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Enzo Bianchi, Fabio Rosini, Ludwig Monti, Paola Radif "Commenti Vangelo 20 marzo 2022"

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Commento al Vangelo della domenica e delle feste 
di Enzo Bianchi fondatore di Bose

Dio non castiga mai e aspetta la conversione
20 marzo 2022 
III domenica di Quaresimaanno C

Lc 13,1-9

¹In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. ²Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? ³No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai»».

 

Dopo le prime due domeniche di Quaresima, che fanno sempre memoria delle tentazioni di Gesù nel deserto e della sua trasfigurazione sul monte, la chiesa ci fa percorrere un itinerario diverso in ogni ciclo. Quest’anno (ciclo C), seguendo il vangelo secondo Luca, il tema dominante nei brani evangelici è quello della misericordia-conversione, cammino da rinnovarsi soprattutto nel tempo di preparazione alla Pasqua.

 

Questa pagina contiene due messaggi: il primo sulla conversione, il secondo sulla misericordia di Dio. Gli ascoltatori di Gesù sono stati raggiunti da una notizia di cronaca, relativa a una strage avvenuta in Galilea: mentre venivano offerti sacrifici per chiedere a Dio aiuto e protezione, la polizia del governatore Pilato aveva compiuto un eccidio, mescolando il sangue delle vittime offerte con quello degli offerenti. I presenti vogliono che Gesù si esprima sull’oppressivo e persecutorio dominio romano, sulla situazione di quei galilei forse rivoluzionari, sulla colpevolezza di quei loro concittadini che erano stati massacrati tragicamente. La mentalità corrente, infatti, considerava ogni disgrazia avvenuta come castigo per una colpa commessa.

 

Ma Gesù, che dà un giudizio negativo sui dominatori di questo mondo – i quali opprimono, dominano e si fanno chiamare benefattori (cf. Lc 22,25 e par.) –, risponde coinvolgendo l’uditorio su un altro piano, indicando come decisiva non la morte fisica ma l’ora escatologica. Dice infatti: “Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Egli replica sul piano della fede e della conoscenza di Dio. È come se dicesse: “Voi pensate che il peccato commesso dall’uomo scateni automaticamente il castigo da parte di Dio, ma non è così. In tal modo date a Dio un volto perverso!”. Gesù, infatti, sa che ogni essere umano è abitato in profondità da un ancestrale senso di colpa, che emerge prepotentemente ogni volta che accade una disgrazia o appare la forza del male. Quando ci arriva una malattia, quando ci capita un fatto doloroso, subito ci poniamo la domanda: “Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo?”. È radicata in noi la dinamica ben espressa dal titolo del celebre romanzo di Fëdor Dostoevskij, “delitto e castigo”: dove c’è il delitto, il peccato, deve giungere il castigo, la pena, pensiamo…

 

Gesù vuole distruggere questa immagine del Dio che castiga, tanto cara agli uomini religiosi di ogni tempo, in Israele come nella chiesa. Per farlo, menziona lui stesso un altro fatto di cronaca, non dovuto alla violenza e alla responsabilità umana, ma accaduto per caso, e lo accompagna con il medesimo commento: “Quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Qual è dunque il cammino indicato da Gesù? Innanzitutto egli ci insegna ad avere uno sguardo diverso sulla vita: ogni vita è precaria, è contraddetta dalla violenza, dal male, dalla morte. Dietro a questi eventi non bisogna vedere Dio come castigatore e giudice – perché Dio potrà eventualmente fare questo solo nel giudizio finale, quando saremo passati attraverso la morte – ma discernere le nostre fragilità, i nostri errori inevitabili, la precarietà della vita. Nessuno è tanto peccatore da meritare tali disgrazie inviate da Dio, il quale non è uno spione in attesa di vedere il nostro peccato per castigarci! Tra peccato commesso e responsabilità nella colpa c’è però una relazione che sarà manifestata nel giudizio finale.

