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Il male e Dio: una teodicea altra

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Nuove narrazioni del male

Il male e Dio: una teodicea altra

Andrea Toniolo * 

Perché il male? Questa domanda non ha la stessa forza d’urto di un’altra: perché il bene? 

Diamo per scontato che siamo fatti per il bene, la felicità e non ci interroghiamo quando siamo contenti. Quando invece siamo colpiti dal male, fisico o morale, sorgono domande sull’origine, sul senso, sul perché. 

L’interrogazione assume ineludibilmente una portata religiosa: se Dio è buono, perché esiste il male? Perché il Creatore perfetto ha creato una realtà imperfetta, segnata dal male e dalla sofferenza? Il nostro è veramente il «migliore dei mondi possibili» che egli poteva creare (Leibniz)? Se Dio è onnipotente perché non impedisce la diffusione del male, soprattutto quando assume forme drammatiche quali genocidi, guerre, pandemie? Dov’è la provvidenza divina, che conta anche i capelli del nostro capo e non dimentica nemmeno un piccolo passero (cf. Lc 12,6-7)? Dio ha creato l’uomo libero e non può andare contro la libertà che egli stesso ha creato: ma di fronte a un tiranno che stermina migliaia, milioni di persone, Dio non potrebbe fermare quella libertà malvagia? 

Sono laceranti le domande che sorgono di fronte al male, soprattutto perché fanno emergere la contraddizione di una certa immagine di Dio (onnipotente, immutabile, perfetto) e l’incapacità di pensare insieme l’onnipotenza di Dio e la sofferenza. 

Quando viene chiamato in causa il concetto di Dio di fronte al male parliamo di «teo-dicea», che, come insegna l’etimologia, significa «giustificazione [giustizia] di Dio» di fronte al male. È messo sotto processo Dio stesso. L’inventore del termine – non della questione – è il filosofo tedesco Gottfried W. Leibniz, che ha evidenziato il paradosso: Si Deus est, unde malum? Si non est, unde bonum («Se esiste Dio, perché il male? Ma se Dio non esiste, da dove il bene?»). Aveva distinto tre significati di male: il male metafisico (la finitezza delle creature), il male fisico (la sofferenza) e il male morale (l’azione cattiva). 

La parola «male» implica uno di questi sensi, spesso intrecciati, e non può essere pensato senza chiamare in causa Dio. In un contesto segnato fortemente dalla dimensione sacrale della vita si riconosce la necessità di una teo-dicea. In un contesto, però, come quello attuale e occidentale, non pervaso dal sacro, in cui viene meno il pensiero metafisico e teologico classico, la riflessione sul male da parte della teodicea, così bene interpretata da Leibniz, sembra non convincere. Si colloca su un livello speculativo e religioso, oggi inesistente. Nella post-modernità, segnata dal venir meno del sacro come riferimento portante, la questione «se Dio è buono, perché il male» sembra cadere nel vuoto. 

È proprio così? 

Questa mia riflessione intende mostrare, da un lato, l’insufficienza di una teodicea posta nei termini classici (alla Leibniz) e, dall’altro, la necessità della teodicea, a condizione di pensare “altrimenti” il male. La teodicea, infatti, pur nella sua insufficienza, conserva una perennità, perché rivela il nesso tra il male e il mistero dell’esistenza, tra il male e la dimensione spirituale-religiosa del vivere. In un secondo momento – percorrendo la linea di un pensiero “altro” – vorrei evidenziare i termini in parte nuovi di una teodicea a partire dalla condizione esistenziale, dall’esperienza della fragilità e del male in tempo di pandemia. 

1. Pensare “altrimenti” il male 

L’aporia del male non si risolve con la speculazione filosofica: è impossibile comprendere l’origine del male, poterlo spiegare (Immanuel Kant). La ragione, invece, è credibile quando mostra l’incomprensibilità del male (Luigi Pareyson). Meglio allora trovare un altro approccio, ovvero elaborare una fenomenologia del male, esplorare e pensare l’esperienza del male nel suo darsi, nelle sue aporie, inteso sempre nella duplice valenza di male commesso e male sofferto. Meglio sondare il nesso con le azioni e le emozioni. Pensare “altrimenti” il male vuol dire tenere presenti sempre tre livelli di indagine: quello del pensiero, quello delle azioni, quello dei sentimenti1 .

