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Gianfranco Ravasi "UN'ALLEANZA NEL SANGUE E NEL CUORE"

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Il termine ebraico berît esprime un concetto centrale nella Bibbia: il patto tra Dio e l’uomo. Più volte tradito da quest’ultimo, verrà rinnovato dal Signore con una «nuova alleanza», non più scritta sulla pietra ma nell’interiorità dell’animo umano

Il 14 di questo mese è segnato dalla celebrazione del Giovedì santo che è, per eccellenza, il giorno dell’Eucaristia. Nel nostro discorso sui simboli biblici partiremo, allora, dalla celebre frase che Gesù pronuncia sulla coppa del vino e che noi citiamo nella redazione di Luca: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (22,20). La categoria simbolica che illustreremo è centrale nella Bibbia: «alleanza», in ebraico berît, in greco diathéke.
Partiamo da un famoso rito descritto nel libro dell’Esodo: «Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini. L’altra metà la versò sull’altare... Mosè prese il sangue dei catini e ne asperse il popolo» (24,6.
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.Siamo nella valle sulla quale si leva il massiccio del Sinai. Israele ha qui vissuto un’esperienza religiosa emozionante, scandita da una clamorosa epifania divina. Da quella vetta Mosè, la guida dell’esodo, ha portato al popolo ebraico accampato nella valle le dieci parole divine supreme, il Decalogo, ma anche un codice di leggi, destinate a reggere la vita del popolo quando si sarà stabilito nella terra promessa da Dio. Attraverso un rito, esse diventano la base di un atto ufficiale che vincola Israele e il Signore in un’alleanza fatta di impegni reciproci.
Seguiamo il cuore della narrazione biblica. «Mosè incaricò alcuni giovani israeliti di offrire olocausti per il Signore. Poi prese la metà del sangue e la versò in tanti catini. L’altra metà la versò sull’altare. Quindi, preso il libro dell’alleanza, lo lesse alla presenza del popolo che s’impegnò: Quanto il Signore ha comandato noi lo metteremo in pratica! Allora Mosè prese la metà del sangue dei catini e ne asperse il popolo, dicendo: Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (24,5-8).
Il già citato termine ebraico che definisce il centro ideale e il nucleo tematico del brano affiora due volte, berît, «alleanza», «patto», «impegno», persino «testamento». La tipologia del sacrificio al cui interno questo patto è stipulato è quella di un olocausto in cui la vittima è totalmente bruciata come offerta che sale a Dio, mentre il suo sangue è raccolto e asperso. Ecco, è proprio a questo punto che il rito simbolico d’alleanza diventa trasparente nel suo valore teologico.
Metà del sangue è versato sull’altare, immagine del Signore, il partner superiore, il sovrano; l’altra metà, raccolta nei catini, è aspersa sul popolo, il secondo contraente, rappresentato anche da dodici stele erette in quel luogo, tante quante erano le tribù d’Israele. I due attori del patto, Dio e il popolo, sono vincolati da un legame di sangue, da una comunione vitale, essendo il sangue simbolo della vita. È noto, ad esempio, che ancora oggi in certi riti nuziali nomadici i due sposi si uniscono coi polsi nei quali viene fatta una piccola incisione così che il sangue dell’uno confluisca e si mescoli in quello dell’altra e viceversa.
L’impegno del Signore è quello di salvare il suo alleato, di guidarlo verso la terra promessa, di offrirgli la sua parola. L’impegno di Israele è nell’accoglienza del «libro [o codice] dell’alleanza», cioè nell’accettazione della legge che diventa, così, impegno personale e sociale per restare uniti al proprio Dio. È una risposta libera umana all’atto libero divino. Le norme non sono imposte dall’alto, ma sono una decisione di vita liberamente e coscientemente assunta in un patto bilaterale. Esso è modellato su analoghi trattati detti «vassallatici» in uso nella Mezzaluna Fertile, cioè nell’area del Vicino Oriente, praticati soprattutto dagli Ittiti, e stipulati tra un Gran Re e i principi vassalli di staterelli minori e dipendenti.
La storia di questo patto per Israele non sarà, però, molto gloriosa. Anzi, sarà striata da infedeltà e l’alleanza verrà infranta da varie ribellioni, cancellata da idolatrie e avrà il suo punto debole proprio nell’osservanza della legge, cioè nell’impegno del contraente umano. Con amarezza il Salmista canterà: «Presto gli Israeliti si dimenticarono le opere [di Dio], non ebbero fiducia nel suo progetto... Si eressero un vitello sull’Horeb, si prostrarono davanti a una statua di metallo fuso, scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba e dimenticarono Dio che li aveva salvati» (Salmo 106,13.19-21).
