Anche le religioni sono nella morsa del mercato e della concorrenza
Le chiese che già prima non se la cavavano bene hanno però avuto più difficoltà a tenere insieme le loro congregazioni. La pandemia ha accelerato il passaggio alle celebrazioni online, offrendo a molte persone un tempo praticanti una buona scusa per non farsi vedere. Molte istituzioni religiose hanno chiuso le porte dalla sera alla mattina, trasferendo i servizi su Zoom. Adesso, con la riapertura degli edifici, non sanno quanti fedeli torneranno. Se, come sembra probabile, saranno in pochi, potrebbero intensificarsi due tendenze evidenti già da prima. Molte organizzazioni religiose si libereranno dei loro immobili sottoutilizzati. E un numero maggiore di chiese si fonderà insieme.
Oggi il mercato della religione è in continuo cambiamento, forse più che in passato. Dal lato della domanda, le chiese nel mondo occidentale stanno soffrendo gli effetti della secolarizzazione globale cominciata molto prima della pandemia.
Perfino negli Stati Uniti, l’esempio più lampante di un paese ricco che ha prosperato accompagnato dalla religione (secondo alcuni grazie a essa), la percentuale di cittadini che si definiscono cristiani è scesa dall’82 per cento nel 2000 al 75 per cento nel 2020. Secondo l’ultimo sondaggio della World values survey, una rete globale con sede in Austria, circa il 30 per cento degli statunitensi dichiara di partecipare a un servizio religioso almeno una volta alla settimana. È parecchio se messo a confronto con altri paesi ricchi. Il dato però è in costante calo dall’inizio del millennio, quando era del 45 per cento.
La pandemia ha spinto le chiese di tutto il mondo a innovare
Dal lato dell’offerta, la competizione tende a essere feroce dove i governi non impongono la religione che le persone dovrebbero seguire. Secondo John Gordon Melton della Baylor university, in Texas, negli Stati Unitici esistono circa 1.200 denominazioni cristiane oltre a un gran numero di altre fedi. Per corteggiare le loro congregazioni, devono sforzarsi di rendere attraente la frequentazione della chiesa. Secondo un sondaggio di Gallup, tre quarti degli statunitensi dichiarano che la musica è un fattore importante; l’85 per cento è attirato dalle attività sociali. Come afferma Roger Fink, docente alla Pennsylvania state university, la chiave del pluralismo non è la presenza di “più religioni” ma il fatto che queste rispondano ai gusti dei consumatori.
Molte chiese però non sono riuscite a tenere il passo. Il loro clero non si è spostato online durante il lockdown, o per assenza di tecnologia o perché non amavano particolarmente l’idea. Alcuni sono stati lenti a riaprire. Nel frattempo la diretta dei servizi religiosi ha reso più facile per i fedeli “saltare da una chiesa all’altra”. In un sondaggio condotto nel 2020 tra cristiani praticanti negli Stati Uniti dal Barna group, che fa ricerca in tutto il mondo sulle religioni, il 14 per cento ha cambiato chiesa, il 18 per cento frequentava più di una chiesa, il 35 per cento frequentava solo la chiesa di riferimento prima della pandemia e il 32 per cento aveva smesso completamente di andare in chiesa.
Un obiettivo importante per qualsiasi chiesa, che sia o meno in difficoltà, è far quadrare i conti e oggi questo significa invariabilmente rivedere il portfolio delle proprietà immobiliari. La religione organizzata affronta gli stessi problemi dei proprietari di centri commerciali e uffici che si svuotano mano a mano che le attività si spostano online. Tenere duro e assistere alla progressiva riduzione dei partecipanti? E altrimenti come potrebbero ripensare le loro proprietà?