 

Quelle uccisioni e quelle morti sono comunque un segno di un’altra morte possibile, che attende chi non si converte, perché chi continua a fare il male cammina su una strada mortifera e, di conseguenza, si procura da solo il male che incontrerà già qui sulla terra e poi nel giudizio ultimo di Dio. Oltre la morte biologica del corpo, che ci può sempre sorprendere, c’è un’altra perdizione, eterna, provocata dal male che scegliamo di compiere nella nostra vita. Gesù, come profeta, non fornisce dunque una spiegazione teologica al male ma invita alla conversione. Non si dimentichino i significati di questa parola. Secondo l’Antico Testamento convertirsi (shuv/teshuvah) significa “tornare”, cioè ritornare al Signore, ritornare alla legge infranta, per rinnovare l’alleanza con Dio. Il cammino richiesto riguarda la mente e l’agire e si manifesta anche come pentimento/penitenza nel tempo presente, ultimo spazio prima del giudizio. Per questo Gesù ha predicato: “Convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15; cf. Mt 4,17), ovvero “convertitevi credendo e credendo convertitevi”. Gesù è un profeta e, come tale, sa che gli umani sono peccatori, commettono il male; per questo chiede loro di aderire alla buona notizia del Vangelo e di accogliere la misericordia di Dio che va loro incontro, offrendo il perdono.

 

E affinché i suoi ascoltatori comprendano la novità portata dal Vangelo, Gesù racconta loro una bellissima parabola. Un uomo ha piantato con fatica un fico nella propria vigna e con tanta fiducia ogni estate viene e cercare i suoi frutti ma non ne trova, perché quell’albero pare sterile. Spinto da quella delusione ripetutasi per ben tre anni, pensa dunque di tagliare il fico, per piantarne un altro. Chiama allora il contadino che sta nella vigna e gli esprime la sua frustrazione, intimandogli di tagliare l’albero: perché deve sfruttare inutilmente il terreno e rubare il nutrimento ad altre piante? Tutti noi comprendiamo questa decisione del padrone della vigna, ispirata dal nostro concetto di giustizia retributiva e meritocratica: non si paga chi non dà frutto, mentre gli altri si pagano proporzionalmente al frutto che ciascuno dà!

 

Ma il contadino, che lavora quella terra, ama ciò che ha piantato, sarchiato, innaffiato e concimato. Il vignaiolo, si sa, ama la vigna come una sposa; per questo osa intercedere presso il padrone: “Signore (Kýrie), lascia il fico per un altro anno, perché io possa ancora sarchiarlo e concimarlo, con una cura più attenta e delicata. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, tu lo taglierai!”. Straordinario l’amore del vignaiolo per il fico: ha pazienza, sa aspettare, gli dedica il suo tempo e il suo lavoro. Promette al padrone di prendersi particolare cura di quell’albero infelice; in ogni caso, lui non lo taglierà, ma lo lascerà tagliare al padrone, se vorrà: “Tu lo taglierai, non io!”. Questo “tu lo taglierai” è un’ulteriore intercessione, che equivale a dire: “Io sono pronto ad aspettare ancora e ancora che esso dia frutto”. Qui stanno l’una di fronte all’altra la giustizia umana retributiva e la giustizia di Dio, che non solo contiene in sé la misericordia, ma è sempre misericordia, pazienza, attesa, sentire in grande (makrothymía). Il contadino accorda la fiducia, sa aspettare i tempi degli altri.

 

Questo contadino è Gesù, venuto nella vigna (cf. Lc 20,13 e par.) di Israele vangata, liberata dai sassi, piantata da Dio come vite eccellente: “e Dio aspettò che producesse uva” (Is 5,2)… Sì, è venuto il Figlio di Dio nella vigna, si è fatto vignaiolo tra gli altri vignaioli, ha amato veramente la vigna e se n’è preso cura, innalzando per lei intercessioni in ogni situazione, ponendosi tra la vigna-Israele e il Dio vivente, facendo un passo, compromettendo se stesso nella cura della vigna, aumentando il suo lavoro e la sua fatica per amore della vigna, facendo tutto il possibile perché dia frutto e viva. È stando “in medio vineae”, in mezzo alla vigna, che dice a Dio: “Lasciala, lasciala ancora, attendi i suoi frutti; io, intanto, me ne assumo la cura, che è responsabilità!”. Così la vigna-Israele e la vigna-chiesa, a volte colpite dalla sterilità, sono conservate anche quando non danno i frutti sperati da Dio, perché Gesù il Messia è il vignaiolo in mezzo a loro (cf. Gv 15,1-8), è il loro sposo (cf. Lc 5,34-35 e par.) e sa attendere con quell’attesa che è la “pazienza di Cristo” (2Ts 3,5).

