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Rosella De Leonibus "Guerra, come raccontarla ai bambini?"

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rubrica Psicologia

«Nel mondo c’è stata una cosa tragica, la guerra». «La guerra è iniziata, le persone sono scappate, la città è distrutta. Hanno incominciato a lanciare i missili» «Mamma, la guerra è una cosa tanto brutta e triste, non dovrebbe esistere. Io studierò tanto perché così sconfiggerò questa cosa brutta». (E., un bambino di quasi 6 anni)

Per i bambini la guerra era un gioco, ora è diventata improvvisamente una realtà, e nessuno, né i genitori, né men che mai i bambini, ha modo di capire come fare a farci i conti. Evitare di parlarne, «per non turbarlo». Ecco un errore che in buona fede molti genitori e insegnanti commettono, quando i bambini si trovano a vivere eventi tragici. Possono essere i bambini stessi ad aver reticenza a parlarne, obietterà qualcuno. Molte volte i bambini intuiscono al volo di cosa gli adulti non amano parlare, colgono una alzata di sopracciglia, un gesto della testa, un cambiamento di postura, una sfumatura della voce, e al di là delle parole che pronunciamo capiscono di cosa è ammesso parlare e di cosa no. È molto più probabile che, quando un bambino lascia emergere la sua paura, o il suo bisogno di capire, siamo noi a cambiare velocemente argomento… parlare delle angosce, rispondere ai perché. Questo capita perché circola ancora una convinzione errata al riguardo, una idea diffusa secondo la quale il bambino va distratto da queste cose tristi, così potrà dimenticarsene e non sentire più la paura. La faccenda funziona esattamente al rovescio: se un bambino ha avuto un’esperienza che lo ha spaventato, o anche ha solo sentito parlare o ha visto cose che lo hanno angosciato, ormai questa emozione si è attivata dentro di lui o di lei, e non parlarne la rende ancora più difficile da sostenere. Lo stesso vale per le cose di cui il bambino non comprende la logica: dirgli: «Non sono cose per te», «Non puoi capire», «Capirai quando sarai più grande», lo costringe a cercare da solo una spiegazione, e spesso la trova nel pensiero dell’onnipotenza magica, includendo se stesso nel problema come responsabile, oppure, nella migliore delle ipotesi, costruisce ipotesi fantasiose a cui si aggancia con tenacia, perché non capire cosa sta accadendo genera una angoscia ancora più grande, ci fa sentire impotenti e inermi, ci toglie la sicurezza a cui siamo abituati nel dare un senso alle cose del mondo. Alla paura per il fatto in sé si somma l’angoscia di non riuscire ad organizzare i pensieri, di non comprenderne il senso, e tutto diventa più spaventoso. Poter nominare emozioni forti come la paura, l’angoscia, lo spavento, il dolore, la tristezza, l’orrore, la preoccupazione, poterle raccontare, poterle condividere con una figura adulta, dà un grande sollievo al bambino, che consegna il fardello all’adulto perché lo porti al posto suo, perché faccia ordine nel caos delle emozioni e dei fatti, e li metta in sequenza: in una sequenza narrativa, e anche in una sequenza logica, appena il bambino avrà l’età per comprendere i nessi causali. Parlare di ciò che ci angoscia non è solo liberante, ma è già anche una forma di elaborazione, un modo per poter accogliere e «masticare» psicologicamente i pezzi della realtà più duri e più amari. Certo, non si tratta di sollecitare il bambino in modo diretto: «Adesso parliamo della paura per la guerra», ma di restare sensibili ai suoi segnali, verbali e non verbali, attraverso i quali mostra di voler entrare in tema, oppure mostra di essere già dentro l’emozione che lo aiuteremo a raccontare. E quando le parole sono troppo difficili da dire, allora ci sono i disegni, le immagini, le storie, le rappresentazioni con i pupazzetti, tutte le espressioni che ogni bambino spontaneamente produce per elaborare le sue esperienze traumatiche.
storie, per elaborare il vissuto

