Alberto Maggi "Quanto più si è umani tanto più si manifesta il divino che è in noi"
conversazione con Alberto Maggi
Incontrare Alberto Maggi è come respirare una boccata d’aria buona che
esce dalla sua lettura fresca e profonda della pagina biblica. Sentire la
vicinanza di Gesù anche in tempi e
vicende difficili e dolorose. È come
trovare un fondamento solido alla speranza di cui ognuno ha bisogno.
Per noi di questa rivista e dell’ambiente
Cittadella, è sempre anche reincontrare
un amico con cui si condividono passioni,
attese ed impegni.
Caro padre Alberto, non possiamo nascondere
però la sorpresa per questo avvincente libro su Bernadette.
Ma come! Maggi che ci propina un libro sulla religiosità più
devozionale che ci sia? Oppure non è questo il taglio e il senso del testo? E qual è?
Molti anni fa (1995) pubblicai proprio con Cittadella
editrice «Padre dei poveri»,
traduzione e commento delle beatitudini
di Matteo, e ho avuto sempre il desiderio di conoscere persone o comunità che
avessero vissuto appieno le beatitudini. In
Bernadette Soubirous ho trovato quello
che cercavo. A me non interessano le apparizioni. La Chiesa stessa le considera un
optional: chi ci crede non per questo aumenta la propria fede e chi le nega non la
diminuisce, ma mi ha affascinato ciò che
in quella grotta di Lourdes è accaduto in
una bambina figlia della famiglia più misera della città, con un padre indolente e
una madre sempre ubriaca. Bernadette ha
quattordici anni, ma non è cresciuta e ne
dimostra appena dieci. È
malaticcia, analfabeta,
ignorante, tarda di comprendonio. Che cosa è avvenuto di così sconvolgente da trasformarla in una
donna talmente forte da
renderla capace di resistere a migliaia di interrogatori e di tenere testa a preti che la ritenevano posseduta dal demonio, a vescovi e cardinali
che l’accusavano di mentire, a medici che volevano internarla come pazza e persino
al procuratore imperiale, rappresentante
di Napoleone III? Da dove le è venuta questa forza? E quelle sue risposte che sbalordivano e
spiazzavano e mettevano a
tacere i suoi dotti interlocutori? Bernadette è la donna delle beatitudini e per
questo donna dello Spirito
che rende libere le persone. Lei è la pura di cuore
che è beata perché ha visto
Dio (Mt 5,8). Per molti versi la vita di Bernadette è simile a quella dell’altra grande adolescente francese, Jeanne d’Arc. Solo che la Pulzella d’Orléans fu bruciata viva, Bernadette, invece, a fuoco lento, acceso e alimentato dal pio e devoto sadismo delle suore
del convento di Nevers, dove era entrata
illudendosi di trovare pace e tranquillità.
Sei stato un pezzo da novanta della nostra
rivista e della nostra casa editrice. Dacci un
consiglio: come è possibile oggi scrivere sulla fede e su Dio in un giornale come il nostro, laico di ispirazione cristiana?
Sarebbe presuntuoso da parte mia pensare di poter dare un consiglio a chi, come
voi, con tenacia e coraggio
da molti anni e con tante
difficoltà porta avanti questo prezioso impegno. Nello scrivere sulla fede e su
Dio evito qualunque termine clericale, tecnico o di
difficile comprensione. Desidero che la buona notizia
di Gesù e i suoi vivificanti
effetti arrivino a ogni persona. Non devo fare sfoggio
della mia cultura, ma trasmettere la forza del vangelo. E se nel farlo adopero termini che
l’altro non comprende… è un buco nero
nella comunicazione, allora meglio evitarli e usare altre parole per esprimere lo
stesso concetto. Si possono trasmettere le
realtà eccelse con un linguaggio semplice, nella convinzione che quanto più si è
umani tanto più si manifesta il divino che
è in noi.