 

Giovanni il Battista aveva predicato: “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,9; Mt 3,10). Ciò avverrà alla fine dei tempi, nel giorno del giudizio, ma ora, nel frattempo, Gesù continua a dire a Dio: “Abbi pazienza, abbi misericordia, aspetta ancora a sradicare il fico. Io lavorerò e farò tutto il possibile perché esso porti frutto”. Attenzione però: il frattempo termina per ciascuno di noi con la morte.


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Don Fabio Rosini, direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma, 

commenta il Vangelo del 20 marzo 2022, III domenica di Quaresima Anno C.



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III domenica di Quaresima Anno C

Lc 13,1-9

 se no, tu lo taglierai. Non io.

Ludwig Monti, biblista

  

Siamo giunti alla terza domenica di quaresima e il cammino quaresimale, dopo averci presentato Gesù tentato dal demonio nel deserto e avercelo fatto contemplare trasfigurato sull’alta montagna, ci chiede di meditare e predisporre tutto in vista della conversione. La conversione, il cambiamento della vita, il ritornare a Dio è il messaggio contenuto, in varia forma, nelle letture di questa domenica e delle due successive. Questo mutamento, cui siamo chiamati, può avvenire soprattutto a causa della misericordia di Dio, del suo perdono che sempre previene ogni nostro passo di ritorno a lui. La coscienza del credente biblico è quella di chi sa che, pur volendo, in realtà non sempre è capace di conversione. Per questo invoca: “Fammi ritornare, Signore, e io ritornerò a te” (cf. Ger 31,18; Lam 5,21); la conversione è suscitata non tanto da una decisione nostra, quanto dalla contemplazione della misericordia del Signore che ci converte.

Lo dice bene l’orazione colletta di questa domenica:


O Dio, fonte di tutte le misericordie e di ogni bontà, …

guarda a noi che confessiamo la nostra miseria

affinché, piegati dalla conoscenza delle nostre colpe,

siamo sollevati dalla tua misericordia.


Miseria nostra e misericordia di Dio, qui c’è il tutto di questa orazione, che indica il fine del cammino quaresimale: giungere alla conoscenza di ciò che abita il nostro cuore; e, giunti lì, invocare la misericordia di Dio. A ben guardare l’unica cura, la sola efficace medicina per il nostro peccato è la misericordia di Dio. Ebbene, i brani evangelici di questa annata C in questa e nelle prossime due domeniche vogliono proprio darci un annuncio della misericordia di Dio: oggi con il brano che abbiamo ascoltato, domenica prossima con la parabola dei due figli (cf. Lc 15,1-3.11-32) e infine con il vangelo del perdono donato da Gesù alla donna adultera (cf. Gv 8,1-11).

A commento del brano odierno, complesso sotto una falsa apparenza di facilità, mi avvalgo di un contributo ben più sapiente del mio, quello di don Bruno Maggioni. Mi sia concessa, per una volta, una sua citazione più lunga del solito, solo lievemente ritoccata qua e là. “Il breve passo di Luca si divide in due parti – un appello alla conversione (13,1-5) e la parabola del fico sterile (13,6-9) – che trovano il loro punto di incontro nel tema della conversione. L’avvertimento alla conversione è dato in forma solenne (‘Io vi dico...’) e come condizione indispensabile per sfuggire al giudizio di Dio (‘Se non vi convertirete, perirete tutti’). Luca non è anzitutto interessato al contenuto della conversione: preferisce renderci consapevoli che il giudizio di Dio è incombente.

Mentre Gesù sta parlando, qualcuno lo mette al corrente di una notizia sconvolgente: un gruppo di giudei, probabilmente rivoluzionari zeloti, sono stati massacrati da Pilato mentre stavano compiendo il sacrificio. Nel ricordo di tutti è ancora viva un’altra disgrazia: diciotto operai che lavoravano per il tempio sono stati sepolti sotto il crollo di una torre. La gente ragionava (e ancora ragiona!) così: se Dio li ha castigati, vuol dire che essi erano peccatori. Ma non è questo per Gesù il modo di interpretare gli eventi. Quegli uomini – precisa – non erano peggiori degli altri. Il giudizio di Dio non è per alcuni, ma per tutti; non è per gli altri, ma per sé stessi.

