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Lilia Sebastiani "Silenzio su Dio?"

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Lilia Sebastiani 

E' difficile entrare anche con molta cautela e indispensabile umiltà nel dibattito attuale sul post-teismo, e anche comprenderlo nella giusta luce. Corrente teologica o anti-teologica tra le altre, o uno dei segnali della crisi del nostro tempo? Crisi della fede, del suo venir meno, o solo del modo di declinarla, anzi di metterla in parole?
Al centro della crisi e del dibattito si trova la parola-idea «Dio». Quella dell’idea «Dio», scrive il teologo argentino José María Vigil, è «una lunga storia, ma non eterna».
Dagli studi antropologici emerge l’idea che il primate antropomorfo cominciò a essere ‘umano’ quando giunse ad aver bisogno di un senso per vivere, arrivando con ciò a percepire una dimensione spirituale, sacra, misteriosa… A lungo si è creduto che quella dimensione religiosa indicasse una relazione necessaria e indiscutibile con «Dio». Ma forse quel Dio non era Dio nel senso che si dà oggi al suo nome. «Adesso abbiamo dati che indicano che durante tutto il Paleolitico (70.000-10.000 a.C.) i nostri antenati adoravano la Grande Dea Madre, che non era un «Dio» femminile, ma la «Divinità», confusamente e profusamente identificata con la Natura. L’idea concreta di «dio» come poi è giunta a noi è di molto posteriore, solo dell’epoca della rivoluzione agricola (10.000 anni fa). Il dio personale, maschile, guerriero, che abita nel cielo e si allea con la tribù per difenderla e lottare contro i suoi nemici…» (corsivi nostri). Siamo in pieno antropomorfismo degli dei. E in qualche modo avverrà lo stesso anche con il ben più evoluto Dio del giudeocristianesimo.
«Dio ama, crea, decide, si offende, reagisce, interviene, si pente, perdona, redime, salva, ha un progetto, si allea (…) come noi, che del resto siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Quel Dio onnipotente, Creatore, Causa prima, Signore, Giudice… rimase infine al centro della cosmovisione religiosa occidentale (…). Di Dio non si poteva neanche dubitare: già il dubbio era un peccato, contro la fede. Credere o non credere in Dio: questa era la questione decisiva».
Anche il Concilio Vaticano II ha riconosciuto questo: «noi cristiani abbiamo velato più che rivelato il volto di Dio» (GS 19), abbiamo spesso difeso, predicato e sostenuto immagini di Dio inadeguate, se non controproducenti per parlare agli uomini e alle donne del nostro tempo. Anche muovendosi su un piano molto più generale e apparentemente più indolore, vi è ormai un largo consenso tra i cristiani sulla centralità del problema del linguaggio ai fini dell’annuncio di fede; ma sarebbe ingenuo pensare che il linguaggio sia solo un problema di parole, risolvibile a comando con uno sforzo di buona volontà. Così nessuno può credere che l’istanza del post-teismo possa influire – con azione distruttiva o salvifica, secondo i punti di vista – unicamente sul modo di parlare. Il linguaggio influisce profondamente anche sul modo di pensare: basti considerare quanto si è verificato con il linguaggio sessista, del cui potenziale di manipolazione siamo diventati consapevoli, e certo non tutti, solo da pochi decenni. Finora il post-teismo è rimasto un tema di nicchia: i segnali della crisi del discorso su Dio si confondono con la generale crisi del credere, e le chiese ufficiali non assumono una posizione precisa al riguardo, meno di tutte la chiesa cattolica romana; forse questo partecipa del generale silenzio su Dio, forse sarà anche una scelta buona e saggia, purché nel frattempo la riflessione proceda, il più possibile seria e condivisa.
