Piero Stefani "Tra rischio e vendetta. Alcune glosse al Libro di Ester"
Ci sono frasi che sembrano senza tempo. La loro formulazione, invero, risente dell’epoca in cui sono state espresse, il loro contenuto appare invece legato a una fatidica ripetitività. In questo novero rientrano le righe seguenti: «Essendo io al comando di molte nazioni e avendo il dominio su tutto il mondo, non volendo abusare della grandezza del potere, ma volendo sempre governare con moderazione e dolcezza, mi sono proposto di rendere quieta la vita dei sudditi e di assicurare un regno tranquillo (…) per far rifiorire la pace sospirata da tutti gli uomini». Con le varianti del caso, sono parole che compaiono sulla bocca di molti governanti odierni.
Siamo però di fronte soltanto a una premessa; quanto contraddistingue la posizione autocratica o addirittura totalitaria presente nel passo viene subito dopo: si tratta della saldatura tra il fine di far rifiorire tranquillità e pace e i mezzi indicati per raggiungerlo. Per conseguire lo scopo di una serena convivenza occorre servirsi del «diverso», dapprima per additarlo come nemico, poi per normalizzarlo o attraverso la via moderata dell’assimilazione o per mezzo di quella brutale della soppressione.
Il nostro brano fa propria l’opzione estrema. Il detentore del potere apprende dai suoi consiglieri «che in mezzo a tutte le razze che ci sono nel mondo si è mescolato un popolo ostile il quale vivendo con leggi diverse da quelle di ogni altra nazione, trascura sempre i decreti del re, così da compromettere la pace delle nazioni da noi consolidata. Considerando che questa nazione è l’unica a essere in continuo contrasto con ogni essere umano, differenziandosi per uno strano regime di leggi e che, ostile ai nostri interessi, compie le maggiori malvagità e ostacola la stabilità del regno, abbiamo ordinato che tutte le persone (…) segnalate, con la moglie e i figli, siano radicalmente sterminate con la spada dei loro avversari, senza alcuna pietà né perdono».
Nello specifico, la minoranza a cui si sta riferendo l’antico testo è costituita da ebrei. Lette dopo la Shoah, le parole del decreto appaiono dotate d’inquietante preveggenza, tuttavia i meccanismi da esse indicati sono applicabili anche in modo meno estremo e riferibili a minoranze e gruppi che poco o nulla hanno da spartire con il popolo ebraico.
Il testo che narra l’episodio appena riportato è la versione in greco del Libro di Ester (cf. Est 3,13b-13f). Il re di questo racconto, privo di riscontri storici comprovabili, è il persiano Artaserse (mentre la redazione in ebraico lo denomina Assuero); il capo dei consiglieri e principale istigatore del tentato sterminio è, in entrambi i casi, Aman. La più lunga versione in greco non costituisce una semplice serie di aggiunte alla versione in ebraico. Si è piuttosto di fronte a una riscrittura, marcatamente diversa, della stessa storia.1
Ester, in greco, si apre con un sogno che si rivelerà un’anticipazione simbolica di tutto quanto sarebbe avvenuto. Fin dal principio, gli eventi sono quindi posti all’insegna di una preveggenza divina di cui gli esseri umani si renderanno conto solo post eventum. Nella versione in ebraico Dio non è mai nominato, mentre nella redazione in greco è presente fin dall’inizio; si dichiara infatti che nel sogno è contenuto «quello che Dio aveva deciso di fare» (Est 1,1l). Trovarsi tra le mani un libro biblico privo di riferimenti espliciti a Dio solleva problemi non lievi rispetto ai modi nei quali l’umano e il divino s’incrociano nella storia; di contro, la scelta di porre Dio come tonalità d’impianto dell’intera composizione colloca il lettore in una posizione diversa da quella dei protagonisti del racconto.
Il testo dichiara infatti che colui che ebbe il sogno, l’ebreo Mardocheo, si sforzava vanamente di comprendere i contenuti appresi per via onirica: due draghi che, nel tumulto generale, si scontrano e una piccola fonte che diviene un gran fiume (Est 1,1d-l). A rendere chiaro il disegno sarebbero stati gli eventi, soltanto allora Mardocheo sarà nelle condizioni di decifrare il sogno e di comprendere che «queste cose sono avvenute per volere di Dio» (Est 10,3a-k); il lettore invece lo sa, in qualche modo, fin dall’inizio. Pur ignorando la simbologia esatta dei due draghi, della sorgente e del fiume, è a conoscenza che il sogno è stato inviato da Dio; ciò lo induce a escludere, fin dal principio, che la terribile minaccia di sterminio giunga a compimento.
