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Chiara Giaccardi "L’attesa e la libertà"

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L'Osservatore Romano 

4 giugno 2022

Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l'olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l'olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!». Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: «Dateci un po' del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono». Le sagge risposero: «No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene». Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: «Signore, signore, aprici!». Ma egli rispose: «In verità io vi dico: non vi conosco». Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.

Matteo 25, 1-13


Confesso che da ragazzina quando sentivo questa parabola restavo perplessa, un po’ come per la favola della cicala e della formica. Ma poi ho capito che qui è proprio chi danza la vita a entrare al banchetto, e che nessuno può danzarla al posto di un altro. Perché la prudenza non è mettersi in sicurezza, bensì è vedere lontano, oltre la piccola urgenza o fatica del momento, e protendere la propria vita sempre oltre. Seguendo un sogno, una visione, un invito che viene da fuori di noi e che accogliamo con entusiasmo. «Non sapendo quando l’alba verrà, lascio aperta ogni porta» scrive Emily Dickinson.

“Saggio” ha due radici latine: una è la stessa di sapidus (che ha sapore, che non è insipido) da cui deriva anche “sapienza”. E l’altra è exagium, che ha a che fare col saggiare, il valutare, il discernere: è saggio chi non si lascia scivolare la vita addosso, ma la assapora, prende delle iniziative, dei rischi.

“Stolto” invece viene dalla radice stal, che indica fissità. Lo stolto sta fermo, non agisce, non si mette in cammino. Magari si mette “in sicurezza”, ma alla fine si accorge di non aver vissuto davvero.

Perché la vita si costruisce giorno per giorno, rispondendo alle sue provocazioni, alle sue sollecitazioni all’imprevedibile che sempre ci spiazza e ci rimette in movimento. Il modo in cui rispondiamo ci aiuta a prendere una forma, a diventare chi siamo. Per questa ragione non si può vivere la vita degli altri, rispondere al loro posto. E non si può tornare indietro, quando ci accorgiamo che forse avremmo dovuto vivere diversamente. La festa di nozze è fatta per noi, è la celebrazione della bellezza della fraternità e della filialità, dell’abbondanza e della pienezza, dove ciascuno sarà riconosciuto per quello che è, perché indosserà il vestito intessuto di vita, che è la forma che ha preso nel tempo.

Camminare nella luce anche in mezzo alle tenebre è possibile, perché l’olio che accende le nostre vite è sempre a nostra disposizione: basta desiderarlo e cercarlo. È sufficiente anche quello che può contenere il piccolo vaso del nostro io. Siamo piccoli, poco capienti, eppure quel poco che abbiamo, se siamo capaci di mettercelo tutto, può bastare.

E poi va imparata l’arte dell’attesa.

Perché non sappiamo né il giorno né l’ora. E nessun algoritmo ce lo può anticipare con sufficiente approssimazione. Ammettere di non sapere è quasi mortificante nell’era dell’ipercontrollo, ma visto da una prospettiva diversa è liberante.

Proprio perché non sappiamo, sta a noi dare senso all’attesa, prepararci per gustare nel modo più pieno la bellezza dell’incontro e della festa.

Sonno e morte, veglia e vita: l’equazione non è così netta. Crediamo di essere svegli ma in realtà troppo spesso siamo spenti. Morti che camminano, a volte. Incapaci di desiderare la vita, di lasciarci portare dalla sua forza, di metterci del nostro. Siamo già morti prima di morire, e quando verrà la nostra ora non possiamo tornare indietro. Aspettare è la vita, scriveva Victor Hugo.

“Vegliate” perciò è più di una raccomandazione a non addormentarsi: è un invito a vivere, a tenere occhi e cuore aperti, a lasciarsi stupire, a saper leggere i segni che si presenteranno. Vegliare è condizione dell’attenzione e anche della cura: dedicarsi perché si è convinti che ne valga la pena.

Non è per paura che dobbiamo aspettare lo sposo, ma per non perderci la festa nuziale. Per assaporare l’eccedenza di un’acqua che diventa vino squisito, come nelle nozze di Caana. Il banchetto nuziale è il simbolo di una convivialità gustosa, gioiosa; di una pienezza che si compie e alla quale si può partecipare solo se la si desidera davvero. Siamo tutti invitati. Sta a noi raccogliere l’invito e preparaci, vivendo con misura larga. Solo chi ha davvero vissuto, pur con i limiti e le mancanze, può essere parte della festa. Che non è un premio nell’aldilà, ma il compimento di ciò che già abbiamo imparato a gustare. «Chi non ha trovato il paradiso quaggiù — lo mancherà lassù», scrive Emily Dickinson

“Vegliate”, in fondo, è un appello alla nostra libertà. Se l’invito ci interessa rimarremo svegli e faremo della notte un kairos verso l’incontro che dà senso e bellezza alle nostre vite — una bellezza che non sapremmo mai realizzare con le nostre mani. Se ci addormentiamo, se ci lasciamo stordire o sedurre da altri richiami non potremo biasimare che noi stessi per la mancata partecipazione alla festa della vita, che è stata preparata proprio per ciascuno di noi.

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