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Sinodo e sinodalità. Tempo di conversione, tempo di riforma.

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Affermare, con papa Francesco, che il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio comporta «una revisione dell’identità, configurazione e missione della Chiesa» che dipende strettamente «dal fatto che abbiamo compreso e vogliamo veramente assumere le implicazioni del modello di Chiesa come popolo di Dio come è stato presentato dalla Lumen gentium»: occorre riconoscere «il carattere normativo della categoria “popolo di Dio”». Da questa «nuova ermeneutica» conciliare discende il ripensamento dei modelli decisionali, «in cui l’elaborazione delle decisioni (decision-making) sia vincolante per i pastori (decision-taking)»: la sinodalità, sebbene «si inizi nel camminare e nell’ascoltare, e si realizzi nel riunirsi», si completa solo «nel discernere ed elaborare insieme le decisioni». Non è dunque «il popolo di Dio che deve essere integrato nella gerarchia» partecipando alle strutture episcopali, ma è il vescovo che è chiamato «a situarsi e viversi come uno dei fedeli tra il popolo di Dio, ascoltando la voce di tutti i fedeli», raccogliendo ed esprimendo «il sensus Ecclesiae totius populi e non solo quello dei suoi pari».

Nel suo discorso ecclesiologico più significativo, papa Francesco ha sostenuto che «il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio. Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola “Sinodo”. Camminare insieme – laici, pastori, vescovo di Roma».1 La proposta è una revisione dell’identitàconfigurazione e missione della Chiesa, e non solo di alcuni suoi elementi operativi. Lo ha chiarito alla diocesi di Roma: «Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia (...). La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile e la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale».2

Possiamo riferirci alla sinodalità come a un processo di riconfigurazione delle identità, delle relazioni e delle dinamiche comunicative tra i soggetti ecclesiali, e alle sue conseguenze nella concezione, organizzazione e governo delle istituzioni nella Chiesa. Si tratta di pensare un nuovo «modo di procedere» ecclesiale. Tuttavia, la sua progettazione e attuazione dipenderà dal fatto che abbiamo compreso e vogliamo veramente assumere le implicazioni del modello di Chiesa come popolo di Dio come è stato presentato dalla Lumen gentium, perché da essa deriva l’ermeneutica per una riforma in chiave sinodale. Francesco inaugura una nuova fase nella recezione del Concilio, che riconosce il carattere normativo della categoria «popolo di Dio».

Questa approfondisce l’intenzione di Paolo VI quando, all’apertura della seconda sessione del Vaticano II, sollecitò la Chiesa a cercare una definizione più completa di sé stessa.3 Una riforma in chiave sinodale deve comportare la creazione di un nuovo modello istituzionale che renda possibile la sinodalità.

Riconoscere il punto di rottura

La situazione attuale e il contesto ecclesiale esigono una rottura nel modello teologico-culturale che ha definito la Chiesa per secoli. Il suo paradigma, caratterizzato dal clericalismo, va superato, poiché comporta relazioni gerarchizzate nell’esercizio del potere e in tutto il funzionamento della vita istituzionale. Questa epoca ecclesiale sembra andare verso «un punto di rottura o una svolta»4 del sistema o addirittura un «possibile fallimento istituzionale».5

Pertanto, non è sufficiente rivedere e rinnovare ciò che esiste, ma si tratta di creare qualcosa di nuovo. Come ha sostenuto Congar, «dobbiamo chiederci se l’aggiornamento sarà sufficiente o se è necessario qualcos’altro. La questione si pone nella misura in cui le istituzioni della Chiesa sono state prese da un mondo culturale che non può più inserirsi nel nuovo mondo culturale. I nostri tempi richiedono una revisione delle forme tradizionali che va al di là dei piani di adattamento o di aggiornamento, ma piuttosto comporta una nuova creazione. Non è sufficiente mantenere ciò che è esistito fino ad ora, adattandolo; è necessario costruire di nuovo».6

Le parole di Congar si inseriscono nella dinamica di una Ecclesia semper reformanda.7 Francesco stesso parla di riforma8 come un processo continuo di «conversione ecclesiale» di «tutta la Chiesa». Ecco come l’ha sviluppato nella Evangelii gaudium: «Il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo».9

