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Enzo Bianchi, Fabio Rosini, Ludwig Monti, Paola Radif "Commenti Vangelo 27 marzo 2022"

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Commento al Vangelo della domenica e delle feste 
di Enzo Bianchi fondatore di Bose

Un padre che ama anche il figlio che lo vuole morto
27 marzo 2022 
IV domenica di Quaresimaanno C

Lc 15,1-3.11-32

¹Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. ²I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». ³Ed egli disse loro questa parabola ¹¹: «Un uomo aveva due figli. ¹²Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. ¹³Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. ¹⁴Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. ¹⁵Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. ¹⁶Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. ¹⁷Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! ¹⁸Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; ¹⁹non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». ²⁰Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. ²¹Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». ²²Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. ²³Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, ²⁴perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa. ²⁵Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; ²⁶chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. ²⁷Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». ²⁸Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. ²⁹Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. ³⁰Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». ³¹Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ³²ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

 

L’itinerario quaresimale che in questo anno liturgico C compiamo attraverso l’ascolto del vangelo secondo Luca è tutto teso all’annuncio della nostra conversione e della misericordia di Dio, che suscita in noi la conversione attraendoci verso “Dio” stesso, che “è amore” (1Gv 4,8.16). Di questa misericordia infinita si fa interprete Gesù con azioni, comportamenti, parole e parabole suscitate alcune volte da quanti non sono giunti a tale conoscenza di Dio, preferendo fermarsi al culto, ai sacrifici, alla liturgia come mezzi per avvicinarsi a lui (cf. Os 6,6).

 

Eccoci così all’inizio del capitolo 15, dove Luca racconta che i pubblicani, cioè coloro che erano manifestamente peccatori, gente perduta, venivano ad ascoltare Gesù. Perché costoro erano attirati da Gesù, mentre fuggivano dai sacerdoti e dai fedeli zelanti? Perché sentivano che questi ultimi non andavano a cercarli, non li amavano, ma li giudicavano e li disprezzavano. Gesù invece aveva un altro sguardo: quando vedeva un peccatore pubblico, lo considerava come un uomo, uno tra tutti gli uomini (tutti peccatori!), uno che era peccatore in modo evidente, senza ipocrisie né finzioni. A questa vista Gesù sentiva com-passione: non giudicava chi aveva di fronte, non lo condannava, ma andava a cercarlo la dov’era, nel suo peccato, per proporgli una relazione, la possibilità di fare un tratto di strada insieme, di ascoltarsi reciprocamente senza pregiudizi (cf. Lc 19,10). Così i peccatori fuggivano dalla comunità giudaica e si recavano da Gesù, il che scandalizzava gli uomini religiosi per mestiere, i quali “mormoravano dicendo: ‘Costui accoglie i peccatori e addirittura mangia con loro!’”.

 

Gesù è dunque costretto a difendersi, e lo fa non con violenza e neppure con un’apologia di se stesso, ma raccontando a questi farisei e scribi delle parabole, per l’esattezza tre: quella della pecora smarrita (cf. Lc 15,4-7), quella della moneta smarrita (cf. Lc 15,8-19) e quella che ascoltiamo nella liturgia, la famosa parabola dei due figli perduti e del padre prodigo d’amore. Cerchiamo di leggerla, ancora una volta, in obbedienza alle sante Scritture e formati dall’insegnamento che ci viene dalle nostre esperienze, dalle nostre storie.

 

Gesù narra la vicenda di una famiglia che, come tutte le famiglie, non è ideale, non è esente dalle sofferenze e dall’“irregolarità” dei rapporti. Essa è composta da un padre (manca però la madre: è morta, o forse assente?) e da due figli, nati e cresciuti nello stesso ambiente eppure capaci di due esiti formalmente diversi, agli antipodi: in realtà, però, entrambi sono accomunati dalla non conoscenza del padre e dalla volontà di negarlo. Ma si badi bene: il padre di questa parabola appare fin dall’inizio altro rispetto ai padri terreni, perché alla richiesta del figlio minore di ricevere in anticipo l’eredità (dunque, in qualche modo, il figlio lo vuole già morto!), risponde lasciandolo fare, senza ammonirlo, senza contraddirlo, senza metterlo in guardia. C’è tra noi umani un padre così? No! Siamo dunque subito portati a vedere in questo padre il Padre, cioè Dio stesso, l’unico che ci lascia liberi di fronte al male che vogliamo compiere, che non ci ferma ma tace, lasciandoci allontanare da sé. Perché? Perché Dio rispetta la nostra autonomia e la nostra libertà. Ci ha dato l’educazione attraverso la Legge e i Profeti, ma poi ci lascia liberi di decidere come vogliamo.