La teodicea classica si muove solo sul primo livello, quello della coerenza logica; non tiene conto 

del fatto che il compito di pensare – sì, di pensare Dio e di pensare il male davanti a Dio – può non essere esaurito dai nostri ragionamenti conformi alla non-contraddizione e alla nostra propensione per la totalizzazione sistematica2 . 

È necessario andare oltre il quadro puramente deduttivo e astratto della teodicea e riconoscere la complessità della questione, che può essere più adeguatamente indagata attraverso una 

fenomenologia dell’esperienza del male; si dovranno poi distinguere i livelli del discorso attraversati dalla speculazione sull’origine e la ragion d’essere del male, e infine collegare il lavoro del pensare suscitato dall’enigma del male alle risposte che rientrano nel campo dell’azione e del sentimento3 . 

A livello del pensiero, il male rappresenta una perenne sfida e provocazione nei confronti di sintesi definite, date, concluse, e invita a pensare sempre oltre e altrimenti. A livello dell’azione il male chiede innanzitutto una risposta etica, esige di essere combattuto: «Questa risposta pratica non è senza effetti sul piano speculativo: prima di accusare Dio, di speculare sull’origine demoniaca del male in Dio stesso agiamo eticamente e politicamente contro il male»4 . Infine, a livello dei sentimenti, vanno considerato gli effetti per il pensiero e l’etica che derivano dall’elaborazione delle emozioni, delle sofferenze psichiche causate dal male. L’elaborazione del lutto (stati d’animo, emozioni, sentimenti dovuti alla morte di una persona), ad esempio, innesca domande di senso che necessitano di essere pensate, riflettute, vagliate. E tali domande permettono di rivisitare la stessa immagine di Dio, che nel cristianesimo è indissolubilmente legata a quella della croce, del Dio sofferente. Addirittura, 

alcuni arrivano a discernere nella sofferenza un valore educativo ed espiatorio. Occorre dire senza indugi che questo senso non può essere insegnato: non può essere che trovato o ritrovato; e può essere una preoccupazione pastorale legittima impedire che questo senso assunto dalla vittima non la riconduca all’autoaccusa e all’autodistruzione5 . 

Esistono storicamente forme diverse di interpretazione del male: mito, saggezza, gnosi, teodicea, dialettica (hegeliana); come pure esistono gesti, riti, azioni, che hanno permesso all’uomo di convivere con il male, di codificarlo, di esorcizzarlo, di trasformalo da enigma (qualcosa di insoluto) a mistero (realtà che ci appartiene, anche se non possiamo esaurire). Lo studio di tali forme attesta che il male commesso e sofferto, tra cui il male sperimentato come radicale, la morte, hanno un carattere spirituale-religioso. Evocano “qualcosa” che non si riduce a spiegazione medico-scientifica o psicologica. 

Durante il tempo del Covid-19 una grande sofferenza per molti è stata quella di non aver potuto celebrare con un rito e un gesto religioso la perdita di una persona. 

Il nesso Dio-giustizia-male (teo-dicea) rimane ancor più nebuloso rispetto al passato per il venire meno dell’esperienza credente e del riferimento religioso immediato. Non si sa contro quale Dio prendersela, perché non lo si conosce; non si ha nemmeno davanti l’immagine di un Dio onnipotente e immutabile, nei confronti del quale protestare. In passato la teodicea era imparentata con l’apologetica: bisognava difendere in qualche modo il Dio onnipotente. 

In un contesto nuovo, che chiamiamo post-secolare perché si pone oltre la dialettica sacro-secolare, Dio è considerato un’opzione tra le altre e non la più importante. Tale situazione può rivelarsi propizia: la domanda su Dio può nascere senza bisogno di difenderne una determinata immagine, già data, ma come ricerca di una nuova o rinnovata, più fedele al Dio della croce. Questo itinerario può purificare tratti deformi del nesso Dio-giustizia-male. Dio non è più l’accusato, l’interrogato, il sospettato, il colpevole. Ma la vittima, il sofferente, il sacrificio. 