Questo è diventato ancora più importante con il declino della pratica religiosa formale e il conseguente declino delle donazioni. Nell’ultimo decennio la chiesa nel Regno Unito ha chiuso i suoi edifici a un ritmo di più di duecento ogni anno. Altre centinaia potrebbero essere venduti o demoliti nei prossimi anni. Anche negli Stati Uniti decine di migliaia di edifici rischiano la stessa fine. Negli ultimi due decenni è stato chiuso quasi un terzo delle sinagoghe statunitensi.
Internet è stata al tempo stesso una benedizione e una maledizione
Anche molte moschee sono in difficoltà, soprattutto in occidente. Sebbene spesso attraggano più fedeli rispetto a chiese ben finanziate, i loro bilanci annuali, stimati in media sui 70mila dollari all’anno per moschea negli Stati Uniti, sono spesso troppo esigui per mantenere gli edifici in buone condizioni.
Internet è stata al tempo stesso una benedizione e una maledizione. Si stima che un sermone virtuale dell’arcivescovo di Canterbury nel 2020 sia stato ascoltato da cinque milioni di persone, ossia più del quintuplo del numero di persone che andavano in chiesa ogni settimana nel Regno Unito prima della pandemia. Nonostante ciò, la partecipazione online ha un prezzo. Se i credenti smettono di frequentarli, gli antichi edifici rischiano di diventare obsoleti.
Ecco perché i gruppi religiosi stanno vendendo le loro proprietà a un ritmo più elevato rispetto a prima, o stanno cercando nuovi modi per usarli. I leader religiosi che aspirano a un posto in paradiso stanno imparando ad adattarsi vendendo o affittando beni immobili sulla Terra, dove tignola e ruggine consumano. I testimoni di Geova, che vantano nove milioni di fedeli in tutto il mondo, hanno venduto la loro sede nel Regno Unito, dove stampavano i volantini e la rivista Watchtower (Torre di guardia). Hillsong, una megachiesa australiana che ogni settimana ha 150mila praticanti in trenta paesi, prende in affitto teatri, cinema e altre strutture per le funzioni domenicali.
Tuttavia separarsi da una proprietà sacra può essere difficile. Nel 2020 i supervisori del famoso tempio indù di Venkateswara di Tirumala, nello stato indiano dell’Andhra Pradesh, sono stati definiti “antindù” per aver cercato di vendere all’asta decine di proprietà “non vitali” che erano state donate dai fedeli. Sono stati costretti ad abbandonare l’idea.
Come in qualsiasi azienda, quando due chiese si mettono insieme i loro leader possono avere scontri, i cambiamenti culturali possono far allontanare i fedeli e le finanze congiunte non sempre funzionano. Nelle fusioni tra chiese è probabile che quella più debole perda fedeli. Secondo un sondaggio condotto nel 2019 tra circa mille leader religiosi che nell’ultimo decennio avevano affrontato una fusione, un quinto circa delle chiese più piccole perde più del 40 per cento della sua congregazione nel giro di un anno dalla fusione.
Ma sono anche spuntate circa 1.750 “megachiese” protestanti con più di duemila frequentatori abituali e bilanci multimilionari, alcune a seguito di fusioni. Alcune hanno molte sedi. Secondo Warren Bird, un pastore statunitense esperto di megachiese, una buona fusione tra parrocchie è simile a un matrimonio ben riuscito. Ciascun partner deve portare in dote qualcosa per far funzionare l’accordo, ma una chiesa in difficoltà che si mette assieme a una che invece se la cava bene potrebbe semplicemente essere inghiottita da quest’ultima.
Gli economisti non sono i soli a pensare che la competizione religiosa sia salutare. “Se in Inghilterra ci fosse una sola religione”, sosteneva lo scrittore francese Voltaire negli anni trenta del diciottesimo secolo, “ci sarebbe da temere il dispotismo, se ce ne fossero due, si taglierebbero la gola; ma ce ne sono trenta, e vivono in pace e felici”. Un po’ troppo ottimista forse. Ma il virus ha sicuramente indotto le istituzioni divine a fare il punto della situazione sulle loro risorse commerciali oltre a quelle spirituali.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.