Di fronte a una simile situazione di infedeltà costante il Signore decide di proporre un nuovo modello di alleanza che superi la dimensione bilaterale del rito del Sinai. È il profeta Geremia a proporlo: «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa di Israele...: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (31,33). Da un rapporto di taglio quasi «politico», così come l’alleanza era delineata al Sinai (Esodo 20-24) o all’ingresso nella terra promessa (Giosuè 24), si era già passati coi profeti a una rilettura più intima, trasformando quel patto in una relazione d’amore, come accade nella famosa vicenda nuziale di Osea (cap. 2), trasfigurata in un segno per Israele, la sposa infedele.
Ora il profeta Geremia, di fronte al crollo di Giuda sotto le armate babilonesi di Nabucodonosor, propone – come si diceva – un nuovo modello che raggiunge un apice di intimità tra l’umanità e Dio. Esso è formulato in un oracolo divino (31,31-34) che è anche la più lunga citazione dell’Antico Testamento nel Nuovo, perché la Lettera agli Ebrei riproduce integralmente quel testo (8,8-12). Ma già lo stesso Gesù rimandava a quelle parole in modo essenziale proprio nell’ultima cena, come abbiamo visto nella frase di Luca citata in apertura.
Il profeta annunciava una berît hahadashah, «un’alleanza nuova», e nel linguaggio biblico «nuovo» significa anche «ultimo, definitivo», come accade nella concezione cristiana quando si parla dei «Novissimi» che sono le realtà ultime, «escatologiche», poste a suggello della storia dell’umanità. Un’alleanza, dunque, perfetta e Cristo evoca appunto le parole di Geremia («Verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova») quando sul calice del vino dell’ultima cena dirà: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi».
Al patto sinaitico, spesso violato da Israele, di impronta più esteriore e pubblica, si sostituisce ora una relazione intima, basata radicalmente sul «cuore», ossia sulla coscienza e sull’interiorità. Alle tavole di pietra subentrano le tavole di carne del cuore umano trasformato; all’imposizione legale estrinseca si sostituisce la «conoscenza», cioè l’adesione personale nell’intelligenza, nella volontà, nell’affetto, nell’azione; alla legge si sovrappone la grazia, al peccato succede il perdono, al timore la comunione intima che crea una sintonia profonda tra i due alleati.
L’essere umano è invaso da Dio che non gli è solo accanto come al Sinai, ma è presente interiormente nell’istante della scelta dell’uomo, il quale rimane pur sempre libero ma non solitario nella sua decisione morale.
Ecco la sostanza delle parole divine proclamate da Geremia: «Non sarà più come l’alleanza che ho concluso coi loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi il loro Signore… Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni… Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: Conoscete il Signore!, perché tutti mi conosceranno dal più piccolo al più grande… Io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato». Il tema dell’alleanza «nel cuore» sarà riproposto dal profeta Ezechiele: «Darò loro un cuore nuovo, uno spirito nuovo immetterò in loro. Strapperò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne» (11,19; cf. anche 36,24-29).
A queste parole possiamo associare una frase di san Paolo che nei cristiani di Corinto vedeva una sorta di «lettera di Cristo, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Corinzi 3,3). Ora, l’Apostolo, mentre dettava queste righe, alludeva certamente a questo passo di Ezechiele. Non più, quindi, la lapide incisa dal dito di Dio al Sinai col Decalogo, come si dice nella Bibbia, bensì una tavola viva, scritta da Dio, quella del «cuore», ossia della coscienza.
Secondo Geremia, Ezechiele e Paolo, il Signore squarcia simbolicamente il petto dell’uomo, strappa un cuore ormai inerte, divenuto simile a un sasso, principio di morte e di male, e vi trapianta un cuore pulsante e palpitante, capace di riportare in azione il flusso vitale. Un’immagine potente, quindi, che segnala in modo esplicito una nuova relazione d’amore e di intimità tra Dio e l’umanità, una relazione fondata sul «cuore», che nel linguaggio biblico indica la coscienza e l’interiorità. Non più tavole esterne ufficiali da rispettare nella paura della pena in caso di violazione, non più un’imposizione legale estrinseca, bensì un’adesione personale e libera col «cuore».
L’essere umano è invaso da Dio che non gli è più soltanto accanto, ma è presente in lui, nella sua interiorità, nell’istante decisivo della scelta morale. È, questo, un segno importante e significativo dell’originalità della fede biblica: la «nuova alleanza» del cuore fa vivere l’uomo della stessa vita di Dio, con un cuore che batte all’unisono con quello divino. L’«alleanza» è, quindi, un simbolo capitale per la teologia biblica.
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Questa è la rubrica "Lampada dei miei passi" che il cardinale Gianfranco Ravasi tiene ogni mese su Jesus.
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