 

È così che il padre della parabola divide tra i due figli l’eredità, o meglio – come dice il testo greco – “la sua vita” (ho bíos), e lascia partire il figlio minore, mostrandogli, anche se costui certamente non lo capisce, rispetto della sua libertà, gratuità, amore fedele. Il figlio minore esige, reclama, rivendica, forza la mano al padre, e quest’ultimo risponde in modo sorprendente: tutto il suo atteggiamento lo mostra come inoperoso, quasi assente, per rispetto della libertà del figlio. Il figlio, dunque, se ne va finalmente fuori da quella casa che sentiva come una prigione, lontano dallo sguardo di quel padre che sentiva come uno spione, via da quello spazio che doveva condividere con il padre e con il fratello maggiore e che non sentiva come proprio.

 

Se ne va, ma presto dissipa tutto in feste con amici, giochi, prostitute, rimanendo così senza soldi, fino a doversi mettere a lavorare per sopravvivere. Finisce addirittura per fare il mandriano di porci, animali impuri, disprezzati dagli ebrei, e in quella desolazione comincia a capire meglio dove si può andare a finire… Così “cominciò a trovarsi nel bisogno” (érxato hystereîsthai): gli manca qualcosa, e la mancanza di qualcosa è sempre capace di suscitare in noi delle domande. Cosa gli manca? Certo i soldi spesi, certo il cibo per vivere, ma gli manca anche qualcuno accanto, qualcuno che gli dia da mangiare, “qualcuno che” – dice il testo – “gli porga le carrube”, facendogli sentire riconoscimento e cura! È così, noi abbiamo bisogno dell’altro, e quando gli altri scompaiono dal nostro orizzonte siamo desolati e senza gli altri ci incamminiamo verso la morte.

 

A partire dall’esperienza di questa condizione degradata, uguale a quella degli animali, il figlio minore comincia a rientrare in se stesso, a prendere consapevolezza della propria situazione. Non è uno che si converte, ma in lui c’è ormai il desiderio di dire “basta” a quella condizione di fame e desolazione. Pensa allora come poter tornare indietro e ritrovare la condizione di prima, a casa sua, convincendo il padre a dargli almeno da mangiare: farà il servo e così si assicurerà il vitto; meglio a casa da servo, che qui da maiale… Ritorna, dunque, cercando di immaginare la scena che reciterà al padre, per placare la sua collera e farsi riammettere in casa. Non è pentito, non è mosso da amore verso il padre, ma solo dall’interesse personale.

 

Ma ecco che qui inizia un cammino pieno di sorprese, perché finalmente il figlio conosce il padre in modo diverso da come l’aveva conosciuto quando viveva con lui. Egli pensa che il padre lo chiamerà a rendere conto delle sue malefatte, e invece trova il padre che gli corre incontro; pensa di doversi sottomettere al castigo, diventando schiavo, e invece il padre lo veste con l’abito del figlio; pensa che dovrà piangere e umiliarsi, e invece è il padre a imbandire per lui un banchetto, facendo uccidere il vitello ingrassato; pensa che dovrà stare ai piedi del padre come un penitente, e invece il padre lo abbraccia e lo bacia. Si noti che il padre non si preoccupa se il figlio manifesta un vero pentimento, una vera contrizione. Non lo lascia parlare, lo abbraccia stretto, gli impedisce gesti penitenziali ed espiatori, e così gli mostra il suo perdono gratuito. Proprio come aveva profetizzato Osea: Dio continua ad amare il suo popolo mentre questi si prostituisce, e, appena può, lo riabbraccia e lo riprende (cf. Os 1,2; 11,8-9). Sì, questo padre era altro da come il figlio minore lo aveva conosciuto stando a casa e poi fuggendo lontano: ed è come se questa scoperta lo risuscitasse, lo rimettesse in piedi, gli desse la possibilità di una nuova vita in comunione con lui.

