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Carlo Maria Martini "Sentinella nella città degli uomini"

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SENTINELLA NELLA CITTÀ DEGLI UOMINI

Il 31 agosto ricorrono i 10 anni dalla morte del cardinale gesuita. Il numero di Jesus ora in edicola propone uno speciale per ricordarne lo stile ecclesiale e il magistero andati ben oltre i confini della diocesi di Milano. E l’eredità per l’oggi del suo pensiero. Con contributi di Guido Formigoni, Ferruccio De Bortoli, Maria Cristina Bartolomei e Lidia Maggi.
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Leggi qui sotto il testo di Ferruccio De Bortoli

La città è un patrimonio dell’umanità», sono le parole di Carlo Maria Martini, tratte da un discorso pronunciato al Comune di Milano il 28 giugno del 2002. «Essa è stata creata e sussiste per tenere al riparo la pienezza dell’umanità da due pericoli contrari e dissolutivi, quello del nomadismo, cioè della desituazione che disperde l’uomo togliendogli un centro di identità, e quello della chiusura nel clan che lo identifica ma lo isterilisce dentro le pareti del noto». I due pericoli evocati da Martini illustrano alla perfezione la metamorfosi dei centri urbani, degli agglomerati nei quali vive la maggioranza della popolazione mondiale. E la consistenza delle sfide per il loro futuro.
Due forze micidiali, una centrifuga, l’altra centripeta. L’arcivescovo mai avrebbe immaginato che la sua città, Milano, ma non solo, sarebbe stata chiusa per mesi. Impaurita e spopolata da un virus sconosciuto come la peste del Seicento, come ai tempi del suo predecessore, Federigo Borromeo. E se gli avessero detto che le chiese sarebbero rimaste vuote, nella Pasqua del 2020, come accadde cinque secoli addietro, avrebbe semplicemente ritenuto l’ipotesi impossibile. Perché i luoghi di culto erano rimasti sempre aperti nel Novecento di guerre, sangue e rivolte.
La città che lo accolse, in una domenica piovosa dell’inizio del 1980, guardando con un misto di curiosità e scetticismo quel gesuita apparentemente freddo e distaccato, era svuotata nell’animo, prostata dagli anni di piombo e dalla crisi economica. Era flagellata dal virus della violenza e dell’odio di classe per il quale sembrava non esistere alcun vaccino civile, alcuna cura. Era grigia, assente, ripiegata su se stessa. Così diversa da quella attuale. L’arcivescovo seppe ricucire negli anni – con il magistero della parola e il fascino della sua spiritualità – i legami di una comunità scossa dalla paura e dalla sfiducia.
«La città è il luogo di un’identità», sono ancora le sue parole del 2002, «che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo e dal diverso». Ecco due caratteristiche intime e profonde della milanesità cui Martini indicò la strada di una risurrezione civile. La capacità di reinventarsi – ed è esattamente quello che sta accadendo con la ripresa post pandemica, ammesso che si possa chiamare così – unita all’apertura al diverso e alla sua predisposizione a far convivere etnie, lingue, religioni e talenti. Se pensiamo a un’altra delle città, la più amata da Martini, anche più della sua Torino, ovvero Gerusalemme, dovremmo concludere che accade oggi esattamente l’opposto. Ma per Martini, Gerusalemme era il luogo delle contraddizioni da cui non si deve fuggire «perché lì si impara a vivere». La città dello shalom, la Sion sognata per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita, ma che non lo accolse come lui avrebbe immaginato e desiderato. Un po’ lo respinse. E ciò gli lasciò dentro un’amarezza infinita.
La forza del nomadismo è insidiosa anche e soprattutto per chi non viaggia e si rifugia nella Rete, si dimette dalla propria condizione di cittadino e, “navigando”, si estranea dalla realtà della propria comunità. Quanti sono i “nomadi” stanziali delle nostre città? Soprattutto giovani magari connessi con tutto il mondo ma ormai privi di legami con il loro prossimo, anche familiare? Un immenso gregge smarrito che popola le nostre città, ma non le abita e soprattutto non le vive. E quanti sono, specie tra la classe dirigente, i “nomadi” che proprio perché internazionalizzati non si sentono più cittadini, ma solo ospiti e fanno della loro alterità una condizione di cui vantarsi?
L’altra forza, ugualmente insidiosa, è quella della chiusura tra le “pareti del noto” di un clan. Pareti che si trasformano in mura apparentemente difensive. Prigionieri di una crescente xenofobia, preoccupati di vedere annacquate tradizioni e costumi, con l’incubo di perdersi nella globalizzazione, le città rischiano di isterilirsi nel tentativo di ritrovare se stesse chiudendosi, in realtà isolandosi.
Ma una comunità che è sicura dei propri valori, e ne è orgogliosa, non rifugge dal confronto, non teme la contaminazione con chi è diverso. Si confronta e soprattutto integra, plasma, crea nuove appartenenze. E suscita nell’altro, nello straniero, nell’ospite, la consapevolezza di aver guadagnato sul campo la propria cittadinanza. Chi è forte nell’accoglienza non teme di perdersi nella promiscuità. Non ha paura di restare in minoranza nella propria condizione autoctona, ma si preoccupa di aver condiviso i propri valori con l’altro, rispettandolo. Insieme saranno nuovi cittadini di una città che cresce, si evolve e matura. «La natura della città», sono ancora le parole di Martini, «incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento».
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