Le rappresentazioni e le storie in particolare aiutano il bambino in modo molto significativo ad elaborare, perché raccontano di personaggi o di eroi che stanno vivendo una difficoltà, e in questo modo sostengono la possibilità di pensare alla situazione spaventosa, rimanendone in parte distaccati, poiché la si sta rappresentando, e quindi la si sta riproducendo in modo attivo, anziché subirla direttamente. Senza una adeguata elaborazione, l’esposizione alla violenza e all’orrore può provocare nei bambini e ancor più negli adolescenti una esperienza traumatica, che a sua volta può comportare reazioni di stress e conseguenze patologiche. Gli adolescenti sono a rischio ancora di più, perché hanno accesso alle notizie e alle immagini della guerra anche attraverso i social network, e per le caratteristiche della loro età sono più attratti ed attivati dalle emozioni forti, mentre hanno strumenti incompleti per contestualizzare cosa accade e per elaborare il flusso emotivo che attraversano. Molte volte minimizzano, o sembrano ironizzare sull’impatto di queste notizie: è una forma di autoprotezione emotiva, che dobbiamo accogliere senza criticarla, arrivando per gradi al passaggio di espressione ed elaborazione del vissuto. I più piccoli, anche se la guerra sta avvenendo in un’altra nazione, reagiscono con uno stato di allarme, come se il pericolo fosse vicino nello spazio e nel tempo: da un lato valutare la reale portata del rischio è fuori dalla loro possibilità mentale, dall’altro le facce di chi scappa, i vestiti che indossa, le case distrutte sono molto simili a quelli del proprio contesto di vita ed è impossibile sfuggire alla identificazione. «E se le bombe arrivano da noi? Dove possiamo scappare?» «Mamma, il garage nostro non ha il bagno, come facciamo a stare lì per tanti giorni, da mangiare lo possiamo portare, anche i materassi e i giochi, ma come facciamo quando dobbiamo fare pipì?». Ascoltare e contenere le angosce di un bambino non è sempre facile per un genitore. Nel tentativo di proteggerlo, lo si spinge a farsi forte, a distrarsi dalla paura, oppure si ricorre con una delega totale all’esperto, sottraendosi alla risonanza che la sofferenza del piccolo produce dentro di noi. Molto spesso, in questo tentativo di depistaggio, è noi stessi che tentiamo invano di rassicurare. Anche qui è esattamente il contrario: nell’aiutare una piccola creatura a produrre una espressione delle sue angosce, stiamo dando anche a noi stessi questa possibilità, e nell’aiutarla a capire abbiamo modo di accedere anche noi a una migliore organizzazione dei nostri pensieri.
come ascoltare un bambino?
Trovata o colta l’occasione giusta, lasciamo che esprima immagini, pensieri, emozioni, interrogativi, senza intervenire. Basta restare attenti e partecipi, il suo punto di vista è la cosa più importante. Se ci fa domande, con calma e semplicità ci disponiamo a dargli le informazioni esatte, quelle essenziali, e se vuole capire il perché di quello che accade, rispondiamo con precisione e sintesi. Se non abbiamo le risposte, impegniamoci a cercarle per lui o per lei, o a chiedere a chi è più esperto. Se ci interpella su cosa pensiamo noi di queste tragedie, in modo calmo e senza imposizioni dichiariamo il nostro pensiero, lasciando al figlio o alla figlia la possibilità di avere una lettura diversa, specialmente se è adolescente. Queste raccomandazioni vengono dalla American Psychological Association (http://www.apa.org/helpcenter/aftermath.aspx), che ricorda ai genitori di prendersi cura di se stessi in primo luogo, di non interrompere la routine quotidiana, e dedicare momenti specifici all’ascolto delle notizie senza lasciare che invadano l’ambiente domestico. Può capitare di trovarsi ad ascoltare notizie scioccanti insieme ai bambini; in questo caso il contatto fisico e l’abbraccio sono la migliore rassicurazione: niente, meglio del contenimento e del contatto corporeo, trasmette la notizia più rassicurante che c’è: «io sono qui e ti proteggo con il mio stesso corpo». «Mamma, papà, perché c’è la guerra? Cosa possiamo fare noi?». Ecco una domanda molto difficile, ed ecco come hanno risposto i genitori a una bimbetta di cinque anni: «La vita si è evoluta perché le persone hanno collaborato e si sono prese cura l’una dell’altra. Continuerà così, nonostante che ci siano periodi di buio. Qualche volta il guadagno, il potere, l’aver ragione a tutti i costi, il bisogno di conquistare la terra degli altri, hanno la meglio. E per fare presto ed esser sicuri di vincere, si usa la violenza, si usano le armi, le bombe e la distruzione. Ma ognuno può fare qualcosa per far tornare il mondo al suo modo normale di funzionare. I capi di Stato, i generali degli eserciti possono proclamare la tregua, fare un negoziato, fare un trattato di pace. Chi ha ucciso le persone può essere processato e condannato. Gli artificieri possono cercare tutte le bombe che sono rimaste per terra e eliminarle. I medici possono curare i feriti, chi ha perso i suoi cari può avere aiuto da chi è stato più fortunato, i popoli che hanno subìto la guerra possono ricevere aiuto da altri popoli e ricostruire le loro città, e noi qui intanto possiamo fare raccolte di cose che servono a chi è dovuto fuggire, possiamo dire a tutti che vogliamo la pace, possiamo scriverlo ai nostri capi di Stato, e possiamo imparare a risolvere ogni conflitto senza violenza, col dialogo, il rispetto, trovare un accordo che vada bene ad entrambi. Possiamo essere giusti e leali, e insegnare questo con l’esempio agli altri, perché quando voi sarete grandi la guerra sia solo un lontano ricordo nei libri di storia».
Nota: per i disegni, le parole e le immagini del piccolo E. ho evitato ogni elemento di riconoscimento; ho ricevuto dai genitori la liberatoria per l’uso delle immagini e dei disegni, e il consenso per la pubblicazione delle sue parole su questa rivista. Li ringrazio qui pubblicamente.

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