Armando Matteo "Il cristianesimo futuro in Italia e l’opzione Francesco”
Inutile negarlo: il cattolicesimo italiano ha perso la sua capacità d’attrazione. Siamo troppo legati alla mentalità del passato: il nostro Paese è decristianizzato. Dopo la pastorale della consolazione, è tempo di una pastorale dell’incrocio.
di Armando Matteo
La presente riflessione prova a cimentarsi con il tema del futuro del cristianesimo nel contesto italiano. A tale riguardo, la convinzione maturata da chi scrive è che molto del futuro del cristianesimo italiano dipende non tanto e non solo dalle condizioni socioculturali sotto le quali i cattolici e le cattoliche, in questa parte di mondo, si trovano a offrire la loro testimonianza di fede. Dipende piuttosto da come i cattolici e le cattoliche italiani si collocheranno di fronte a quelle condizioni socioculturali. Sotto questa luce, la questione centrale non è quella di intravedere che cosa capiterà al cristianesimo da qui ai prossimi dieci o vent’anni, ma di capire che cosa i cattolici e le cattoliche italiane desiderano che accada al cristianesimo in quello stesso arco temporale. Insomma, non è solo questione di futuro del cristianesimo, è anche questione di cristianesimo del futuro.
Quale Chiesa desideriamo lasciare in eredità
Il futuro possibile del cattolicesimo italiano non è allora cosa da risolvere unicamente chiedendosi quale Chiesa i cattolici e le cattoliche italiani stanno di fatto consegnando alle generazioni che ora vengono l mondo; quel futuro è radicalmente connesso alla domanda circa quale Chiesa quegli stessi uomini e donne di fede desiderano lasciare in eredità alle generazioni che ora vengono al mondo. Sul primo versante, infatti, non c’è chi non veda che quella che stiamo per lasciare, senza assumere su di noi la fatica di un desiderio del cristianesimo del futuro, è sostanzialmente una Chiesa che soffre di quella cattiva stanchezza alla quale ci hanno introdotto le felici analisi del filosofo Byung-Chul Han. Siamo, in verità, una Chiesa stanca – e questa sola rischiamo di lasciare in eredità ai nostri cuccioli – soprattutto perché ci siamo irretiti in un sistema di comunicazione pastorale che non funziona più e anziché trovare la forza – sì, ci vuole forza anche per questo – per fermarci e analizzare onestamente la situazione, continuiamo a portare avanti quello che si è sempre fatto, follemente sperando che i risultati di domani siano magicamente diversi da quelli di oggi. Si innesca così un dinamismo di puro sfinimento. Nessuno che ripeta ciò che ha causato le esperienze fallimentari di ieri può sperare, se non perché attratto da un vortice di follia, che quelle stesse azioni possano condurre a esperienze vincenti. Eppure, è quello che si vede all’opera in tante parrocchie, associazioni e movimenti afferenti al cattolicesimo italiano! La ragione è semplice da indicare: il modello pastorale sin qui utilizzato – e dunque la strategia di comunicazione inventata secoli fa per mostrare la desiderabilità della fede cristiana per una vita compiutamente fiorita – è giunto al capolinea. Non c’è più nulla da fare, a parte l’accanimento terapeutico. Se, come disse giustamente una volta Benedetto XVI e come ha spesso ripetuto papa Francesco, il cristianesimo avanza per attrazione, si trova qui il punto problematico del cattolicesimo italiano attuale: l’abbiamo persa, l’attrazione. Quella almeno legata alla mentalità pastorale del passato. Non è forse vero che i giovani e le giovani stanno alla larga da noi? E cosa non dire del vuoto impressionante, nelle nostre assemblee domenicali, di tutta quella enorme massa di quarantenni, cinquantenni e sessantenni che la sociologia si ostina a definire “adulti”? Pensiamo davvero che il problema sia l’ordine dei sacramenti dell’iniziazione cristiana? Pensiamo sul serio che la questione stia tutta nella scarsa familiarità digitale di tanto clero ed episcopato nostrano? Vogliamo sul serio ancora consolarci con la categoria dei “credenti non praticanti”? Vogliamo continuare a consolarci con la supposizione che il nostro, alla fine, è un Paese non solo con radici ma anche con buoni frutti cattolici? Consoliamoci pure, ma basta accendere la tv, leggere un giornale, fare un giro in centro, entrare in un ristorante e accorgersi che di quella supposizione non è rimasto concretamente nulla. Ci siamo sufficientemente “decristianizzati”. Non a caso, del resto, le nostre parrocchie – e in certa misura anche le associazioni e i movimenti del mondo cattolico – vanno ormai bene unicamente per la generazione dei nonni e delle nonne e per quella dei nipotini e delle nipotine, i primi e le prime alle prese con “l’ora della nostra morte” e i secondi e le seconde con il desiderio irresistibile di un cellulare “tutto mio”, per il quale si è pure disponibili a frequentare il catechismo per la comunione. Dopo di che più nulla, nell’uno e nell’altro caso. Va da sé che pensare il futuro del cattolicesimo italiano, alla luce di una sua sempre più evidente mancanza di attrazione presso la maggior parte dei giovani e la quasi totalità dei cosiddetti “adulti”, non appare operazione particolarmente promettente. Chi di noi investirebbe un euro solo su una tale “azienda”? Ci viene qui in soccorso il secondo versante dell’opzione che sta oggi a disposizione dei cattolici e delle cattoliche: quello legato all’interrogativo di quale Chiesa essi desiderano lasciare in eredità alle generazioni dei loro figli e dei loro nipoti. Dopo quanto detto, un tale desiderio non può non assumere la forma di una Chiesa che sia semplicemente attraente per tutti e dunque capace di essere di tutti: di tutti i bambini, i giovani, i cosiddetti “adulti” e i vecchi. In sostanza, il desiderio che potrebbe e dovrebbe sorgere, nel cuore dei credenti e delle credenti del nostro Paese, è quello di restituire forza di attrazione alla loro presenza nella storia. Per questo si deve onestamente riconoscere che la vera questione, nell’interrogativo circa il futuro del cristianesimo, è proprio il cristianesimo del futuro.
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