Ma lo anche ha detto con chiarezza al V Convegno nazionale della Chiesa italiana (Firenze, 10 novembre 2015): la Chiesa è semper reformanda. Ed è una riforma, come descritta nel 2014, di forme di vita che costituiscono tutta una cultura ecclesiale e che devono essere superate, come la trascuratezza dei controlli, la perdita della comunione, l’apparenza di abiti e onori, il carrierismo e l’opportunismo, l’appartenenza a circoli chiusi...10

Il problema è che queste forme ecclesiali derivano da un modello istituzionale, e non sono atteggiamenti isolati, di singoli. Fanno parte di una cultura ecclesiale clericale che ha finito per diventare un ostacolo all’annuncio del Vangelo, come avvertiva il teologo cileno Ronaldo Muñoz nel 1972.11 Il superamento di un tale modello istituzionale comporta «la riforma delle relazioni interne e delle istituzioni».12

Non possiamo cadere nel falso antagonismo di opporre la conversione delle mentalità alla riforma delle strutture.13 Si tratta fondamentalmente di un problema ecclesiologico, perché «siamo ancora lontani dall’aver tratto le conseguenze della riscoperta del fatto che tutta la Chiesa è un solo popolo di Dio, composto dai fedeli con il clero. Abbiamo un’idea implicita che la Chiesa sia fatta di chierici, e che i fedeli siano solo i beneficiari o la clientela. Questa terribile concezione è incorporata in così tante strutture e costumi che sembra essere la cosa più naturale da fare e non può essere cambiata».14

Una nuova fase: intendere la Chiesa come popolo di Dio

Come sostiene Muñoz, un processo di riforma in chiave sinodale presuppone di rivedere «strutture oligarchiche della Chiesa», «l’autoritarismo», «le legittime richieste di uguaglianza e partecipazione», «la mancanza di abitudine alle opinioni divergenti all’interno della Chiesa e la mancanza di canali organici per la loro comunicazione». In breve, è un problema di concezione teologica e di esercizio quotidiano del potere nella Chiesa.15 Qualsiasi soluzione possibile deve coinvolgere una nuova ermeneutica del concilio Vaticano II.

L’emergere di questa nuova ermeneutica inizia con il pontificato di Francesco. Nel 2013 si è riferito alla «Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del popolo di Dio»,16 e nella Evangelii gaudium ha spiegato che, secondo «questo modo d’intendere la Chiesa» il «soggetto dell’evangelizzazione è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio» e «trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale».17

Così, «essere Chiesa significa essere popolo di Dio».18 La realizzazione di questo modello presuppone una risignificazione delle identità ecclesiali e delle modalità di partecipazione alla missione della Chiesa e, di conseguenza, una nuova ermeneutica ecclesiologica basata sullo specifico ordine di sequenza proposto dalla Lumen gentium – prima il popolo di Dio (tutti), poi i vescovi (alcuni) e infine il vescovo di Roma (uno) – che supera la visione esistente di tre soggetti ecclesiali distinti e separati (papa, vescovi e popolo di Dio).

L’intenzione dei padri conciliari era di integrare i vescovi e il papa nella totalità del popolo di Dio, prima di tutto come fedeli o christifideles qualificati da un’ecclesialità in chiave sinodale.19 In questo modo, come si espresse monsignor Joseph De Smedt, è possibile «non cadere in forme di gerarchismo, clericalismo ed episcopolatria o papolatria [perché] quello che viene prima è il popolo di Dio».20

Questo significava rompere con il modello piramidale che privilegia le parti prima del tutto, concependo la gerarchia come un soggetto distinto e separato dal resto del popolo di Dio.21 La mens dei testi conciliari si ispira a questa ermeneutica del tutto che incorpora e qualifica tutti i soggetti ecclesiali all’interno di questa totalità di fedeli, in modo tale che la loro continua e reciproca interazione li costituisce come popolo di Dio – compreso il collegio dei vescovi e il successore di Pietro. Così, il popolo di Dio è l’unico soggetto attivo e fondamentale di tutta l’azione e la missione della Chiesa.

