Ludwig Monti "«Signore, tu mi conosci!». Variazioni sul Salmo 139"
Servizio della Parola 543/2022
Dicembre 2022
1. Signore, tu mi scruti e mi conosci
Nell’incipit (v. 1) l’orante si confessa «scrutato» dal Signore nelle proprie profondità. Sinonimo di «conoscere», verbo
che nel suo significato di «penetrante conoscenza» scandisce
l’intero salmo. Questi verbi sono ben attestati in Geremia, insieme a Giobbe il libro biblico con più punti di contatto con
il Salmo 139:
Chi può conoscere il cuore umano?
Io, il Signore, scruto la mente e sondo i cuori,
per dare a ciascuno secondo la sua condotta,
secondo il frutto delle sue azioni (Ger 17,9-10).
Come valutare questa conoscenza penetrante da parte del
Signore? Essa è invocata dal credente: «Scruta il mio cuore,
visitalo nella notte, raffinami al fuoco: non troverai nulla»
(Sal 17,3). Ma sappiamo come talvolta questa presenza possa
suscitare fastidio: è l’immagine del Dio “spione”, “poliziotto”, in agguato per castigarci… La sua conoscenza è insopportabile? La sua presenza un tormento (cf. Gb 7,17-19)?
Ci sono momenti della vita in cui prevale tale impressione.
Allora siamo tentati di scappare il più lontano possibile da
lui, come il figlio minore della parabola di Gesù (cf. Lc 15,12-
13). Occorre assumere questi momenti di ribellione, all’interno però di una diversa immagine di Dio. Se Dio ci conosce
così, è perché ci ama: «Si dimentica forse una donna del suo
bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Come non rallegrarsi di essere conosciuti e amati da lui?
Tale confessione viene dopo la prima delle polarità del
salmo: «Tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo» (v.
2). Così si entra nel dialogo con colui che discerne il nostro
camminare e il nostro riposare (v. 3a). Del Signore si può dire che tutte le nostre vie gli sono familiari (v. 3b), perché è
abituato a esse, al punto da sperimentarle in Cristo. Se prevede le nostre vie, non è per schiacciarci, ma perché si comporta come chi è più esperto verso chi deve ancora scontrarsi
con le asperità del reale: vede venire da lontano ciò che toccherà all’altro, ma lo lascia libero di percorrere queste vie…
«La parola non è ancora sulla mia lingua, ed ecco, Signore,
già la conosci tutta» (v. 4). Splendida la parafrasi del Targum:
«Quando non c’è parola sulla mia lingua, ecco, Signore, tu
hai conosciuto tutto il mio corpo». Il nostro corpo parla ben
più delle sole nostre labbra; da esso escono parole rivolte al
Signore e agli altri…
«Di dietro e davanti mi stringi e poni su di me la tua mano» (v. 5). Il Signore ci visita con la sua mano per proteggerci
(cf. Es 32,31-33). A volte però la sua mano pesa: «Allontana
da me la tua mano!» (Gb 13,21). Forse non siamo pronti ad
accogliere il suo benedicente posare la mano sul nostro capo: basta riconoscerlo, ritraendoci fino a quando non giungeranno tempi migliori. Tempi qui brevi; a distanza di pochi
versetti, infatti, ritorna la mano del Signore (v. 10), sicché è possibile confessare: «Sono come un uomo che fugge dalla
tua mano verso la tua mano» (Ibn Ezra). Non per paura, ma
come quando ci allontaniamo dalla persona amata sdegnati,
per poi anelare il ritorno a lei.
2. Dove andrò lontano dal tuo Spirito?
La seconda parte si apre con la domanda chiave: «Dove
andrò lontano dal tuo Spirito? Dove lontano dal tuo volto
fuggirò?» (v. 7). Altra modalità di esprimere la supplica del
Salmo 51: «Non rigettarmi lontano dal tuo volto e il tuo Spirito santo non riprendere da me» (v. 13). Spirito che è soffio,
e di cui il salmista arriva a dire: «Il mio respiro s’incolla a te,
la tua destra mi sostiene» (Sal 63,9). Ancora: «Se nascondi il
tuo volto, i viventi si spaventano, se riprendi il loro soffio, periscono e ritornano alla loro polvere. Se mandi il tuo soffio,
sono creati e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104,29-30). Il
suo soffio è il nostro: dove andare lontano da esso? Solo negli inferi, il regno della morte? Ma anche lì troveremo il Signore.
La sua presenza amante ci accompagna ovunque (vv.
8-10). Davvero, «Dio non è lontano da ciascuno di noi. In lui
viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,27-28). Il salmista
percorre tutti i punti cardinali: cieli e inferi, aurora a Oriente
e tramonto oltre il Mediterraneo. Quanto agli inferi, l’orante
manifesta un grande slancio di fede, coerente con la speranza espressa in alcuni salmi (cf. Sal 16,10; 49,16), in contrasto
con visioni oscure presenti in altri (cf. Sal 88,6; 115,17). Qui
però c’è di più: il Signore resta con noi anche negli inferi, ce
ne libera attraversandoli, come la chiesa ha compreso confessando la discesa agli inferi del Risorto. I vv. 11-12 esplorano con pennellate evocative un’altra suggestiva polarità:
tenebra e luce. Le parole sono inadeguate per commentare tale visione. Ma per chi è spiritualmente maturo persino gli inferi sono abitati da Dio: egli va al di là anche di certe distinzioni della vita spirituale, come quella tra tenebre e luce.
3. Dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio
Nella terza parte il mistero di ogni essere umano è cantato con parole indimenticabili. Il Signore che conosce tutto,
che (ci) è sempre presente, è il Signore di ogni singolo essere
umano. Il salmo lo esprime con le polarità estreme dell’esistenza umana: la nascita, compreso il mistero che la precede
(vv. 13-16), e l’al di là della morte (v. 18b), raccordate da un
sospiro meravigliato (vv. 17-18a). Sulla prima si diffonde, sulla seconda fa balenare una scintilla, ma di entrambe non sappiamo nulla di preciso. Possiamo solo confessare: «Quanto
preziosi per me i tuoi pensieri, o Dio, quanto numerosa la loro somma. Se li conto, sono più della sabbia», con i suoi incalcolabili granelli. E ammettere: «O profondità della ricchezza,
della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33).
Il Signore ha plasmato il nostro profondo, ci ha tessuti nel
grembo materno, dando avvio al miracolo del concepimento
(v. 13). Se in un altro salmo l’orante afferma: «Sei tu che mi
hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre; in
te fui gettato fuori dall’utero, dal grembo di mia madre sei tu
il mio Dio» (Sal 22,10-11), qui ci si spinge più indietro. Ognuno dovrebbe comprendersi coinvolto in tale mistero: «Prima
di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto» (Ger 1,5).
Come rispondere alla chiamata alla vita fin dall’eternità?
Trasformando lo stupore in rendimento di grazie. Questa
la via per giungere a cantare l’impossibile: «Meravigliose le
tue opere, il mio essere le conosce/riconosce pienamente» (v.
14cd). Nessuno può conoscersi pienamente, tanto meno può
riconoscere pienamente le opere di Dio. Dunque? Forse la
seconda parte del v. 14 è un paradosso per spingerci a riconoscere che proprio nel rendimento di grazie per ciò che si è si
conosce il Signore. Riconoscendo fino in fondo le meraviglie
del Signore in noi: «O Dio, che io conosca me, che io conosca
te» (Agostino, Soliloqui I,1,1).
Il terreno è pronto perché il salmista ci conduca alle soglie
dell’ineffabile (vv. 15-16): il nostro in-principio nella mente
del Signore, in un intreccio tra origini biologiche (tessitura
nel grembo materno) e mitiche (profondità della terra). Alcuni termini corporei rendono più realistico tale quadro: le
ossa, ma soprattutto “il mio embrione”, tessuto arrotolato
che con il tempo dovrà dispiegarsi. Nessun predeterminismo,
ma l’invito a confessare con confidenza: «Tu sei il mio Dio.
Nella tua mano i miei tempi» (Sal 31,15-16). La prima chiamata di Dio per ogni essere umano è alla vita!
La terra è nostra madre, ma nello stesso tempo a essa ciascuno farà ritorno, con la morte (cf. Gen 3,19). In tale ottica
acquista rilievo l’affermazione del v. 18b: «Mi risveglio e sono
ancora con te». Può essere un modo poetico per alludere allo
sforzo vano di contare con precisione i pensieri del Signore
(v. 18a): l’uomo si addormenta, ma quando si ridesta deve ricominciare. Ma forse qui si va all’estremo opposto dell’inizio:
l’oltre la fine, il risveglio della risurrezione. In tal modo l’interpretazione dei LXX e poi cristiana sarebbe radicata già
nel testo ebraico… Ma soprattutto verrebbero portate a compimento le allusioni disseminate nei versetti precedenti: la discesa agli inferi (v. 8), il volare alle estremità della terra, dove
regna la «notte» (v. 9), il riferimento al grembo della terra
appena considerato. Anche oltre la morte, dunque, il salmista
confessa al Signore non solo: «Tu sei con me» (Sal 23,4), ma
anche, con audacia: «Io sono con te» (cf. Sal 73,23).
4. Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore
Tralasciando il grido imprecatorio (vv. 19-22), il salmista
chiude come aveva iniziato, trasformando però l’indicativo in invocazione: «Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, sondami e conosci i miei affanni» (v. 23). E quello che all’inizio
era «il mio pensiero» (v. 2), alla fine sono «i miei affanni».
Ulteriore realismo ma anche desiderio di gettare nel Signore pure tutte le preoccupazioni, compagne fastidiose del mestiere di vivere.
Infine, con molta franchezza l’orante invoca sulla propria
vita il giudizio di Dio (v. 24): la conoscenza che il Signore ha
di lui si manifesti in correzione delle sue vie idolatriche, che
arrecano solo dolore a sé e agli altri, e in un guidarlo «sulla
via dell’eternità». È «la via della vita» (Ger 21,8), «il sentiero della vita, pienezza di gioia davanti al volto del Signore,
delizie alla sua destra in eterno» (Sal 16,11). Apertosi con la
confessione della conoscenza penetrante da parte del Signore, il salmo si chiude sulla nota del cammino. Il modo meno
presuntuoso per conoscere la conoscenza che il Signore ha di
noi è rimanere sulla sua via, sempre in ricerca; senza ripiegarsi troppo in sguardi su di sé, ma accettando che sia lui a conoscerci. Infatti, «anche se il nostro cuore ci rimprovera, Dio è
più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).