 

La parabola potrebbe concludersi qui, e l’insegnamento di Gesù sarebbe completo: finalmente il figlio ha conosciuto il vero volto del padre, volto di misericordia, amore fedele che non viene mai meno, amore senza fine… E invece c’è un seguito: i peccatori sono invitati dalla prima parte della parabola a conoscere il vero volto di Dio e quindi a sentirsi perdonati a tal punto da convertirsi; ma i giusti, o meglio quelli che si credono giusti e buoni, come il figlio maggiore che è restato fedelmente in casa, che ne è di loro? La parabola contiene un insegnamento anche per loro, cioè per il figlio maggiore. Eccolo entrare in scena mentre, da ragazzo bravo, diligente e volenteroso, ritorna dai campi dove ha lavorato. Egli sente il rumore di musica e danze provenire dalla casa e si chiede il perché di tutto ciò; è un servo a spiegargli come sono andate le cose: “Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. In risposta, egli non sa fare altro che adirarsi, ripromettendosi di non prendere parte a una festa per lui tanto ingiusta.

 

Se ne sta dunque fuori, ed è il padre a uscire ancora una volta, facendosi incontro anche a lui: lo prega di entrare per partecipare alla gioia del fratello che era come morto, ma ora è un uomo nuovo. Inutile, le parole del padre lo infastidiscono ancora di più: com’è possibile – egli pensa –, c’è una giustizia che deve regnare! Suo fratello (anzi, egli rivolgendosi al padre dice con disprezzo: “Questo tuo figlio…”) se n’è andato, ha sperperato tutto con amici e prostitute, ha goduto e gozzovigliato, mentre egli a casa ha dovuto mandare avanti la campagna e la cascina. E adesso, com’è possibile festeggiare quello che è tornato, quando mai è stato festeggiato lui, rimasto fedelmente a casa? Così nel suo cuore risuona come reazione una parola: “Non è giusto!”. Appare dunque chiaro che anche questo figlio, il maggiore, pur essendo restato accanto al padre, non lo aveva mai conosciuto, non aveva mai letto il suo cuore, non aveva mai messo fiducia in lui e da lui non aveva imparato nulla: per questo giudica e condanna! Era rimasto in una casa che, come per suo fratello, era una prigione; era rimasto accanto a un uomo, suo padre, che mai aveva conosciuto in verità. È il padre a doverglielo svelare: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, potevi liberamente prenderti un capretto per fare festa con i tuoi amici. Perché non l’hai fatto? Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

 

Questa è davvero la parabola dell’amore frustrato di quel padre che ha amato fino alla fine (cf. Gv 13,1), totalmente, gratuitamente, e che invece è apparso un padre-padrone in virtù delle proiezioni che entrambi i figli hanno fatto su di lui. Capita sempre così quando il Padre è Dio, sul quale proiettiamo le nostre immagini; capita così a volte anche nei rapporti tra i padri e i figli di questo mondo. L’unica differenza è che l’amore di Dio è preveniente, sempre in atto, mai contraddetto, fedele e misericordioso, il nostro invece… Per il fratello maggiore resta il compito di non dire più al padre: “questo tuo figlio”, bensì: “questo mio fratello”. È un compito che ci attende tutti, ogni giorno. Affermare che l’uomo è figlio di Dio è facile, e tutti gli uomini religiosi lo fanno, perché hanno cara la teologia ortodossa. È invece più faticoso dire che l’uomo è “mio fratello”, ma è esattamente questo il compito che ci attende. Dio, il Padre, resta fuori dalla festa, accanto a ciascuno di noi, e ci prega: “Di’ che l’uomo è tuo fratello, e allora potremo entrare e fare festa insieme”.


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Don Fabio Rosini, direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma, 

commenta il Vangelo del 27 marzo 2022, IV domenica di Quaresima Anno C.



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IV domenica di Quaresima Anno C

Lc 15,1-3.11-32

 Il Padre prodigo d’amore

Ludwig Monti, biblista

  

Quando il figlio minore era ancora lontano, il padre lo vide, fu preso da viscerale compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.


Il figlio maggiore si adirò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a supplicarlo.


Questo è il nostro Dio, il Padre narrato a noi definitivamente e una volte per tutte da Gesù (cf. Gv 1,18). Un Dio che ci attende, ci cerca, ci corre incontro, ci ama con tenerezza, addirittura ci supplica di accogliere il suo amore: lo avrà capito, senza banalizzarlo, il figlio minore? Sarà entrato alla festa il fratello maggiore?