Questa nuova fase della recezione del Concilio emerge dall’architettura proposta nella Lumen gentium:22 la Chiesa, popolo di Dio, che rappresenta la totalità dei fedeli23 e i cui membri sono definiti dalla logica della necessaria reciprocità delle rispettive identità, così come dalla corresponsabilità essenziale per il compimento della missione. L’orizzonte è aperto per una nuova riconfigurazione delle identità e delle relazioni tra i diversi soggetti ecclesiali in modo organico come un «noi ecclesiale», così denominato dalla teologa Serena Noceti.

Si apre la possibilità concreta di realizzare questa visione quando Francesco chiama a costruire una Chiesa in chiave sinodale, perché la sinodalità è il principio operativo e organico che permette sia di ricomprendere l’ecclesiologia come ecclesiogenesi, cercando la trasformazione integrale di tutta la Chiesa, sia di riconfigurare le relazioni e le dinamiche comunicative che si vivono nelle istituzioni ecclesiali.

La sinodalità non è solo una dimensione costitutiva, ma anche costituente, poiché presuppone un immenso movimento ecclesiale che trova il suo fondamento nell’impegno di una corresponsabilità essenziale – e non ausiliaria – propria del modello di Chiesa come popolo di Dio,24 secondo cui «i pastori e gli altri fedeli [sono] legati tra di loro da una comunità di rapporto».25 In una Chiesa popolo di Dio, il «sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico» sono «ordinati l’uno all’altro», ciascuno chiamato «alla santità» e a vivere come una «totalità».26

Una recezione problematica e incompiuta

Il testo e lo spirito del concilio Vaticano II hanno voluto recuperare il significato della Chiesa locale e la sua relazione con la cattolicità di tutta la Chiesa. Tuttavia, la recezione di questa ecclesiologia è stata problematica e incompiuta, così che una riforma sinodale non poteva essere compresa né tanto meno realizzata.

La Lumen gentium riconosce che è «in esse [le Chiese particolari] e a partire da esse che esiste la Chiesa cattolica una e unica» e afferma che «questa varietà di Chiese locali tendenti all’unità dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa».27 Questa cattolicità implica la pienezza che si realizza nelle Chiese locali e nella loro reciproca comunione, presieduta dalla Chiesa di Roma e dal suo vescovo, il papa. Senza questo punto di partenza ecclesiologico, la concezione e l’esercizio del primo livello della sinodalità è impensabile.

Gérard Philips, il principale redattore della Lumen gentium, aveva previsto la centralità di questa ecclesiologia,28 e le molte ripercussioni teologiche ed ecclesiali che avrebbe avuto, perché anche se una Chiesa locale non è la Chiesa intera, è una Chiesa completa.29 Hervé Legrand lo afferma sottolineando che è questo «l’aspetto più nuovo del Vaticano II», perché «oltre all’affermazione che la cattolicità di tutta la Chiesa si nutre della ricchezza delle varie Chiese locali, il Vaticano II affermerà la cattolicità stessa della Chiesa diocesana».30

Tuttavia, dagli anni Ottanta si è favorito il centralismo nella gestione del governo e nello sviluppo della dottrina. I cambiamenti nell’orientamento ecclesiologico furono promossi attraverso nuovi documenti del magistero, come la costituzione apostolica Pastor bonus e il motu proprio Apostolos suos. Con la prima, fu dato un maggior potere al primato, la curia cominciò a produrre la propria teologia e l’autorità delle conferenze episcopali fu relativizzata. Con il secondo, la funzione di insegnamento dei vescovi venne radicata nell’interpretazione ufficiale del magistero universale data dalla Santa Sede.31

E possiamo aggiungere l’Istruzione sui sinodi diocesani, che assesta un duro colpo all’ecclesiologia delle Chiese locali vietando ai sinodi diocesani di offrire dichiarazioni su qualsiasi argomento «discordanti dalla perenne dottrina della Chiesa o dal magistero pontificio».32

A partire dal modello di comunione gerarchica si è voluto riconfigurare l’identità e i modi di relazionarsi propri dei soggetti ecclesiali. Su questa linea la nozione di corresponsabilità è stata assunta sulla base di relazioni ausiliarie e verticali, che hanno ridefinito l’interazione dei laici, del presbiterio e della vita religiosa tra di loro, e di esse con l’episcopato.