un libro che molti dovrebbero leggere
Il problema riguarda tutte le chiese cristiane senza eccezione, anche se possiamo supporre che a riguardo del post-teismo non tutte assumeranno lo stesso atteggiamento. Di recente una spinta molto significativa al dibattito è venuta dal teologo e pastore valdese Paolo Ricca. Considerato il maggiore teologo protestante italiano vivente, non è certo un esponente del post-teismo (anzi, pur con grande rispetto, è piuttosto critico al riguardo), ma ne conosce bene il contesto e la grande varietà delle argomentazioni, nonché le cause: prossime e remote. Nel suo libro intitolato Dio. Apologia (sul perché di questo titolo si dovrà tornare) riflette profondamente sulla situazione paradossale delle chiese cristiane storiche, che oggi «parlano molto di migranti da accogliere, di diritti umani, di habitat naturale da proteggere, di fraternità umana da praticare – tutte cose sacrosante – ma ormai pochissimo di Dio, quasi come non sapessero più che cosa dire». Parlare di Dio viene percepito dai credenti come «qualcosa di bizzarro, di sconveniente, di troppo intimo». Imputa il silenzio delle Chiese, di tutte le Chiese, non soltanto a imbarazzo, insicurezza psicologica, eccesso di pudore, paura di non essere ascoltate, ma a qualcosa di più sostanziale. Se le Chiese parlano più volentieri di temi sociali che permettono un largo consenso, migranti, diritti, ambiente, libertà religiosa, è piuttosto per «una sostanziale carenza di fede», per «un livello insufficiente di certezze interiori». Così, ai cristiani che non sanno che cosa dire di Dio, il teologo valdese dischiude tesori di risorse, materiali conoscitivi e materiali per pensare. Prende le mosse dalle critiche della modernità verso un Dio ‘inventato’ o ‘assente’ (parte I), continua con il Dio della Bibbia (parte II) e il Dio della fede (parte III), concludendo con l’idea di Dio riscontrabile in indù, buddhisti, ebrei e musulmani (parte IV). La questione della fede rimane sempre al centro. Precisa che di Dio si può parlare anche senza credere in lui; tuttavia «a un certo punto, il discorso su Dio da generale deve diventare personale», diventare un discorso sulla propria maniera di credere, anzi sulla propria fede. E il libro assume impreviste risonanze autobiografiche. Dopo aver rilevato come spesso chi crede non sia in grado di dire perché, l’autore confessa di essere egli stesso uno di questi. Ha raggiunto l’età di 86 anni: stagione di sintesi, che gli consente e gli chiede di dire che cosa crede di Dio: «…cioè quali sono le principali caratteristiche di Dio che nutrono la sua fede, e quindi che cosa sente lui, in coscienza, di dire di Dio». La nostra epoca ha assolutamente bisogno di cristiani adulti, di testimoni. Per Ricca, ma anche per i cattolici, Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo luterano e martire nella resistenza al Nazismo, è «un modello di cristianesimo adulto», tanto più importante oggi che sembra non esserci più la sicurezza del proprio credere, e «la fede è diventata insicura. Più che di silenzio di Dio, si potrebbe parlare di silenzio su Dio». Il fatto è che ci sono molti tipi di silenzio. C’è un silenzio di rinuncia, depresso e scoraggiato, ma anche un silenzio di attesa e preparazione… C’è anche un silenzio di pienezza. Ma chi ha il senso forte della presenza e dell’agire di Dio avverte l’esigenza di parlarne.
materiali per pensare
In un’intervista rivoltagli in occasione dell’uscita del libro, alla domanda «Che cos’è per lei la resurrezione?», risponde «È il fondamento della vita. Un evento che viene prima della vita». Aggiungendo poi: «non basta tutta la vita per apprendere che è l’invisibile a fondare il visibile e non viceversa». Che cosa dunque dovremmo apprendere? chiede l’intervistatore. La risposta giunge con la libertà luminosa dell’età avanzata: «A vedere ciò che non si vede. Non è un gioco di prestigio o di parole quello che le dico. Ma un modo di stare al mondo. Si parla tanto di verità. Ma qualcuno l’ha mai vista? Io no. Come non ho mai visto la Libertà, l’Amore. La Resurrezione, appunto. Ma ne vedo i segni e i frutti».
La Bibbia non è filosofico-speculativa (se non, a tratti, in certi testi paolini), anzi sembra importante che Israele in epoca biblica non abbia mai conosciuto una filosofia propria; più tardi si verificherà un incontro arricchente e rischioso tra il cristianesimo agli inizi e alcune correnti della filosofia greca. «A proposito dell’esistenza di Dio, è interessante osservare che la Bibbia non spende una parola per dimostrarla. Quasi come se la cosa non la interessasse. In effetti non è l’esistenza di Dio che interessa alla Bibbia, ma la sua opera, la sua storia con e per Israele, con e per l’umanità. La pura esistenza di Dio non è un tema della Bibbia. (…) Un Dio la cui essenza sarebbe l’esistenza, nella Bibbia non c’è, perché non c’è nella realtà. Dio, potremmo dire, non si accontenta di esserci, non è per questo che c’è, non esiste per esistere, ma per amare, per parlare, per creare e ricreare, per chiamare e stabilire alleanze». Per trovare una parola profonda e autentica su Dio in questa epoca post-teista, uomini e donne di oggi devono avventurarsi tra i due rischi opposti e legati: 1) che sia la nostra fede a creare un Dio inesistente, o 2) che Dio esista e ci manchi la fede. Un libro che si intitola Dio. Apologia è chiaramente ‘scritto per difendere’; ma chi o che cosa vuole difendere l’autore? Non certo Dio (sarebbe il massimo dell’antropomorfismo!), che non ha bisogno di essere difeso e anzi, come Spirito Paràclito, agisce da difensore degli esseri umani; la difesa riguarda la fede cristiana espressa e trasmessa, presente nella storia e anche segnata dalla storia. Nel libro, che non è breve (411 pagine), una parte notevole, la prima, verte sulle critiche mosse a Dio e alla religione cristiana, soprattutto oggi – cioè, dal secolo XIX in poi. Secondo l’autore, sono critiche «di cui tenere conto, che devono poter essere espresse e che sono il prezzo della libertà», ma che in moltissimi casi derivano dalla non conoscenza di Dio. L’autore si sofferma poi su ciò che la Bibbia dice su Dio (cap. 11. Un Dio non cercato; 12. Un Dio non dimostrabile; 13. Un Dio contraddetto; 14. Un Dio rivelato), convinto che molti abbandonino Dio perché non lo conoscono; per i cristiani, Dio si conosce attraverso la Scrittura (ma quanti cristiani possono dire di conoscere la Scrittura?). La terza parte verte sul Dio della fede: 15. come realtà, 16. come prossimità, 17. come umanità, 18. come relazione. La quarta sull’idea di Dio che si incontra nelle principali religioni.