2. Una teodicea altra 

Solo un approccio fenomenologico al male, a partire non solo dal ragionamento ma dalle emozioni e dalle azioni, permette un pensiero “altro” della teodicea6 . Le aporie e le contraddizioni del male non si affrontano dal punto di vista teologico con una ragione astratta, dedotta da una determinata immagine pre-concetta di Dio, ma da una interpretazione del cristianesimo che ha al suo vertice la croce e lo scandalo della sofferenza innocente (Fëdor Dostoevskij, Albert Camus). Alle immense domande sul male, c’è, poi, il silenzio di Dio, lacerante e tragico: tace perché non parla o perché non esiste?7 . 

La tesi paradossale da cui muove il filosofo italiano Luigi Pareyson (1918-1991) è che Dio non è l’autore del male, ma l’origine. 

Il male, dunque, non è fuori Dio ma in Dio, come possibilità ovviamente, non come realtà. Dio è essenzialmente libertà (non solo il bene, ma scelta del bene), e per questo motivo il male, o meglio la sua possibilità, preesiste all’attività dell’uomo, poiché è già in Dio: 

La possibilità contenuta in quell’abisso diventa realtà con l’uomo […]. È terribile che la stessa scelta divina del bene non scarti il male se non conservandolo come possibilità, sia pure inattuale e inoperante, che l’uomo tuttavia è in grado, con atto blasfemo e maledetto, di realizzare8 . 

Dio è chiamato in causa, nonostante sia l’uomo l’autore del male, perché Dio gli ha fatto dono della libertà. La libertà dell’uomo è la sua dignità, pur con la possibilità del male: «È meglio il male libero che il bene imposto»9 . La libertà può comportare il male, ma essa è prima di tutto ed essenzialmente fecondità, fonte di bene, possibilità di amore, di vita. Un’esemplificazione. Una coppia che desidera un figlio potrebbe pensare: non ci sentiamo di generare una creatura che potrebbe ammalarsi, morire, soffrire, o addirittura potrebbe rivoltarsi contro di noi, fare del male o farci del male. Oppure potrebbe pensare: desideriamo un figlio da amare, e che certamente ricambierà il nostro amore, e anche se non lo farà continueremo ad amarlo; desideriamo un figlio nella speranza del bene, non nella paura del male. 

Il secondo registro di un pensiero altro sul male, oltre a quello della libertà, chiama in causa il Dio sofferente, l’unica e vera risposta alla teodicea. Per porre fine alla sofferenza, specie quella assurda degli innocenti, è necessaria la sofferenza divina: 

La punta infima dell’impotenza di Dio, cioè il Cristo sofferente, è anche il culmine della sua più splendida onnipotenza10. 

Nel cristianesimo il dolore non è rimosso, nemmeno esaltato (anche se la spiritualità cristiana è stata segnata dal dolorismo), ma assunto in primis da Dio, come segno di amore, di solidarietà, di dono, come risposta del bene al male. Il male nel duplice senso – sofferto o commesso – viene rivestito di significato nuovo. Dio non cessa di essere Dio nella sofferenza, ma esprime la sua piena divinità proprio nello scandalo della sofferenza: egli è allo stesso tempo vittima e giudice, peccato e maledizione direbbe san Paolo, «il massimo peccatore e il massimo sofferente»11. Qui la teodicea che accusa Dio di fronte al male perde la propria causa, perché il male/sofferenza non è altro da Dio ma è in Dio stesso. 

La theologia crucis sembra l’unica teodicea credibile. Il pensiero drammatico della morte di Dio – sperimentata come sua assenza, lontananza, privazione e come realtà rappresentativa delle innumerevoli assurdità del male, che segnano la storia – ha permesso alla teologia di pensare dialetticamente l’onnipotenza e la sofferenza di Dio, avvicinando il cristianesimo alla sensibilità contemporanea12. 

Una simile comprensione implica anche una ricomprensione della categoria di redenzione: «Li ho redenti dai loro redentori», direbbe Friedrich Nietzsche. Molti significati di salvezza associati alla sofferenza e al male sono spesso riduzioni morali e spirituali («quanto più soffri, tanto più ti redimi»), frutto del legame diretto tra male e punizione divina. Pagine intense di Dostoevskij o di Camus contestano le metafore tradizionali della redenzione: 

Io non voglio l’armonia, non la voglio per amore verso l’umanità. Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. […] Troppo poi si è esagerato il valore di quell’armonia, l’ingresso costa troppo per la nostra tasca13. 

