Massimo Recalcati "Su quel tavolone le paure dello zar"
La Stampa, 7 marzo 2022
Stiamo vedendo le immagini brutali della guerra in Ucraina. È lo strazio che accompagna ogni
guerra: morti, feriti, città devastate. Ma accanto a queste immagini abbiamo anche visto il tavolo di
Putin. Pur essendo espressione di potenza, queste immagini, diversamente da quelle della guerra,
appaiono fredde, austere, quasi asettiche. L’imponente tavolo di Putin appare in una stanza che non
ha finestre, in uno spazio sproporzionato, vuoto, sterile come una smisurata camera operatoria
d’ospedale. È un tavolo che ribalta ogni criterio di convivialità. Putin appare al suo centro
mantenendo i suoi interlocutori rigorosamente a distanza. Mentre la seduta attorno a un tavolo
rivela di solito la disponibilità al dialogo e alla condivisione – nella nostra lingua si dice, infatti,
“sediamoci a un tavolo” come sinonimo della volontà di confrontarsi -, il tavolo di Putin è fatto
invece per preservare la superiorità e, al tempo stesso, l’isolamento del leader. È fatto per
distanziare e non per avvicinare. Ma il distanziamento quando appare, come in questo caso,
sovradimensionato è, in realtà, il segnale più evidente della percezione di una minaccia incombente.
Il pericolo s’insinua ovunque, finanche nella propria fortezza.
Il tavolo di Putin rivela un dittatore che per difendere il proprio potere personale si concede solo a
distanza. Ma il distanziamento come difesa implica inevitabilmente anche l’isolamento. Questo
tavolo segnala la scissione del suo padrone dal resto del mondo. Non solo dall’Occidente, dalla
Nato, eccetera, ma anche da coloro che dovrebbero essergli più prossimi. La distanza che egli pone
tra sé e gli altri è l’indice inequivocabile di un solipsismo autocratico che vuole segnalare una
differenza di stato. Il dittatore non si mescola, non entra in contatto con nessuno, non stabilisce
rapporti, la sua parola rifiuta il dialogo, l’intimità non solo dell’amicizia, ma anche della
collaborazione. Egli osserva il mondo dal suo bunker psichico come se il mondo fosse un brulicare
informe e detestabile della vita che non può penetrare nelle stanze senza finestre del suo potere.
Non a caso appartiene alla psicologia di tutti i dittatori istituirsi come un’eccezione assoluta che non
trova limiti nemmeno nelle Leggi dello Stato poiché la sua stessa esistenza coincide con quella
dello Stato. È la totale estraneità dell’autocrazia putiniana da ogni forma di democrazia.
La dialettica della rappresentanza lascia il posto al culto della personalità, alla forza ineguagliabile
di un padre-padrone ordalico che anziché rappresentare la Legge si pone come la sua incarnazione.
Eppure anche lo sguardo di Nerone, come ha mostrato sottilmente Kierkegaard, è sempre
attraversato da una strana melanconia. Il narcisismo maligno dei dittatori fa il vuoto attorno a sé.
Non coincide solamente con l’assoluta affermazione del proprio Io e con la distruzione sistematica
di ogni forma di dissenso, ma rivela una altrettanto malefica spinta autodistruttiva. Il rogo di Roma
può essere assunto come simbolo del triste destino di ogni tirannide. Compiere il passo falso che
denuncia l’opera di morte che regge i fili della propria esaltazione megalomanica, agire per
affermare il proprio impero portando nel proprio inconscio la spinta a realizzare la propria
autodistruzione. È questa doppiezza drammatica a caratterizzare anche clinicamente il narcisismo
più maligno: la strenua e illimitata affermazione di se stessi porta sempre con sé l’inclinazione al
proprio autoannientamento. Non a caso il tavolo di Putin riflette, al tempo stesso, un’impressione di
potenza unita a un’impressione di squallore e di solitudine. Vivere separati dal mondo, chiusi in
stanze senza finestre, barricati nei propri confini, assediati da continui pericoli. Una paranoia
politica che si evidenzia in modo sconcertante anche in coloro che tra noi europei vedono e
plaudono in Putin il fustigatore implacabile delle democrazie liberali d’Occidente, della loro
ingiustizia sociale e della loro corruzione di fondo. Putin è, infatti, in grado di sollevare la nostalgia
(inconscia? conscia?) per un potere che nel nome ideologico del Popolo rifiuta le democrazie
occidentali e la loro indegnità morale.
È il fascino tetro dell’uomo tutto d’un pezzo che caparbiamente non si piega di fronte al potere
dell’Occidente. Il disprezzo di Putin per la democrazia che trova la sua plastica rappresentazione nel
suo abnorme tavolo, è, infatti, (inconsciamente o coscientemente?) condiviso da tutti coloro che tra
noi europei, in piena guerra, insistono nell’attribuire all’Occidente democratico le responsabilità del
dramma che sta stravolgendo il mondo. Ai loro occhi Putin non incarna l’aggressore, ma il peccato
inemendabile dell’impotenza e della natura corrotta della democrazia.