Nel 1992, con la pubblicazione della Communionis notio,33 si afferma addirittura che la Chiesa universale è una realtà ontologica e preesistente, allontanandosi dallo spirito e dal testo del Concilio, universalizzando l’identità della vita ecclesiale e rafforzando l’omogeneità istituzionale secondo lo schema teologico-culturale romano. Si stava perdendo l’ecclesiologia di comunione tra le Chiese locali e, di conseguenza, si stava corroborando il centralismo della curia romana. Si privilegiò la communio hierarchica e si relativizzò il significato di communio Ecclesiarum.

Chiesa di Chiese

Se vogliamo sviluppare oggi un’ecclesiologia in chiave sinodale, è necessario riprendere la recezione dell’ecclesiologia delle Chiese locali, per la quale la cattolicità si realizza nel modello di una Chiesa di Chiese, perché «la dimensione sinodale della Chiesa implica la comunione nella Tradizione viva della fede delle diverse Chiese locali tra loro e con la Chiesa di Roma».34 È in questa prospettiva che la Commissione teologica internazionale dichiara che «il primo livello di esercizio della sinodalità si attua nella Chiesa particolare», dato che «i legami di storia, linguaggio e cultura, che in essa plasmano la comunicazione interpersonale e le sue espressioni simboliche, ne delineano il volto peculiare, favoriscono nella sua vita concreta l’esercizio di uno stile sinodale».35

Riconoscendo la centralità del capitolo II della Lumen gentium, si apre un’altra porta che ci permette di vedere l’orizzonte socio-culturale locale come il luogo per realizzare una riconfigurazione più completa della Chiesa, perché il «popolo di Dio si incarna nei popoli della terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura».36 Stiamo parlando del cammino che ogni Chiesa locale dovrà seguire per vivere interiormente un profondo processo di ecclesiogenesi, capace di generare un modo di essere e agire come Chiesa, e uno stile di vita cristiana con sapore e carattere propri.

Il recupero dell’ecclesiologia del popolo di Dio permette così di avvicinarsi alla prassi ecclesiale del primo millennio in cui «le Chiese locali sono soggetti comunitari che realizzano in modo originale l’unico popolo di Dio nei differenti contesti culturali e sociali e condividono i loro doni in un interscambio reciproco per promuovere “vincoli di intima comunione”».37

Pertanto, definire il popolo di Dio come la totalità dei fedeli non significa che esso possa esistere in modo astratto o universalizzabile, ma ricollocarlo orizzontalmente nella sua dimensione socio-culturale, cioè al primo livello dell’esercizio della sinodalità, nella diocesi. Cioè, in ogni portio populi Dei. Quindi la Chiesa è una Chiesa di Chiese che si definisce e si sviluppa alla luce del primo livello di sinodalità.

Per tutte queste ragioni, la sinodalità costituisce la via più appropriata per la genesi di processi di identità e di riconfigurazione teologico-culturale dell’istituzione ecclesiastica, sotto il modello di una Chiesa di Chiese presieduta dal vescovo di Roma e in comunione reciproca.38 È il modo stesso in cui la Chiesa si fa e procede in ogni luogo e si riconfigura in ogni epoca, secondo i segni dei tempi.

Costruire il consenso

La recezione di questa ecclesiologia delle Chiese locali significherà rinnovare la vita ecclesiale attraverso un nuovo modo di procedere ecclesiale che si ispiri in quella prassi di raccolta di orientamenti e discernimento, e in quella costruzione del consenso riassunta nell’antico principio canonistico medievale che afferma: «Ciò che riguarda tutti deve essere trattato e approvato da tutti». La regola d’oro del vescovo san Cipriano offre il quadro interpretativo più appropriato per pensare alle sfide ecclesiali di oggi: «Nihil sine consilio vestro et sine consensu plebis, mea privatim, sententia gerere».39 

