Enzo Bianchi, Fabio Rosini, Ludwig Monti "Commenti Vangelo 29 maggio 2022"
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: ⁴⁶«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, ⁴⁷e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. ⁴⁸Di questo voi siete testimoni. ⁴⁹Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».⁵⁰Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, benedisse. ⁵¹Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. ⁵²Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia ⁵³e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
La soppressione, in Italia, della festa dell’Ascensione (giovedì della VI settimana, quaranta giorni dopo Pasqua) e il suo conseguente spostamento alla domenica successiva non ci permettono purtroppo di contemplare il mistero dell’intercessione del Risorto presso il Padre (VII domenica di Pasqua). Oggi dunque nella chiesa italiana si celebra l’Ascensione, evento pasquale che Luca racconta nel suo vangelo (il brano odierno) come evento finale della vita di Gesù di Nazaret e negli Atti degli apostoli come evento iniziale della vita della chiesa (cf. At 1,1-11, anch’esso proclamato oggi nella liturgia).
È significativo che i due racconti non siano pienamente armonizzabili tra loro, in quanto leggono il medesimo evento da due diverse prospettive. Negli Atti l’ascensione di Gesù al cielo avviene quaranta giorni dopo la sua resurrezione da morte (cf. At 1,3), mentre nel vangelo è collocato nella tarda sera di quel “giorno senza fine”, “il primo della settimana” (Lc 24,1), giorno della scoperta della tomba vuota e dell’apparizione del Risorto alle donne (cf. Lc 24,1-12), ai due discepoli sulla strada verso Emmaus (cf. Lc 24,13-35), infine a tutti i discepoli riuniti in una casa a Gerusalemme (cf. Lc 24,36-49). Due modi diversi per narrare l’unico evento della resurrezione, che Luca cerca di illuminare in tutta la sua ampiezza: la resurrezione significa infatti entrata di Gesù quale Kýrios nella vita eterna alla destra di Dio Padre (Ascensione) e anche discesa dello Spirito (Pentecoste: cf. At 2,1-11).
Nella pagina conclusiva del suo vangelo Luca racconta come Gesù si è separato dai suoi non per abbandonarli ma per essere con loro sempre, l’‘Immanuel, il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; 28,20), in una nuova forma di vita. La sua esistenza umana è terminata con la morte, e ora, dopo la resurrezione del suo corpo, la vita di Gesù è altra, è quella del Signore vivente, è la vita divina di colui che è nell’intima vita di Dio, alla sua destra, il posto del Figlio eletto e amato (cf. Sal 110,1bc; Lc 3,22; 9,35). Eccoci dunque nella casa dei discepoli a Gerusalemme: sono tornati i due da Emmaus e hanno raccontato la loro esperienza, mentre gli Undici e gli altri testimoniavano anch’essi che Cristo era risorto ed era stato visto da Simon Pietro (cf. Lc 24,33-35). Mentre tutti insieme parlano di Gesù, egli in persona sta in mezzo a loro, dona lo shalom, la pace (cf. Lc 24,36), poi consegna parole che risuonano in un’assoluta novità: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi” (Lc 24,44a). Sì, perché Gesù non è più con loro come prima, quale uomo, maestro e profeta; ora è il Signore vivente che non parla più in aramaico, con il suono della sua voce umana da loro a lungo ascoltata, ma in modo nuovo, un modo più efficace, persuasivo, perché la sua voce è dotata della forza dello Spirito di Dio pienamente all’opera nel Risorto.
Nella potenza dello Spirito il Signore Gesù mostra ai discepoli il compimento delle Scritture e il compimento delle sue parole negli eventi che hanno preceduto quel giorno (cf. Lc 24,44b-47). Il Risorto spiega le Scritture in modo che i discepoli comprendano la conformità tra lo “sta scritto” e ciò che hanno vissuto: ora i discepoli possono finalmente comprendere ciò che prima non riuscivano a capire. Avevano certamente letto tante volte la Torah, i Profeti e i Salmi, ma ora che i fatti si sono compiuti possono comprenderli credendo, alla luce della fede. Gesù aveva annunciato loro più volte la necessitas della sua passione e morte (cf. Lc 9,22.43b-44), ma questi discorsi erano parsi loro scandalosi, enigmatici (cf. Lc 9,45). Ora però che si sono compiuti, non per destino o fatalità, ma per la necessità mondana secondo cui “il giusto” (Lc 23,47) in un mondo ingiusto deve morire (cf. Sap 1,26-2,22) e per la necessità divina per la quale Gesù in obbedienza alla volontà del Padre non si difende ma accoglie l’odio su di sé amando fino alla fine, ora sì che è possibile credere alle sante Scritture. E credendo è possibile diventare “testimoni”, fino ad annunciare la morte e resurrezione di Cristo come evento che chiede conversione e dona la remissione dei peccati: il perdono da parte di Dio a tutta l’umanità, in attesa della buona notizia della salvezza. Tutti sono testimoni – sottolinea Luca –, tutti annunciatori del Vangelo, non solo gli Undici, gli apostoli, ma anche gli altri presenti nello stesso luogo.