In questa straordinaria e notissima parabola – forse la parabola per eccellenza – Gesù indugia nel raccontarci il sentire del Padre per insegnarci che l’iniziativa spetta a lui, che è Dio il vero protagonista della storia con noi suoi figli e figlie. Noi pecchiamo (cioè sbagliamo ad amare) in molti modi, tipizzati da Gesù nei personaggi dei due fratelli. Quando ci va bene – anche se ci ostiniamo a non volerlo capire – le nostre cadute sono pubbliche, visibili a tutti; allora forse siamo spinti dalla vergogna a cambiare strada, a ritornare sui nostri passi. Come diceva un monaco medioevale: “Noi ci vergogniamo di fare ciò che non è bene che altri vedano” (Guigo I, Pensieri 2); ma se non lo vedono… Più spesso pecchiamo di nascosto, fingendo all’esterno di essere ciò che non siamo, e la speranza di uscire da tale menzogna è affidata al rimorso che prima o poi dovrebbe fare capolino nella nostra coscienza. Qui, però, il percorso è più lento e accidentato, e quasi sempre lo iniziamo troppo tardi…

In ogni caso, Gesù sposta l’accento, ribalta il nostro modo abituale di vedere le cose e presenta la conversione del peccatore dalla parte di Dio: non l’uomo davanti a Dio, ma Dio davanti all’uomo. È il Padre che offre un perdono unilaterale, che desidera fare festa, che sente come una necessità impellente la celebrazione della festa condivisa di fronte al miracolo di un figlio che “era perduto ed è stato ritrovato”. Non c’è un figlio prodigo, ma un Padre prodigo d’amore! Il cambiamento di prospettiva operato da Gesù è molto sottile, ma è proprio su questo sottile discrimine che si gioca l’intera nostra relazione con Dio. Si gioca cioè sull’immagine che noi abbiamo di Dio: quella narrata da Gesù o quelle che volta per volta ci costruiamo a nostro piacimento, per motivi che cambiano a seconda della nostra volubilità quotidiana?

Con il suo andare a cercare i peccatori e con il suo raccontare in questa parabola il volto di Dio che lo spinge a vivere come ha vissuto, Gesù pone davanti ai nostri occhi una verità che si scontra con meccanismi ben radicati nel nostro cuore. Ci dice che noi credenti dobbiamo smettere di ritenere Dio responsabile delle nostre azioni (quello che fanno in modo diverso i due figli) per poi cercare di ingraziarcelo con doni e sacrifici che lui non vuole, che mai ci ha chiesto. Gesù ci insegna a fare proprio il contrario: vuole farci capire che Dio ci dona tutto, ma proprio tutto, e che ci ama per primo, incondizionatamente; la nostra responsabilità è quella di accogliere il suo dono gratuito, dunque di vivere di conseguenza. Ma senza questa comprensione e questa accoglienza è per noi molto arduo vivere in modo libero, dunque responsabile. Il problema serio è che questa non comprensione posta alla radice non la paghiamo solo noi, ma soprattutto la facciamo pagare agli altri. Come? Sotto la forma di frutti cattivi, ossia con pretese e forme di violenza che rivelano in modo palese, proprio mentre cercano di mascherarla, la debolezza che ci ostiniamo a non voler guardare in faccia. È sempre colpa degli altri… fino all’Altro, Dio.

Ma Gesù è venuto per spezzare questi circoli viziosi e per cambiare l’aria viziata dei nostri cuori con l’aria fresca del volto di Dio, il Padre suo e Padre nostro. È venuto per insegnarci che il vero peccato è quello di non riconoscersi peccatori, inganno che ci rende impermeabili alla misericordia gratuita di Dio. “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Davvero, Gesù è venuto per consegnarci la buona notizia del volto di Dio. Ancora oggi egli ci cerca, esce incontro a noi e ci supplica di fare l’unica cosa necessaria: accogliere il volto di Dio che egli racconta, accogliere il perdono di Dio che solo ci può convertire e ci può rendere giusti, cioè suoi figli amati e giustificati.