Quando Gesù incontra un cieco nato (cf. Gv 9,1ss.), i discepoli gli chiedono: «Maestro chi ha peccato lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». La riposta di Gesù cambia prospettiva: non hanno peccato né lui né i suoi genitori, ma questa condizione di finitezza e di sofferenza rivela non la punizione di Dio ma le sue opere, ovvero la sua forza risanatrice. La redenzione è stata interpretata spesso ed esclusivamente in riferimento alla morale del peccato e della colpa; ma in realtà «che cosa ha bisogno di essere redento: la sofferenza o il peccato?»14. La salvezza cristiana è annuncio di consolazione e di beatitudine per gli afflitti, si prende cura dell’uomo in quanto tale, sofferente prima che peccatore. Pur riconoscendo una «metafisica» della colpa, la salvezza avvolge l’umanità nella sua interezza, con la sua fragilità e miseria. 

3. La percezione del male ai tempi della pandemia 

L’esperienza del male – inteso primariamente come malattia, sofferenza ma sullo sfondo anche come male morale (c’è anche una colpa o responsabilità umana?) – ai tempi della pandemia rivela alcuni elementi inediti della percezione del male (mondialità, fraternità, fragilità anche nel tempo della scienza); mette al vaglio le risposte della teodicea classica. Si può parlare ancora di provvidenza di Dio in un frammento di storia, segnato da un virus che ha contagiato quasi cento milioni di persone e causato due milioni e centomila morti nel mondo (dati dell’OMS, 27 gennaio 2021)? Non mancano credenti che leggono la pandemia in termini di punizione divina o ammonimento dall’alto (del resto in molti passi della Bibbia si usa questo linguaggio: il diluvio universale viene interpretato come punizione divina). Dietro il virus c’è la responsabilità divina o piuttosto la condizione fragile umana, con qualche responsabilità? Quando c’entra Dio con tante situazioni di malattie e povertà? 

Nella preghiera si chiede che Dio ci liberi dalla pandemia; in un contesto religioso tale linguaggio si comprende, ma potrebbe anche suscitare l’obiezione sull’attesa così lunga (perché aspetta così tanto a intervenire?). Dio, creatore dell’universo, potrebbe intervenire con un atto miracolistico e bloccare immediatamente il virus, ma non lo ha ancora fatto. Probabilmente Dio – il Dio attestato dalla storia di Gesù di Nazaret – si muove in altro modo. Una preghiera formulata in maniera più corretta dovrebbe chiedere che Dio sostenga l’uomo (la sua intelligenza, cooperazione, impegno) nella lotta al virus («non abbandonarci nella prova»). La nozione di «provvidenza» – cui non possiamo rinunciare poiché siamo convinti che la storia abbia un fine – va ricompresa, superando il legame di causa-effetto tra Dio e quello che capita nel mondo. Dio concorre con l’umanità al bene della storia, trasformando il male in bene. 

Rifiutando i linguaggi di punizione – che non corrispondono al Dio di Gesù Cristo – riteniamo che Dio provvede all’umanità ispirando uomini e donne di buona volontà, facendoli cooperare per superare il male. Il male della storia o della natura non è mai voluto da Dio, ma può essere ricompreso come rivelazione della condizione umana in rapporto a Dio, può essere accettato – anche se non compreso – con un atto di fiducia in un disegno divino che non determina la storia ma la orienta, grazie a quell’evento che ha segnato la storia, la risurrezione. 

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende […], è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri «ego» sempre preoccupati della propria immagine15. 

Il dramma del virus non è motivo per incolpare Dio, per giudicarlo (la teodicea), ma per smascherare la nostra condizione di fragilità – che spesso dimentichiamo – e le nostre false potenze o sicurezze. È un giudizio su noi stessi. 

Ha senso, allora, dire che Dio «permette» (ovviamente non causa) il male per ricavarne un bene maggiore? Il male, sia commesso che sofferto, ha nella maggior parte dei casi una responsabilità umana. In certe zone i bambini si ammalano di tumore a causa dell’inquinamento, non perché Dio è cattivo. C’è una frana che causa morti non perché Dio punisce, ma perché si è costruito in zona vietata. Gesù nel vangelo (cf. Lc 13,1-9) porta l’esempio della torre di Siloe che frana causando diversi morti e domanda: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?». No, non erano più peccatori. Nessun nesso tra la loro condizione di peccato e la morte subita. Piuttosto, Gesù prende a pretesto quell’episodio per porre in analogia la morte fisica con la morte eterna, quella da temere se uno non si converte. La fragilità porta a riflettere sulla propria condizione di finitezza e sul vero pericolo da temere, la morte eterna. 