incontrare Dio
A questi materiali per pensare e per dire Dio i cattolici aggiungerebbero anche il riferimento alla tradizione della Chiesa. Ma è necessario riconoscere e ricordare – apertis verbis e non solo implicitamente – come la tradizione non è un monolite, non può e non vuole paralizzare l’esperienza della Chiesa che conosce una continua evoluzione e dunque vive anch’essa nel cambiamento. Per un credente cristiano la principale difficoltà nell’aprirsi alle ragioni del postteismo, anche se riuscisse ad appagarsi della preghiera diffusa e inafferrabile coincidente in ultima analisi con la vita stessa, è sentire che richiederebbe inevitabilmente – non forse come condizione ma certo come conseguenza – di mettere da parte la Scrittura e la liturgia e tutto ciò che consente una storicizzazione, una condivisione della fede. Ci sembra che il silenzio, sia pure abitato dallo Spirito e vivificato da una ricca interiorità, rischierebbe di diventare un’attitudine stabile per quanto riguarda la dimensione della fede, rendendola più evanescente e meno comunicabile di quanto lo sia oggi. Di nuovo il rischio del «cristianesimo muto» e forse di un silenzio vuoto. Crediamo che la Scrittura aiuta a conoscere Dio, ma anche qui occorre attenzione: anche la Scrittura, soprattutto certe parti di essa, accostate nella loro materialità letterale e letteraria che, nonostante ogni generoso tentativo di attualizzazione, è tessuta di cultura e mentalità e forme espressive e problemi tanto lontani dai nostri, possono generare freddezza e perplessità in chi legge – questa è anzi l’ipotesi migliore. Anche se molti credenti guardano con sufficienza e sospetto un approccio ‘colto’ all’esperienza di fede e tendono senz’altro a bollarlo come intellettualismo (dimenticando che tutti sentono il bisogno di crescere anche sotto l’aspetto conoscitivo negli ambiti che li interessano e appassionano, fossero pure ambiti assolutamente terrestri), la Bibbia non parla agli uomini e alle donne di oggi finché rimane un testo in lingua straniera, fosse pure scritto in italiano. Il discorso su Dio è fondamentale, se ci sforziamo incessantemente di rinunciare a ogni antropomorfismo. Ciò non significa rifiutare le ‘figure’, le immagini (in quanto esseri umani ne abbiamo bisogno, la fede è anche esperienza estetica e anche emotiva), ma rapportarci con le immagini come immagini, senza sacralizzarle indebitamente e senza metterle al posto della realtà ineffabile che dovrebbero servire: questo riproporrebbe l’antico peccato biblico dell’idolatria, figura di ogni altro peccato. Dinanzi alla sfida del post-teismo, senza doverne necessariamente accogliere tutte le istanze, sentiamo però di poter sottoscrivere quanto si leggeva su Adista già tre anni fa, cioè quando nessuno – ricordiamolo – poteva ancora immaginare né la pandemia di Covid né la guerra in Ucraina: «… Di fronte allo tsunami che sta travolgendo l’umanità – una sorta di mutazione genetica spirituale, una metamorfosi culturale dagli esiti imprevedibili – l’unico cammino percorribile è quello di trovare con urgenza la chiave per costruire una nuova visione che ci permetta di andare incontro nel modo migliore – più compassionevole, più inclusivo, più umano – al futuro che sta arrivando» (1). Nota (1) Cfr. Adista Documenti n. 41 del 30-11-2019; presentazione del libro AA.VV., Una spiritualità oltre il mito. Dal frutto proibito alla rivoluzione della conoscenza, Gabrielli ed., 2019.

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