Per il vescovo di Cartagine, ricevere consigli e indicazioni dal presbiterio e costruire il consenso con il popolo furono esperienze fondamentali durante tutto il suo esercizio episcopale per mantenere la comunione nella Chiesa. Perciò Cipriano ideò metodi basati sul dialogo e sul discernimento comune, che permettevano la partecipazione di tutti, non solo dei presbiteri, alla deliberazione e al processo decisionale. Il primo millennio offre esempi di una forma Ecclesiae in cui l’uso del potere era inteso come responsabilità condivisa. Una cultura del consenso ridefinisce l’esercizio del potere alla luce dei processi di ascolto, discernimento, elaborazione e decisione, permeando così la Chiesa nelle sue relazioni, le dinamiche comunicative e il funzionamento e governo delle istituzioni.

L’ascolto come dinamica generativa

Per Francesco «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto. (...) È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare (...). È ascolto di Dio, fino a sentire con lui il grido del popolo; ascolto del popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama».40 L’esercizio dell’ascolto è indispensabile in un’ecclesiologia sinodale perché parte dall’assenso all’identità dei soggetti ecclesiali – laici, sacerdoti, religiosi, vescovi, papa – fondata su relazioni orizzontali – di necessaria reciprocità e completamento – che hanno la loro ragione d’essere nella radicalità della dignità battesimale e nella partecipazione al sacerdozio comune di tutti i fedeli.41

La Chiesa nel suo insieme si qualifica attraverso processi di ascolto, in cui ogni soggetto ecclesiale apporta qualcosa che completa l’identità e la missione dell’altro,42 e lo fa a partire da ciò che gli è più proprio.43 Questo orizzonte ci chiama a passare dal modello delle relazioni diseguali, per superiorità e subordinazione, alla logica della «comunità di rapporto» e della complementarietà,44 perché, come dice il teologo canadese Gilles Routhier, «la sinodalità soprattutto permette a tutti di partecipare, secondo il loro rango, a un lavoro comune. Questo concetto assicura dunque una partecipazione ordinata e organica, tenendo conto della diversità dei ruoli».45 

Possiamo dire che essere ascoltati è un diritto di tutti, ma ricevere consigli basati sull’ascolto è un dovere proprio di chi esercita l’autorità, perché «tutti i fedeli sono abilitati e chiamati affinché ciascuno metta al servizio degli altri i rispettivi doni ricevuti dallo Spirito Santo».46

L’ascolto come dinamica trasformativa

Le implicazioni di questa visione sono importanti. La prima riguarda il rinnovamento dell’identità e della missione del ministero gerarchico, «collocando la loro ragion d’essere e il loro esercizio nel popolo di Dio, comprendendo le identità ministeriali dei fedeli nell’orizzonte del “noi ecclesiale”. Questo assegna al ministero gerarchico un carattere di servizio storico-temporale (transeunte), piuttosto che ontologico, e neppure escatologico o autoreferenziale».47 Mons. De Smedt dopo il Concilio disse che «il corpo docente [i vescovi] non si basa esclusivamente sull’azione dello Spirito Santo sui vescovi; deve anche ascoltare l’azione dello stesso Spirito sul popolo di Dio».48

Discernere insieme

Questo implica che i vescovi devono anche essere insieme a tutti per discernere ed elaborare decisioni pastorali. Ciò significa, seguendo il testo di Lumen gentium n. 12, ripreso in Episcopalis communio, che la totalità dei fedeli, «“dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale».49 In gioco non è il sentire del singolo vescovo, ma il sentire di tutta la Chiesa, o meglio il sensus Ecclesiae totius populi. In questo modo, si devono favorire mediazioni istituzionali che rendano possibile non solo l’accettazione e il discernimento dell’ascolto, ma anche che i risultati ottenuti siano vincolanti per i processi di cambiamento necessari al rinnovamento dell’istituzione ecclesiastica.

