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Antonio Spadaro "Il futuro della Chiesa è la suspense"

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Dubbio, incertezza, precarietà inquieta sono il motore della speranza. E quindi anche i sentimenti guida oggi di un’istituzione che non può rinunciare all’utopia

La Chiesa ha futuro? Tra il 1945 e il 1946 Stig Dagerman pubblicava i suoi primi romanzi. È tutta da leggere una sua magnifica riflessione, nella quale egli dice, tra l'altro: "Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa". Per lo scrittore svedese mancare di fede significa mancare del futuro. Tutto quel che gli accade di importante e che conferisce alla sua vita il suo "contenuto meraviglioso - l'incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza - , tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo", scrive. L'intuizione del meraviglioso si radica in un presente che non ammette altro se non l'ustione, la bruciatura, l'istante. Ecco allora la sfida: proclamare il Vangelo è possibile solamente tenendo viva la convinzione che l'esperienza della grazia e della meraviglia sia ancora possibile come storia, come futuro. Questo è il punto: si è persa la fede nella grazia.

Il tempo della Chiesa è il futuro, l'avvenire, non la semplice gestione organizzativa del presente.

Nel momento in cui passato e presente dominano senza l'orizzonte del futuro, il messaggio evangelico si mercifica. Anche la tradizione diventa merce da vendere. Un commercio alto, sia beninteso: di valori e idee, ma pur sempre commercio. Papa Francesco, in un suo Messaggio del 2020, a proposito dei discepoli che seguivano Cristo, scrive: "Lui sta per dare inizio al compimento del suo Regno, e loro si perdono ancora dietro alle proprie congetture". Oggi come allora: siamo persi tra le congetture, come se fossimo noi a dover "organizzare la conversione del mondo al cristianesimo", scriveva il Papa, o la stessa vita dello spirito. Se la Chiesa non è una mera organizzazione, allora il sacerdos non può ridursi a un burocrate dello spirito o "funzionario della missione" che commercia salvezza predicando valori. Ma anche per questo Francesco è allergico all'idea del regno di Dio che si solidifica sulla Terra: dal "In hoc signo vinces" di Costantino, al "In God we trust" che leggiamo sul dollaro, al "Gott mit uns" del nazismo. La teologia cristiana della storia non ha nulla a che fare con chi promette il paradiso in terra, finendo per fare della terra un inferno.

La grande sfida della Chiesa oggi è quella di essere capace di pensare un dopo, un domani, qualcosa che deve ancora accadere. Per generare futuro - e dunque sperare - è necessario immaginare, proiettarci in un futuro possibile, riflettere su ciò che non vediamo con i nostri occhi né tocchiamo con le nostre mani. Abbiamo bisogno di una nuova immaginazione.

Ricordiamo che la classicità viveva la propria storia nel senso della ciclicità e dell'eterno ritorno. Il cerchio, infatti, è simbolo della compiutezza e della perfezione. I classici, sospettosi sulle utopie e sul futuro, avevano ancorato la loro identità alle origini e al passato. Essi avevano idealizzato il passato, avevano il mito delle origini. E avevano assolutizzato il presente: carpe diem! Vivi il presente. Al classico manca il futuro e, dunque, manca la speranza, che Seneca intende come "dulce malum", un incantesimo, perché proietta la vita in un avvenire che non è certo. La classicità aveva bisogno di sicurezza, di stabilità. La speranza nasce con il cristianesimo

Dunque, non è affatto ovvio parlare di futuro e di speranza. Per parlare di futuro della Chiesa, allora, è necessaria un'apertura all'incertezza. Certo, però, c'è chi pensa che il futuro sia una deduzione: date alcune condizioni, si può dedurre qualcosa di quel che accadrà. E così si moltiplicano le analisi sociologiche e le previsioni. Ma questo non ha nulla a che vedere con ciò che i cristiani chiamano speranza. Il futuro affidato alla statistica non apre alla speranza, ma al calcolo delle probabilità, al pensiero calcolante, capace di fare pronostici più o meno attendibili. Il futuro - anche quello della Chiesa - sarebbe così la logica prosecuzione del presente sulla base del passato. Non c'è salto, non c'è scarto, non c'è abisso, non c'è desiderio, non c'è inquietudine, non c'è rivoluzione.

La speranza della Chiesa invece è immersione in una storia che ci arriva, dentro la quale siamo chiamati, senza essere prodotto dei nostri calcoli, e tanto meno di "piani pastorali" realizzati da "operatori". Se si ha questa attitudine alla fede, allora le porte della speranza possono aprirsi. È possibile generare futuro, "abitare nella possibilità", come scrive Emily Dickinson in un suo splendido verso: "I dwell in possibility". Non si tratta di credere nella probabilità, ma nella possibilità, cioè nella possibilità di fare esperienza non legata ai limiti di ciò che è statisticamente probabile. È il territorio della grazia, che implica l'incertezza, l'indeterminazione. Non l'ordine, la codificazione, il solido, ma l'informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e definito.

C'è un abisso da superare, dunque, per vivere la speranza. C'è bisogno di una fede. Il suo campo non è quello del calcolo o dell'algoritmo, ma quello della "gratia gratis data", come dice la teologia classica. L'abisso è quello della fiducia nella possibilità di una storia futura che non conosciamo e che non è deducibile dal presente e dal passato come fosse una logica conclusione. In questo senso il futuro non è la combinatoria delle nostre attese e delle nostre aspettative. Sarebbe pure un abbaglio far risiedere la speranza nella pura proiezione combinatoria dei nostri desideri. La speranza è il non ancora conosciuto, che è capace di sorprenderci. Il motore della speranza è, in definitiva, il timore di non ricevere ciò che si attende, dunque il dubbio, l'incertezza, la precarietà inquieta. Nell'intervista che gli feci nel 2013 per La Civiltà Cattolica Francesco parlò della necessità di essere persone "dal pensiero incompleto". Una volta il Pontefice pose la domanda: "Mi lascio "scardinare dentro" dal paradosso?". L'alternativa sarebbe quella di rimanere "nel perimetro delle mie idee".

In questo senso, Bergoglio non rifiuta l'"utopia" come astrazione. Al contrario, riconosce la sua carica positiva e la sua valenza politica. L'utopia prende forza dall'insoddisfazione e dal malessere generati dalla realtà attuale, ma anche dalla convinzione che è possibile un mondo diverso. Qui c'è un compito radicale: ricostruire l'immaginario della fede e della convivenza umana in una società che cambia, dove i riferimenti simbolici e culturali non sono più quelli di una volta.

Se non c'è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c'è il dubbio metodico - non quello scettico - , la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c'è esperienza di Chiesa. Se lo Spirito Santo è in azione - ha affermato una volta Francesco - , allora "dà un calcio al tavolo". L'immagine è felice, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù "rovesciò i tavoli" dei mercanti del tempio. I mercanti si vantano di essere "al servizio" del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all'uso e geolocalizzano la presenza di Dio, che è "qui" e non "lì". O futuro o merce. O possibilità o commercio. Per questo il tempo futuro della Chiesa è la suspense.

Antonio Spadaro
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