Sì, Gesù, quest’uomo di Nazaret, figlio di Maria e di Dio, che solo Dio poteva darci, era venuto soprattutto come Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), come Visita da parte di Dio (cf. Lc 1,68), una Visita non per la punizione, per il castigo dei peccati commessi dal popolo di Dio e dall’intera umanità, ma una Visita che annunciava il perdono dei peccati (cf. Lc 1,77). Con quella morte da “uomo giusto” che accoglieva su di sé l’odio, la violenza e la menzogna dei malvagi, e vi rispondeva non con la violenza ma con l’amore, Gesù consegnava al Padre la vera immagine di Dio, l’Adamo come Dio l’aveva voluto (cf. Col 1,15). E proprio come giusto che sta dalla parte dei peccatori, solidale con pubblicani, impuri, prostitute, ladri e malfattori, Gesù saliva al Padre rivolgendogli la preghiera incessante che invoca perdono e misericordia. Tra le sue ultime parole prima della morte non aveva forse detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)? E la sua ultima promessa non era forse stata rivolta a un malfattore: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43)?
Dunque i discepoli, testimoni di questa misericordia vissuta, insegnata e raccontata da Gesù, devono annunciarla a tutte le genti. Questa è la predicazione della chiesa, la quale invece a volte è tentata di attribuirsi compiti che il Signore non le ha dato: l’unico compito evangelico è annunciare e fare misericordia, che significherà annuncio del Regno, della salvifica morte e resurrezione di Cristo, e quindi servizio ai poveri, ai malati, ai sofferenti, vicinanza e solidarietà con i peccatori. “Cominciando da Gerusalemme” e fino ai confini del mondo i testimoni, quali viandanti e pellegrini, ovunque annunceranno il perdono dei peccati, quindi perdoneranno e inviteranno tutti a perdonare: questo il Vangelo, la buona notizia. Essere testimoni di tale annuncio (e non di altro!) è un’impresa ardua, perché sembra poco credibile, quasi impossibile da realizzare, eppure quei poveri discepoli e quelle povere discepole la sera di Pasqua hanno ascoltato, capito e da allora hanno tentato di mettere in pratica nient’altro che questo: il perdono, la remissione dei peccati. Ci vorrà “la potenza venuta dall’alto”, la discesa dello Spirito santo da Dio, per essere abilitati ad adempiere questo mandato, ma nessuna paura: quando Gesù, il Figlio di Dio, sale al cielo, ecco che dal cielo discende lo Spirito di Dio, che è anche e sempre Spirito di Gesù Cristo, forza che sempre ci accompagna e ci ispira in questa missione.
Come raccontare l’ascensione di Gesù con parole umane? Luca tenta di narrarla, ricordando come il profeta Elia aveva lasciato questa terra per andare presso Dio (cf. 2Re 2,1-14), e così scrive che Gesù, dopo aver condotto a Betania quei discepoli ormai resi testimoni, lasciò loro la benedizione e, “mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. Questo l’esodo di Gesù dalla terra al regno di Dio. L’evangelista non attenua in alcun modo la separazione di Gesù dai suoi: egli non è più presente come prima, ma la benedizione che dona è una benedizione continua, è l’immersione dei suoi nello Spirito santo (cf. Lc 3,16). Essa è anche l’ultimo atto del Risorto: egli dona la benedizione sacerdotale che era stata sospesa, non data all’inizio del vangelo dal sacerdote Zaccaria, dopo l’apparizione dell’angelo e l’annuncio della venuta del Messia (cf. Lc 1,21-22). Questa benedizione rende gioiosa la comunità di Gesù proprio mentre egli si separa da lei, ma la rende anche sacerdotale (cf. 1Pt 2,9): i credenti in Gesù Cristo sono di fatto il nuovo tempio, “sacerdoti” e adoratori del Risorto, capaci di rispondere con la preghiera di benedizione alla benedizione di Gesù. L’incredulità è finalmente vinta e la fede in Gesù vivente, Signore e Dio, è tale che permette ai discepoli di sentire Gesù presente in mezzo a loro anche dopo la separazione del suo corpo glorioso, ormai nell’intimità del Padre, Dio.