La parabola del fico sterile, pur nella sua brevità, è ricca di motivi. C’è il motivo della sterilità delle guide religiose di Israele. C’è, in contrapposizione, il motivo della pazienza di Dio e della sua misericordia. C’è anche un terzo motivo, che parrebbe contraddire il precedente: l’urgenza, da intendere nel modo giusto. La constatazione che il tempo si prolunga induce a pensare che il giudizio di Dio sia inesistente. In realtà questo tempo che si prolunga è un segno di misericordia. Il tempo si prolunga per permetterci di approfittarne, non per giustificare il rimando o l’indifferenza. … Luca ci parla dunque della necessità della conversione, di fronte al giudizio di Dio che incombe. Ma che significa convertirsi? Il verbo privilegiato dalla Bibbia ebraica per indicare la conversione è ‘cambiare strada, tornare indietro’. Il Nuovo Testamento ha voluto essere più preciso, usando epistréfein per indicare il mutamento esteriore, il mutamento nel comportamento, e metanoeín per indicare la mutazione interiore, il cambiamento di mentalità. Il termine che Luca usa nel nostro testo è metánoia: egli insiste sul mutamento interiore, sul modo nuovo e diverso di valutare le cose”.

Davvero, non avrei saputo commentare il testo con maggior brevità e sapienza. E aurea semplicità. Insieme a don Bruno, di nuovo buon cammino quaresimale. Sapendo che, in ogni caso, l’ultima parola spetta alla misericordia di Gesù, che così si rivolge al Padre: “Signore, lascia il fico ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, tu lo taglierai”. Non io.


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TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

Vangelo: Lc 13, 1-9


Col vangelo di oggi ci troviamo davanti a due fatti di cronaca dei tempi di Gesù, noti a Lui e ai suoi contemporanei: noi non ne conosciamo i particolari. Eppure l'evangelista Luca fa riferimento all'uccisione di alcuni galilei da parte di Pilato e Gesù rincara la dose ricordando la caduta della torre di Siloe, causa di numerose morti. Tutto ciò ha un senso in questo contesto, anche se a prima vista sembra non coinvolgerci direttamente. Gesù, infatti, ne fa un punto di partenza per richiamarci ancora una volta alla conversione.

La domanda, banale, che molti potrebbero porsi, è sempre quella: “Cosa avevano fatto di male coloro che sono stati colpiti da sciagure, da tragici eventi inaspettati?” Gesù pone l'interrogativo per spiegare che non c'è stata, né probabilmente ci sarà mai, una responsabilità personale alla base di qualunque sofferenza possa colpire l'uomo. Ma subito dopo mette in guardia esortando a porsi in un permanente stato di conversione. La posta in gioco è molto alta e la scelta è decisiva: o sfuggire a una rovina e a una morte ben peggiori di quelle patite dalle vittime di tante tragedie umane oppure, in alternativa, di soccombere.

Si deve temere infatti non tanto la prima morte, quella terrena, che pur nella sua svolta decisiva, può introdurre a scenari di vera vita, quanto piuttosto la morte eterna, quella della nostra anima, “la morte secunda” come la definisce S.Francesco nel suo “Cantico delle creature”.

In questa prospettiva ci confortano le parole del vangelo odierno nella parte finale, che aprono alla speranza. Colui che, non trovando frutti sul suo albero di fico, dopo una lunga attesa, decide di tagliarlo, si scontra col parere del suo vignaiolo che da anni se n'è preso cura e ancora propone di dedicargli nuove attenzioni. Zapperà il terreno circostante all'albero, lo concimerà, lo poterà e chissà che l'anno successivo non riprenda vigore donando i frutti di sempre.

Così è Dio con noi: non teme le lunghe attese, se non diamo frutti non ci taglierà, al massimo ci poterà, per irrobustirci, come il fico del vangelo. Attenderà. Ma non dobbiamo deluderlo né scherzare con una prospettiva che ha i contorni dell'eternità. E' in gioco la salvezza della nostra anima.


Interrogarsi

Un incidente, un nubifragio, un terremoto. Catastrofi naturali imprevedibili o azioni umane, errori, distrazioni, un'epidemia.

Quante possono essere le cause di morte improvvisa? A volte evitabili, ma spesso dolorosamente inevitabili. Gesù dice: non sono castighi. Non è colpa di chi le subisce.

Come una torre era crollata uccidendo un certo numero di persone ai tempi di Gesù, così potrebbe essere il crollo spirituale della nostra anima se si lascia distruggere da un comportamento che, piano piano, la può rovinare.

E' meglio fare un po' di manutenzione anche alla parte più spirituale di noi, che è sempre la parte più importante: è immortale!

                                                                                  

                                                                                                   Paola  Radif

pubblicato su Il Cittadino - Settimanale della diocesi di Genova del 20 marzo 2022 

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