Più in generale, lo stesso concetto di Dio si è
caricato o ha sempre avuto una certa dose di
ambiguità. Ognuno vi ha proiettato sopra
qualcosa dei suoi desideri o delle sue paure
oppure ne ha fatto un’immagine di sé magari per trovarvi una identità distintiva ed escludente. Di cosa liberarsi per fare teo-logia, per parlare di Dio in modo autentico?
La sapienza biblica aveva già ammonito
gli uomini a «non pronunciare invano il nome del Signore» (Es 20,7), intuendo
il pericolo di piegare e utilizzare la divinità per i propri interessi. Non c’è stato
comandamento più disatteso sia dalle istituzioni religiose sia dai detentori del
potere, basti pensare a chi
ogni tanto riesuma la triade Dio-Patria-Famiglia. Il
messaggio dei vangeli è
molto chiaro; «Dio nessuno lo ha mai visto» scrive Giovani a conclusione del Prologo al suo vangelo (Gv 1,18). Pertanto ogni
immagine che è stata presentata di Dio è
limitata se non falsa. L’unico che ha pienamente rivelato Dio è il Figlio Gesù: «Chi
ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). In
Gesù Dio si è fatto uomo, anzi carne (Gv
1,14). Tutta l’attenzione è dunque rivolta
a Gesù, al suo insegnamento e alle sue
azioni che sono tutte volte alla pienezza
di vita dell’uomo. Per Gesù non c’è altro
valore assoluto se non quello che coincide
con il bene dell’umanità. Se a questo bene
si sovrappone una verità,
una dottrina, un dogma, prima o poi, inevitabilmente,
in nome del dogma, della
dottrina e della verità si causerà sofferenza all’uomo.
Gesù, quando si è trovato a
dover scegliere tra l’osservanza della legge divina e il
bene concreto della persona, non ha esitato scegliendo quest’ultimo. Facendo il
bene degli uomini si è certi
di fare anche quello di Dio.
Troppo spesso per il bene di Dio, per il
suo nome, si sono fatte soffrire le persone.
Che spazio nella riflessione di un biblista e
di un teologo come te la dimensione escatologica. C’è spazio per l’attesa del Regno?
Come dobbiamo pensarla? O in Cristo tutto
è avvenuto e non c’è nulla da attendere?
Gesù è venuto a proporre il regno di Dio,
una società alternativa che richiede la conversione, il cambiamento di mentalità perché diventi realtà. In un mondo dominato
dai tre verbi maledetti avere-salire-comandare, che suscitano negli uomini la rivalità, l’odio e l’ingiustizia, Gesù propone il
regno, società dove si sceglie volontariamente di condividere anziché accumulare, di scendere, di mettersi a fianco degli
ultimi anziché di avanzare la pretesa di salire al di sopra di essi, e la libertà di servire al posto della smania di comandare.
Questo regno, con l’accettazione delle beatitudini, c’è già (Mt 5,3), non deve ancora
venire, c’è solo da impegnarsi perché si
estenda sempre più e si allarghi a ogni
uomo (Mt 6,10), rendendolo capace di accogliere il
progetto di Dio su di lui.
Nel tuo pensiero il termine religione sembra assumere un
significato negativo. In che
senso si possono distinguere
fede e religione? E tutto ciò ha
a che fare con la svolta postteista su cui stanno lavorando alcuni teologi cristiani?
Per religione si intende quell’insieme di atti e dottrine
che consentono all’uomo di
entrare in comunione con la
divinità, cioè quel che si fa per Dio. Con
Gesù finisce la religione e subentra la fede,
che consiste non in quello che l’uomo fa
per Dio, ma nell’accoglienza di quel che Dio
fa per l’uomo. E la fede, occorre ricordarlo, non è un dono di Dio, ma la risposta
degli uomini al dono d’amore che il Padre
fa a ogni sua creatura. Nella religione il credente è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi; nella fede è colui che
assomiglia al Padre accogliendo e praticando un amore simile al suo. Mentre la religione mantiene sempre una distanza tra la
divinità e gli uomini, la fede
l’accorcia e la elimina. Nella
religione l’uomo vive per
Dio, nella fede vive di Dio, e
grande è la differenza.