Don Fabio Rosini, direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma,
commenta il Vangelo del 29 maggio 2022, Ascensione del Signore Anno C.
Ascensione del Signore Anno C
Lc 24, 46-53
Già e non ancora, tra cielo e terra
Ludwig Monti, biblista
Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù … verrà allo stesso modo in cui l’avete visto camminare verso il cielo (At 1,11; prima lettura).
L’ascensione di Cristo è nostra esaltazione, e alla gloria dove egli, nostro capo, è giunto – in cielo –, noi suo corpo siamo chiamati (Orazione colletta).
Questa domanda-promessa e questa affermazione esprimono la paradossale tensione tra il “già” e il “non ancora” che celebriamo nella solennità dell’Ascensione del Signore. L’ascensione, inenarrabile con le nostre parole umane e non a caso narrata in due modi diversi da Luca nelle sue due opere, è un altro modo per dire l’evento unico della resurrezione di Gesù, la sua glorificazione. Ormai alla destra del Padre siede per sempre il corpo umano di Gesù e noi contempliamo in questa realtà la prefigurazione di ciò che attende il nostro corpo. Eppure questa assunzione definitiva di Gesù nella vita divina è anche distacco, separazione dalla sua comunità, da noi. È una forma di presenza “altra”, diciamo giustamente nella fede, ma proprio per questo è “assenza” da questa terra di Gesù, che non può più essere ascoltato, visto, contemplato, toccato (cf. 1Gv 1,1).
Da questa paradossale tensione scaturisce la domanda essenziale che da quel giorno non cessa di rinnovarsi in ogni nostro oggi: come restare fedeli alla terra cercando le cose dell’alto? Ben prima di tentare una risposta dobbiamo dimorare in questa domanda, lasciarla risuonare con pazienza in noi, perché in essa è racchiuso il delicatissimo equilibrio richiesto a noi cristiani: stare nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17,11-16), vivere l’esistenza terrena da uomini e donne più umanizzati, o meno disumanizzati, senza confondere questo con un comportamento banalmente mondano. Quel comportamento proprio di chi è talmente a suo agio tra le realtà visibili da non attendere più, anzi da rimuovere il più possibile quelle invisibili…
Gesù risorto, nell’atto di separarsi dai suoi, proprio perché non si sentano orfani, manifesta loro il “come” dell’esistenza terrena cui sono chiamati, in fedeltà a lui e nell’attesa della sua venuta gloriosa. Con le sue ultime parole chiede a loro e a noi di cogliere la sua presenza nelle sante Scritture, le quali attestano non solo la sua vita, passione, morte e resurrezione, ma le collegano indissolubilmente all’annuncio a tutte le genti della conversione e della remissione dei peccati. D’altronde, cosa è stata la sua vita se non questo annuncio fatto sempre e comunque? Di questo, e non di altro, siamo testimoni per mandato di Gesù; se non lo siamo di questo non lo siamo affatto, non c’è una terza possibilità.
E cosa ci abilita a vivere in questo modo? La promessa dello Spirito santo, che accompagna noi così come è stato “il compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), e la benedizione, forza del Signore capace di mettere in noi due doni che spesso sentiamo al di là delle nostre possibilità: la grande gioia e quella lode che è espressione di un’indicibile speranza, di un compimento che riusciamo solo a balbettare confusamente. La gioia e la speranza non ce le diamo da soli, ce le dona il Risorto, chiedendoci di accoglierle e di viverle: ecco il nostro compito, la nostra testimonianza essenziale; ecco una risposta alla domanda su come abitare il paradosso.
Tutto questo è ridetto altrimenti nella pagina iniziale degli Atti, in un modo così semplice che dovrebbe imprimersi nei nostri cuori con quella forza e chiarezza che appartengono solo a ciò che dà vita. Per parlare dell’ascensione Luca utilizza quel verbo utilizzato tante volte nel vangelo per parlare della vita terrena di Gesù, “camminare”: “Gli apostoli stavano fissando il cielo mentre Gesù camminava verso il cielo, quand’ecco due uomini in bianche vesti dissero: ‘Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto camminare verso il cielo’”.
La chiesa, noi, siamo dunque collocati tra un passato che ha visto Gesù Cristo camminare su questa terra e un futuro rischiarato da una promessa, degna di fede perché fatta dal “Testimone fedele” (Ap 1,5): egli stesso camminerà dal cielo verso di noi. In mezzo c’è il nostro presente, quel presente in cui siamo chiamati a “camminare sulla terra come Gesù ha camminato” (cf. 1Gv 2,6). È un cammino, una via paradossale, ma è la via della vita cristiana.