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QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

Vangelo: Lc 15, 1-3; 11-32


Provocato dalle insinuazioni e dalle critiche dei farisei: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”, Gesù si pronuncia per chiarire, se mai ancora ce ne fosse bisogno, il suo pensiero sul tema del peccato e del perdono. Scaturisce in questo contesto la parabola del padre misericordioso, o del figlio prodigo, tratta dal capitolo 15 dell'evangelista Luca che ne raccoglie altre due: la pecora smarrita e la dracma perduta. Sono tutti racconti legati da un elemento comune: la gioia del ritrovamento di ciò che era perduto o grandemente atteso. Non si dà pace il pastore finchè non riesce a trovare la pecora che si è avventurata tra balze e dirupi, non spegne la lucerna né smette di spazzare in ogni remoto angolo della casa la donna che ha perso una moneta, preziosa o no, certo a lei molto cara e tanto più si scioglie in un indescrivibile abbraccio la lunga attesa del padre di cui parla il vangelo odierno.

La parabola è molto nota, e proprio per questo rischia di essere banalizzata, mentre la ricchezza degli spunti che contiene obbliga a coglierne solo alcuni, tralasciandone altri non meno importanti. Il figlio parte, si allontana, poi dopo innumerevoli peripezie ritorna pentito. E l'altro figlio? C'è una seconda storia, completamente diversa, nella stessa parabola, che non è possibile analizzare in questo commento pur essendo anch'essa altrettanto interessante.

Il racconto di Gesù è rivolto a coloro che mormorano contro di Lui perchè rompe gli schemi di una rigida osservanza della Legge, per offrire una nuova regola di vita: la misericordia come metro di giudizio di fronte all'errore. E' questo il criterio con cui il padre della parabola interpreta il comportamento del figlio, ed è questo il metro di Dio, che si nasconde dietro il personaggio, appunto, del padre misericordioso proposto da Gesù.

Nel figlio che decide di partire, alla ricerca di una libertà che sembra mancargli nella casa paterna tra giornate scandite da orari, lavoro, responsabilità e doveri, possiamo riconoscere chiunque di noi. Quale giovane infatti non ha mai pensato o desiderato talvolta di fare nuove esperienze, forse allontanandosi da una monotona routine, per sentirsi finalmente libero? Il fatto è che ciò che si trova altrove può rivelarsi tutt'altro che liberante, diventando invece un vincolo che rende schiavi, trasformando in vittime di legami, errori, vizi: una situazione ben peggiore di quella originaria. Il giovane del vangelo, consapevole del suo errore, ha saputo intervenire nella sua vita spirituale che gli si stava pian piano, quasi inavvertitamente, sgretolando. Ha riconosciuto di aver sbagliato e se ne è pentito. Si è messo in viaggio a ritroso verso casa. Lì ha trovato non un giudice né l'umiliazione di una dura sentenza sul suo operato, ma semplicemente un padre, suo padre, che non aveva mai smesso di aspettarlo.


Interrogarsi

Oggi ci vogliamo rivolgere ai bambini della Prima Confessione.

A tutti può capitare di sbagliare, ad ogni età.

Ho risposto male a papà e mamma: non credevo di farli soffrire.

Ho detto una bugia perchè mi sembrava il modo più semplice per cavarmela.

Ho preferito disubbidire per poter fare quello che volevo.

L'elenco può allungarsi all'infinito, tante sono le sfaccettature dell'animo umano al momento delle decisioni. Per ritrovare la pace interiore nell'amicizia con Dio, il problema che accomuna gli esempi descritti e moltissimi altri ha una sola soluzione: il pentimento.

Il figlio del vangelo riconosce il suo errore, solo ora capisce che il suo gesto di andarsene ha creato dolore al padre perciò si pente e corre da lui per chiedere il suo perdono. Il padre non vuole sapere perchè l'ha fatto, né gli fa pesare il suo errore rinfacciandogli la lunga e dolorosa attesa. In un silenzio carico di commozione un abbraccio li avvolge e tutto è dimenticato. Tanti pittori hanno raffigurato nei loro quadri il momento di questo incontro che può diventare un pro-memoria per noi quando pensiamo che Dio forse non vorrà perdonarci. Questo non accadrà mai.

                                                                                  

                                                                                                   Paola  Radif

pubblicato su Il Cittadino - Settimanale della diocesi di Genova del 27 marzo 2022 

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