Grazie a Dio abbiamo un buon
Papa. Tuttavia non sembra
molto aiutato nel suo tentativo di rinnovare la Chiesa in
senso evangelico. La Chiesa
resta per gran parte clericale e
maschilista. Che fare? E
come immagini la Chiesa del
futuro?
Ogni cambiamento, sia nella società sia
nella Chiesa, nasce sempre dal basso mai
dall’alto. Quanti sono saldamente installati nelle stanze del potere non vedono alcuna necessità di cambiare; a loro sta bene
la situazione così com’è. Quelli che desiderano il cambiamento sono quelli che stanno male, che non accettano la situazione esistente e vogliono contribuire al suo rovesciamento. Questo è il messaggio che
già all’inizio dei vangeli viene annunciato
e che Luca ha posto in bocca a Maria, la
quale benedice il Signore che «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore,
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53). Papa Francesco, con testarda insistenza, prova a convertire
la Chiesa al vangelo, ma
incontra la tenace resistenza di una gerarchia che da
sempre ha convertito il vangelo alla Chiesa, manipolandolo e strumentalizzandolo, per sottometterlo alla
dottrina del magistero.
Quando questo accade, anche per le affermazioni dottrinali più fragili e bislacche si troverà sempre qualche teologo di corte pronto
a scovare il versetto biblico che le giustifichi e le sostenga.
Anche la liturgia mi pare molto stanca, a
volte vuota, a tratti grondante di parole usurate che non arrivano e di gesti stereotipati
che non scaldano i cuori. A tutto ciò spesso
si pone rimedio con la creatività. E va benissimo, ma non sarebbe il caso di mettere
mano ad un rinnovamento liturgico di fondo, come è avvenuto in altre fasi della storia della Chiesa?
Il rinnovamento biblico della Chiesa cattolica, con il quale si sono
recuperati secoli di ritardo
e di svantaggio sulle Chiese protestanti, da sempre
abituate a una familiarità
con la Sacra Scrittura, non
è stato accompagnato dal
rinnovamento liturgico. Sì,
è stata messa qualche toppa qua e là, ma l’impalcatura della liturgia è ancora
quella di un consunto teatro della noia stancamente
gestito perlopiù da un clero depresso, dove ogni
guizzo di vivacità viene visto con sospetto. Quando Gesù parlava le
folle non restavano mai indifferenti: o l’applaudivano o gli lanciavano le pietre. Oggi
lo stesso brano letto in chiesa durante l’eucaristia non provoca alcuna reazione, se
non addirittura sbadigli. Dov’è il problema? Non certo nell’insegnamento di Gesù, ma in chi lo trasmette. Anche papa Francesco ha detto che i fedeli dovrebbero uscire dalla messa più felici di quando sono
entrati, invece il più delle volte escono
persone annoiate e tristi. Tutto l’impianto
della celebrazione è da rivedere, in quanto ogni preghiera è ancora tutta rivolta al
Dio nell’alto dei cieli e poco o nulla riguarda gli uomini che sudano sulla terra. Le
parole della liturgia sono rivolte a un uomo
che non c’è e che probabilmente non è mai
esistito, un fedele con gli occhi sempre
rivolti verso il cielo e il cui più grande desiderio sembra sia quello della patria celeste, il che non pare proprio combaciare
con le priorità delle persone.
Padre Alberto nella tua vita ti sei trovato di
fronte a tante incomprensioni eppure, come
alcuni altri incompresi, hai aiutato a comprendere e vivere la fede a tanti
che la stavano perdendo. Quali possono essere le chiavi per
entrare nel cuore delle società
secolarizzate con un radicale
messaggio di speranza?
