Roberto Repole "Sinodalità. Il contributo della teologia"
Il tema della sinodalità si è ormai imposto in modo indiscusso tanto
all’attenzione del più vasto mondo ecclesiale quanto a quella del più
ristretto mondo teologico. In quest’ultimo non è certo nuovo e la svolta operata dall’ultimo Concilio ne ha propiziato lo sviluppo.
In verità, qualche riflessione seria e preziosa sul tema è già rintracciabile alla vigilia del Vaticano II, nel momento in cui – specie dinanzi
ad un’interpretazione massimalista del Vaticano I, che faceva sostenere ad alcuni persino la non necessità, ormai, di un Concilio – Giovanni XXIII aveva espresso la decisione di riunire un Concilio ecumenico.
È il caso di Congar, che, nel febbraio del 1959, affermando che i concili rispondono ad una necessità propria del corpo ecclesiale, mostrava come essi si radichino – diremmo oggi – in una natura sinodale
della Chiesa. Diceva infatti il noto teologo domenicano: «La Chiesa è,
per volontà del suo Signore, strutturata gerarchicamente: Gesù ha
scelto e istituito i Dodici per essere le colonne del Nuovo Israele, del
Tempio spirituale. Ma ha, sin dall’inizio, collocato accanto ad essi 72
discepoli, come i consiglieri di cui Mosè s’era attorniato (Lc 10,1). Il
giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo è stato donato, non solamente
agli Undici, ma all’insieme dei 120 fratelli che erano riuniti nell’unanimità della preghiera (At 1,13-15). Gesù aveva accordato un valore
tutto particolare di presenza ed assistenza alla riunione unanime di
diversi dei suoi (Mt 18,20). La Chiesa apostolica aveva compreso che
questi fatti traducevano una volontà del Signore. Si è stupiti nel vedere, quando si leggono gli Atti degli Apostoli, come, senza interruzione,
un regime collegiale si articoli con una evidente struttura gerarchica.
Questo è vero, già, all’interno del “Collegio apostolico”. Questo è vero di tutta la Chiesa, che è propriamente una comunità, una comunione,
nella quale i semplici membri sono associati, in un consenso vivente,
alle decisioni che, dopo tutto, li concernono». Congar prevede in tale
scritto che uno dei temi decisivi che il prossimo Concilio dovrà affrontare sarà quello della collegialità episcopale ma, come si può intuire
dal passo riportato, esso non è per lui sganciabile dal tema della partecipazione attiva di tutti alle decisioni che li riguardano, che comporta la realizzazione di un consenso vivente. Peraltro, è sempre in questo
stesso testo che il teologo domenicano ha cura di ricordare il principio
improntato al diritto romano e richiamato dai cristiani in epoca medievale, oggi costantemente ripetuto da chiunque parli di sinodalità:
quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet.
È però dopo il Concilio che la riflessione teologica sulla sinodalità
si farà maggiormente strada. Il Vaticano II non ne parlerà direttamente e sarà preoccupato di affrontare effettivamente anzitutto la questione della collegialità. Esso ha posto tuttavia le premesse perché si potesse non solo coniare un neologismo – sinodalità, appunto –, ma
trattarne e sviscerarne il senso per l’essere stesso della Chiesa. Non
foss’altro perché, come notava una decina d’anni dopo la chiusura del
Vaticano II un illustre allievo di Congar, il padre Legrand, procedendo
in maniera empirica più che prescrittiva, il Concilio «ha creato o confermato le conferenze episcopali, i consigli presbiterali, dei consigli
per l’apostolato dei laici e dei consigli pastorali».
Giova tuttavia rammentare che nelle diverse fasi di ermeneutica e
recezione del Vaticano II lo sviluppo teologico della tematica ha fatto
registrare momenti diversi. Solo per fare un esempio che coinvolge la
teologia italiana, quando nel 2005 l’Associazione Teologica Italiana
dibatteva della sinodalità nel suo XIX congresso, la scelta tematica
poteva apparire, nel contesto, piuttosto profetica e ad alcuni persino
“politicamente non corretta”.