Se il modo di procedere di una Chiesa sinodale «ha non solo il suo punto di partenza, ma anche il suo punto di arrivo nel popolo di Dio»,50 e se «la sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa che, attraverso di essa, si manifesta e si configura come popolo di Dio»,51 allora l’ascolto è parte di un processo più ampio in cui «tutta la comunità, nella libera e ricca diversità dei suoi membri, è chiamata insieme a pregare, ascoltare, analizzare, dialogare e consigliare affinché le decisioni pastorali siano prese in conformità con la volontà di Dio».52 Da questa serie di relazioni si genera un’atmosfera favorevole alla raccolta di consigli e indicazioni e alla costruzione del consenso, che si tradurrà poi in decisioni. È importante tener conto di tutte le dinamiche comunicative coinvolte in una Chiesa sinodale: «pregare, ascoltare, analizzare, dialogare, discernere e consigliare», perché lo scopo di intraprendere questo cammino sinodale non è semplicemente quello di incontrarsi e conoscersi meglio, ma di lavorare insieme per poter «prendere le decisioni pastorali».53

Riformare i processi decisionali

È fondamentale ripensare i modelli decisionali, poiché sono in gioco la teologia e la pratica della potestas nella Chiesa. Forse si tratta di articolare un modello in cui l’elaborazione delle decisioni (decision-making) sia vincolante per i pastori (decision-taking). Qualsiasi modello deve tener conto che «la dimensione sinodale della Chiesa si deve esprimere attraverso la messa in atto e il governo di processi di partecipazione e di discernimento capaci di manifestare il dinamismo di comunione che ispira tutte le decisioni ecclesiali».54 Ciò comporterà un approfondimento della teologia della fonte e dell’esercizio della potestas nella Chiesa e della sua relazione con il governo o governance.55 

Nel 2007 l’episcopato latinoamericano ha affrontato questa preoccupazione nella Conferenza di Aparecida e ha proposto che «i laici partecipino al discernimento, alla decisione, alla pianificazione e all’esecuzione» di tutta la vita ecclesiale.56 Questo desiderio non si è ancora realizzato completamente. Soprattutto riguardo alla partecipazione effettiva delle donne. In relazione a questa sfida, papa Francesco ha sostenuto nel suo videomessaggio del 10 ottobre 202057 che le donne devono essere coinvolte nella Chiesa nelle posizioni e nei ruoli in cui vengono prese le decisioni e non solo dove vengono attuate. Per questo, sarà necessario insistere per creare nuovi modi di procedere ecclesiali e strutture di potere decisionale condiviso.58

Si tratta di raggiungere un modo di procedere che realizzi il collegamento e la rappresentatività di tutti/e e tra tutti/e sulla base di una nuova cultura ecclesiale del consenso, senza minare l’autorità del ministero gerarchico, ma piuttosto collegandolo nel processo di elaborazione in modo che la decisione assuma o confermi (ratifichi) ciò che è stato preparato e approvato dopo il discernimento e il consenso tra tutti i fedeli.59 Si può dire che, sebbene la sinodalità si inizi nel camminare e nell’ascoltare, e si realizzi nel riunirsi, essa si completa solo nel discernere ed elaborare insieme le decisioni.

San Cipriano proponeva la via dei «consigli collaborativi di vescovi, sacerdoti, diaconi, confessori e anche (...) un numero consistente di laici (...) perché non si può stabilire nessun decreto che non sia ratificato / confermato dal consenso della pluralità».60 Se tutti i fedeli partecipano all’elaborazione delle decisioni, allora la decisione sarà espressione del consilium che la comunità apporta secondo il principio della corresponsabilità essenziale e pastorale, e che il vescovo accoglie e conferma come un con-convocato, anche lui, chiamato a fare e vivere Ecclesia.61 Se non riusciamo a creare un modello istituzionale di discernimento comunitario e consenso ecclesiale, non supereremo «la insufficiente considerazione del sensus fidelium, la concentrazione del potere, l’esercizio isolato dell’autorità, lo stile di governo centralizzato e discrezionale, e la opacità delle procedure normative».62

Verso una sinodalizzazione di tutta la Chiesa

Parlare di sinodalità ci invita a riconoscere che il carattere vincolante del sensus fidei e del consensus omnium fidelium è trasversale a tutta l’istituzione: non è il popolo di Dio che deve essere integrato nella gerarchia partecipando alle strutture episcopali – sinodi o conferenze episcopali –, ma la gerarchia che è chiamata a situarsi e viversi come uno dei fedeli tra il popolo di Dio, ascoltando la voce di tutti i fedeli,63 perché il vescovo deve raccogliere ed esprimere il sensus Ecclesiae totius populi, e non solo quello dei suoi pari, come responsabile della comunione. La sinodalità, pertanto, non può essere limitata a una semplice estensione dell’esercizio della collegialità.