Da quando ho scoperto la
bellezza dei vangeli ho dedicato la mia vita al loro studio e alla loro divulgazione.
La verità di un insegnamento non si vede dall’autorità di chi lo proclama ma dagli effetti che produce, e se
crea vita, la rallegra e l’arricchisce viene
senz’altro dal Creatore della vita. Se come
risposta all’annuncio di questa buona notizia di Gesù arrivano applausi, li dirotto
immediatamente verso l’autore del messaggio, al Padre che ama incondizionatamente le sue creature. Se invece arrivano
pietre, le prendo come medaglie al merito, una conferma di essere sulla strada
giusta, secondo l’affermazione di Gesù che
insulti e persecuzioni sono una beatitudine (Mt 5,11). In quasi mezzo secolo da
prete ho collezionato un vasto repertorio
di insulti, minacce, maledizioni. È interessante vedere come queste offese si adeguino ai tempi che cambiano. Se anni fa
venivo ancora apostrofato come protestante, eretico, comunista, massone, ora va di
moda «bergogliano», il che, francamente,
più che un insulto è un punto d’onore! Il
problema oggi non è tanto quello di entrare nel cuore della società secolarizzata,
quanto in quello del mondo religioso, ostile e refrattario a ogni cambiamento.
Fede e politica sono certamente due dimensioni diverse, non sovrapponibili. Quando è avvenuto e avviene sono stati e sono guai seri.
Tuttavia deve esserci un modo per far sì che
l’ispirazione di fede, per noi l’ispirazione cristiana, possa incidere, senza integralismi, anche nella vita della polis. Su quali terreni, secondo te, oggi questo può avvenire per rendere
la fede meno eterea e la politica meno cinica?
Tra i rimproveri che ricorrentemente mi
vengono fatti è che, sì, sono bravino nel
parlare di vangelo, ma non devo neanche
provare a sfiorare temi che riguardino la
politica, perché è un settore che non mi
compete. Questo è un tentativo di imbavagliare, di chiudere il prete nell’angusto perimetro della sacrestia. Ma è proprio il vangelo che dona la capacità di avere occhi
per vedere e orecchi per udire e percepire, come una sentinella, pericoli subdoli che
spesso la massa non avverte, in quanto sedotta e affascinata dai mortali pifferai di
turno che ipnotizzano le persone facendo leva sugli istinti più bassi e inconfessabili.
E allora compito del credente è di essere il primo a smascherare e denunciare ogni
forma di ingiustizia, di manipolazione e sopruso. Chi
per la propria tranquillità
tace e si colloca in una posizione di neutralità è solo un
inutile codardo: è chiamato a essere sale
della terra ed è invece una poltiglia insipida. Egli merita solo disprezzo e «a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt 5,13).
Se dovessi scegliere una parola irrinunciabile da sussurrare all’orecchio delle donne e
degli uomini del nostro tempo, una parola
che dica l’essenziale del messaggio cristiano, quale sceglieresti? E perché?
Ho avuto il grande privilegio di vivere alcuni anni a Granada con un grande biblista, una persona straordinaria, il gesuita
Juan Mateos. A lui sono debitore perché
la maggior parte di quel che ho imparato
per l’interpretazione dei vangeli l’ho appreso dalle sue ricerche. Ho avuto anche
il privilegio di trovarmi a Malaga al suo
capezzale negli ultimi istanti della sua vita.
Gli chiesi: «Juan, se volessi con una sola
parola sintetizzare la tua fede, che diresti?». E lui con un filo di voce sussurrò:
«Un Padre che in qualunque situazione,
anche la più difficile e dolorosa, ti sussurra: ‘Non ti preoccupare, fidati di me!’». Poi
aggiunse: «Sono molto felice» e spirò. Era
il 23 settembre 2003.
Mariano Borgognoni