ad ogni progresso, ancorato ad una
ideologia patriarcale e maschilista di tipo medioevale. È un esempio tragico di cosa significa restare
legati nostalgicamente ad un passato destinato ad essere irreversibilmente corroso dal tempo. Ma
anziché riconoscere il carattere delirantemente antiquato di questo attaccamento nostalgico, si agita
l’orrore della morte come atto di giustizia voluto da Dio. È questa l’espressione del cuore
profondamente perverso del regime teocratico. Quale è, infatti, la natura più profonda della
perversione? Lacan lo ha indicato con precisione: farsi alfieri, legionari, crociati, cavalieri della fede
di una Legge che esige il sacrificio perpetuo della vita umana nel nome di un ideale superiore. È
quello che sta accadendo in Iran: si invoca la Legge di Dio contro quella degli uomini trasfigurando
l’esercizio brutale del potere in una opera di purificazione morale resasi necessaria dall’ostinazione
ottusa di coloro che non sanno riconoscere l’assoluta potenza di quella Legge.
Non a caso quelli che si oppongono al regime degli ayatollah sono definiti “nemici di Dio”. In realtà,
la moltiplicazione delle condanne a morte e la loro pubblica esecuzione sono l’ultimo disperato
tentativo del regime di fermare il dilagare della protesta. Non deve sfuggire anche in questo caso la
natura profondamente perversa di questa strategia: evocare lo spettro della morte per provocare
angoscia e paralizzare la rivolta. In tutti i regimi totalitari questo schema è stato sempre utilizzato
lucidamente: la minaccia incombente della morte deve poter frenare il dissenso, dissuadere la
protesta, silenziare gli oppositori, spegnere la loro voce, riportare l’ordine. Nondimeno, questo uso
sadicamente spettacolare della morte, esibita come un martello che deve schiacciare senza pietà gli
oppositori al regime, rivela che la morte non è solo uno strumento al servizio della repressione in
condizioni di emergenza, ma il cemento armato che permea ogni regime totalitario. La perversione
del potere non si misura solo a partire dalla sua azione arbitraria, ma anche dalla sua spinta alla morte.
Il Novecento ne ha fornito drammatici esempi. In ogni fondamentalismo ideologico-religioso l’odio
profondo per la vita appare in assoluto primo piano. Nel caso della teocrazia la tesi teologica che lo
fomenta è semplice e drammatica nello stesso tempo: la vera vita non è questa, ma è quella di un
mondo al di là di questo mondo, di cui questa vita è solamente una pallida ombra. La mortificazione
della vita - di cui le donne sarebbero l’incarnazione maligna - sarebbe, di conseguenza, la sola
possibilità per accedere alla salvezza, il suo sacrificio l’obolo necessario per essere accolti nel mondo
vero che si situa al di là del mondo del mondo falso. L’odio per la vita è, dunque, la sola possibilità
di guadagnare il rimborso nell’al di là per le sue privazioni vissute nell’al di qua.
È lo spirito sacrificale che troviamo in tutti i totalitarismi. Ma è proprio in quelli teocratici che appare
a volto scoperto: la Legge di Dio odia la vita perché non ci deve essere gioia in questo mondo. Per
questa ragione il regime degli ayatollah non può esprimere alcuna pietas, capacità di ascolto. Mostrare
la morte in piazza attraverso le impiccagioni significa piuttosto ribadire che la vita in quanto tale è un
oggetto d’odio. Il Dio degli ayatollah è un Dio della guerra che combatte non solo contro le altre
religioni, ma, innanzitutto, contro la vita stessa. Per questa ragione il maschilismo non è una
appendice solo secondaria della teocrazia, ma un suo nucleo psichicamente più significativo: se la
donna è l’incarnazione della vita e della libertà, l’odio per la vita impone il suo asservimento
disciplinare, la sua sistematica mortificazione, la sua cancellazione. Il corpo della donna è, infatti,
l’anti-Dio, l’anti-regime, l’antagonista irriducibile alla violenza del patriarcato. Per questa ragione la
sua inferiorità ontologica e morale deve sancirne la dimensione impura e la sua necessaria
purificazione. È l’inclinazione maschilista di ogni patriarcato: credere fanaticamente in Dio è un
modo per rifiutare l’esistenza della donna, per continuare ad odiare la vita.