Essa presuppone che l’esercizio della corresponsabilità di tutti i fedeli sia essenziale e vincolante, al fine di realizzare un modello di istituzionalità ecclesiastica che funzioni organicamente attraverso la costruzione del consenso. Il Concilio è stato chiaro nel riconoscere che «quanto fu detto del popolo di Dio sia ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero».64 

Una recezione più chiara di tale passo potrebbe permetterci di andare verso processi di sinodalizzazione basati sul discernimento comunitario e su una cultura ecclesiale del consenso, che riconoscano e incorporino l’identità e la missione dei laici come soggetti pieni nella Chiesa, alla luce della radicalità del battesimo, che conferisce non solo doveri ma anche diritti a tutti i fedeli – christifideles. Altrimenti, le interazioni tra laici e ministri ordinati continueranno a rispondere all’odierno modello subordinante e clericale.
Una nuova prospettiva ispirata dalla recezione dell’ecclesiologia del popolo di Dio dovrebbe riconoscere il principio essenziale della corresponsabilità essenziale di tutti i fedeli: christifideles. Questo genererebbe un processo di sinodalizzazione efficace – effettiva e non solo affettiva – in vista di una riconfigurazione ecclesiale. Bisogna continuare ad aprire strade significative per una reale sinodalizzazione di tutta la Chiesa, perché procedendo in questo modo la Chiesa troverà una forma più completa di essere, vivere e operare. Siamo davanti al primo emergere di una nuova ermeneutica di tutto il concilio Vaticano II che deve essere capace di portare avanti una riconfigurazione istituzionale ispirata a un modello di una Chiesa sinodale sotto la forma di un popolo di Dio in cammino.

La sfida sarà capire che siamo una Chiesa in transizione, in mezzo a un cambio qualitativo epocale ed ecclesiale. È un tempo propizio per ricuperare la dinamica propria della traditio come è stata espressa da Congar: «È necessario rivedere e rinnovare questa o quella forma che serviva per la trasmissione in un altro tempo, ma che oggi costituirebbe un ostacolo alla realtà di questa trasmissione».65

Questo presuppone il superamento degli antagonismi non necessari tra conversione spirituale e riforma strutturale, perché «ci sono state correnti riformiste potenti e ben intenzionate alle quali è mancata maggiore efficacia per essersi fermate eccessivamente nell’ambito spirituale e privato: l’elemento spirituale ha una sua efficacia. È necessario, ma non sufficiente.

C’è, infatti, una densità delle strutture impersonali e collettive di cui bisogna necessariamente tener conto; in caso contrario, le più generose intenzioni di riforma si esaurirebbero nel compito di riavviare incessantemente uno sforzo che sarebbe sempre condannato a una diminuita efficacia, per il fatto che le strutture contrarie erano rimaste intatte».66

Per tutto questo, una nuova riconfigurazione ecclesiale alla luce della sinodalità supporrà che si assuma questa epoca ecclesiale come un tempo di conversione e di riforma.

 

Rafael Luciani *

 

* Teologo laico venezuelano. Docente di Ecclesiologia. Perito della Commissione teologica della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi, perito del Consiglio episcopale latinoamericano (CELAM), membro del Gruppo consultivo teologico della Presidenza della Conferenza latinoamericana dei religiosi (CLAR). Questo testo è stato pronunciato il 6.12.2021 come prolusione dell’anno accademico 2021-2022 dell’Istituto per le scienze religiose della Toscana con il titolo «Sinodo 2021-2023: verso una riforma ecclesiale in prospettiva sinodale»; verrà pubblicato in forma completa sulla rivista dell’Istituto Egeria nel numero 15 del giugno 2022.


Fonte: Il Regno


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