Ma allora possiamo dire che Dio «permette» il male per un fine maggiore? Verrebbe da dire che lo permette perché, pur essendo onnipotente, non interviene a fermalo. Io direi diversamente: Dio non permette mai il male, nel senso che non lo accetta mai, ma lo combatte nel modo in cui il male può essere veramente combattuto. Ovvero attraverso la volontà di bene degli uomini (la libertà), attraverso l’amore e in questo modo trasforma la situazione di male, che appartiene alla vita e alla condizione finita, in possibilità di bene. 

Per molti credenti di fronte a un lutto drammatico un’espressione che può dare una certa consolazione è questa: Dio avrà voluto così; ci sarà un piano divino in tutto questo. Ma veramente Dio ha voluto che un papà e una mamma perdessero tragicamente una figlia di pochi anni? Non lo penso proprio. Letteralmente una frase del genere non è accettabile. La si può accettare – anche in questo caso non basta il livello logico-astratto, ma affettivo – nel senso che si riconosce che la realtà finita in cui ci troviamo non è l’unica e ultima realtà, ma va collocata dentro un mistero più grande che Dio solo conosce. Questo può consolare.

Nota bibliografica 

R. Bonaiuti, Credere in Dio «nonostante». Le consegne dell’ultimo Novecento, in «Vivens Homo» 24 (1/2013) 201-224; 

M. Coser, Le figure del limite in Gisbert Greshake: male, sofferenza e morte, Tangram Edizioni Scientifiche, Trento 2012; 

A. Kreiner, Dio nel dolore. Sulla validità degli argomenti della teodicea, Queriniana, Brescia 20152 ; 

S. Petrosino - S. Ubbiali (edd.), Il male. Un dialogo tra teologia e filosofia, Glossa, Milano 2014; 

B. Spinelli, Un profilo del Novecento: la libertà e il male, in «Il Regno-Attualità» 2 (2013) 57-64; 

A. Toniolo, Morte e redenzione nel cristianesimo, in I. Testoni - G. Bormolini - E. Pace - L.V. Tarca (edd.), Vedere oltre. La spiritualità dinanzi al morire nelle diverse religioni, Lindau, Torino 2015, 183-197. 

Sommario 

La teodicea classica non convince più perché si pone su un livello astratto (coerenza logica a partire da una certa immagine di Dio). È necessario pensare diversamente il nesso tra il male e Dio, tenendo uniti sempre tre livelli: il pensiero, le azioni, le emozioni. Il contesto attuale – meno sacrale e immediatamente religioso rispetto al passato – può permettere da una parte di accettare maggiormente la finitezza della condizione umana e dall’altra di purificare una determinata immagine di Dio non più in grado di coniugare onnipotenza e sofferenza in Dio. Può essere il terreno favorevole per il recupero di un’esperienza di Dio maggiormente ancorata alla croce. Dio non permette mai il male! Ma lo combatte nel modo in cui il male può essere veramente combattuto: attraverso la volontà di bene degli uomini (la libertà) e in questo modo trasforma la situazione di male, che appartiene alla vita e alla condizione finita, in possibilità di bene.  


* Preside e docente presso la Facoltà Teologica del Triveneto (Padova) (andrea. toniolo@fttr.it).

1 Cf. P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993.

2 Ibid., 8. 

3 Ibid., 9. 

4 Ivi.

5 Ibid., 54.

6 Cf. L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 2000. 

7 Ibid., 219.

8 Ibid., 217.0

9 Ibid., 220.

10 Ibid., 203. 

11 Ibid., 222. 

12 Cf. A. Toniolo, La Theologia crucis nel contesto della modernità. Il rapporto tra croce e modernità nel pensiero di E. Jüngel, H.U. von Balthasar e G.W.F. Hegel, Glossa, Milano 1995.

13 F. Dostoevskij, L’idiota, Garzanti, Milano 1990, 262. 

14 J. Werbick, Essere responsabili della fede. Una teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 2002, 517.

15 Francesco, Meditazione nel momento di preghiera in tempo di epidemia (27 marzo 2020).

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