Il rischio
Nella nostra veste di lettori siamo dotati di qualche preveggenza, nelle nostre esistenze siamo invece paragonabili ai protagonisti; anzi, per lo più siamo nelle condizioni prospettate dalla versione in ebraico, dove non ci sono sogni e si procede nella vita «etsi Deus non daretur». Quanto siamo chiamati a decifrare sono gli avvenimenti stessi, mentre dobbiamo operare senza avere garanzie di un lieto fine.
Le intricate vicende del libro biblico ci informano che l’ebrea Ester, nipote di Mardocheo, sarebbe diventata sposa del re. Nonostante la sua posizione, presentarsi di fronte al sovrano senza essere convocata comportava, anche per lei, un rischio mortale (cf. Est 5). Se il re non avesse compiuto un determinato gesto, la sorte a cui si andava incontro era la condanna capitale. Insorta la minaccia di sterminio, Ester, per cercare di scampare altri dal pericolo, espone sé stessa al massimo dei rischi. Lei sa che unicamente dalla scelta di presentarsi spontaneamente al re potrebbe derivare la salvezza del suo popolo. Potrebbe.
Tuttavia, come ci insegna Kierkegaard, il possibile è la più pesante tra tutte le categorie, aperta com’è tanto sul versante del sì, quanto su quello del no. Ester è però certa che il suo popolo sarà scampato dal pericolo solo se lei stessa resterà in vita. La versione in greco fu composta in un’epoca nella quale, in Israele, era già stata elaborata l’idea del martirio (cf. 2Mac 7),2 tuttavia la regina è nelle condizioni di salvare il suo popolo solo a patto di non veder sacrificata la propria vita. Unicamente la sopravvivenza le avrebbe garantito di intervenire a favore degli altri ebrei.
Letto in questo modo, quello di Ester è un libro dichiaratamente antimartiriale: la vita è salvata dalla vita, non dalla morte. La protagonista è simbolo del rischio, non del sacrificio. Ester espone la propria esistenza a un pericolo mortale nella speranza che la propria sopravvivenza si trasformi in causa di salvezza per altri: dare la vita non significa soltanto morire, può comportare anche vivere.
La vendetta
La versione in greco presenta due decreti: il primo prospetta lo sterminio, l’altro, oltre a sospenderlo, dà libero corso alla ritorsione. Un minacciato assassinio di massa avrà come contropartita stragi reali (sia pure solo in ambito narrativo). Nella seconda lettera, Artaserse afferma che Aman aveva tramato, a motivo della sua superbia, per eliminare il re stesso e aveva calunniato sia Mardocheo «nostro salvatore e strenuo benefattore», sia la regina Ester, sia tutto il loro popolo: «Ora, noi troviamo che questi giudei, destinati da quest’uomo tre volte scellerato allo sterminio, non sono dei malfattori, ma sono governati da leggi giustissime, sono figli del Dio altissimo, massimo, vivente, il quale in favore nostro e dei nostri antenati dirige la storia nel migliore dei modi» (Est 8,12p-q). La conseguenza fu che toccò ai giudei colpire tutti i nemici «passandoli a fil di spada, uccidendoli e sterminandoli» (Est 9,5).
Fermo restando che tutto si situa in un ambito linguistico e non già dell’agire concreto, il dar corso alla vendetta (le cifre degli uccisi sono assai ingenti; cf. Est 9,15-16) prova che non si fu all’altezza della prospettiva, dischiusa dalle circostanze, di salvare vita con la vita.
È vero: è una storia nella quale «non si combatte con la spada ma con la penna», in essa infatti scorre «inchiostro e non sangue»;3 tuttavia vi è un detto biblico e proverbiale secondo cui la lingua uccide più che la spada (Sir 28,18). La vicenda di Ester non alimenta alcuna eroica rivolta, non spinge a sacrificare la propria vita «armi in pugno»; uno dei suoi intenti, e non di minor portata, è infatti d’ironizzare sulla figura del sovrano che, pur avendo un potere assoluto, si lascia influenzare prima in un senso poi nell’altro, senza però rifuggire, in entrambi i casi, dall’autorizzare o addirittura dall’incoraggiare il ricorso alla violenza. In questa opera di smascheramento di forme del potere dischiuse nella direzione di un agire violento, il Libro di Ester mantiene tutta la sua attualità.
1 La valutazione è pienamente assunta dall’attuale versione della Bibbia CEI che, caso unico, affianca una all’altra le due traduzioni, anche se il testo normativo rimane quello in greco.
2 Cf. D. Boyarin, Morire per Dio. Il martirio e la formazione di cristianesimo e giudaismo, Il Melangolo, Genova 2008.
3 J. Petukowski, Le feste del Signore, Dehoniane, Napoli 1987, 120.