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Rosella De Leonibus "La questione dell'Empatia"

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“Le cose più importanti della nostra vita non sono né straordinarie né grandiose.
Sono i momenti in cui ci sentiamo toccati gli uni dagli altri”.
Saggezza dei maestri del Tibet

Empatia, che cosa è? L’etimo è greco, empathéia, en+pathos, sentirsi dentro l’altro, percepire come dall’interno i suoi sentimenti. Il concetto attuale di empatia vede però la sua nascita nella cultura tedesca, all’epoca dell’estetica romantica: Einfuhlung, una parola che voleva descrivere la risonanza interiore degli oggetti estetici.
Freud parla di empatia nel suo libro Psicologia delle masse e analisi dell’io, descrivendola come il meccanismo che ci permette di assumere un determinato atteggiamento nei confronti di un’altra vita psichica estranea al nostro io. Più di recente è stato Heinz Kohut ad introdurre la comprensione empatica nella psicoterapia, come capacità di immedesimarsi in un’altra persona fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo.

L’empatia, il più potente antidoto all’individualismo dominante e alla lacerazione dei legami sociali nel mondo globale, la più potente attivazione di una prospettiva solidale, non è però soltanto una esperienza estetica o emotiva, è una realtà fondata sul fatto che i nostri cervelli si sono evoluti nella direzione della cooperazione, della connessione l’uno con l’altro. Siamo fatti per connetterci con altre menti e per sviluppare sentimenti altruistici e solidali.
È osservabile, è un deficit di empatia il deficit peggiore di cui soffriamo nella nostra società e nel mondo in questo momento. Ma attenzione a cosa si intende, quando si parla di empatia: la condivisione della sofferenza non conduce di per sé ad attivarsi in favore dell’altro, a prestare aiuto. Produce invece spesso una forma di “stress empatico”, che inclina poi ad occuparsi di se stessi anziché dell’altro. Le semplici emozioni condivise, per quanto intense, non conducono quasi mai ad azioni che mantengano tenuta e risultati nel tempo, mentre risulta che siano l’ira e l’indignazione i motori motivazionali più efficaci per l’azione. Occorre fare attenzione a non usare la parola empatia come un termine «ombrello». Se volessimo invece essere precisi, bisognerebbe definirla come una forma di sensibilità emotiva e mentale nei confronti di uno stato altrui, che comprende varie gradazioni: dall’esserne affetti e dal condividere quello stato, fino all’accertarne le ragioni, e fino all’adozione del punto di vista dell’altro.

A livello evolutivo, le prime tracce di processi che potremmo definire empatici sono riscontrabili tra i primati: troviamo processi di rispecchiamento e sincronizzazione corporea, processi di imitazione e di contagio emotivo. Arrivando al gradino evolutivo di noi Sapiens, troviamo tutto quanto già appartiene ai primati, e in aggiunta possediamo abilità empatiche capaci di attivare comportamenti simpatetici, comportamenti associativi e comportamenti cooperativi: abilità che, nell’insieme, richiedono di cambiare prospettiva e preoccuparsi per il benessere altrui.

SPECCHIARSI NEGLI ALTRI

Se andiamo più nello specifico, distinguiamo due tipi di processi empatici:
• quelli definiti low level (mirroring, cioè rispecchiamento),
• e quelli high level (mentalising e mind reading, cioè mentalizzazione e lettura della mente).
L’empatia, allora, non si definisce soltanto come una procedura di inferenza, che transita per le aree corticali del cervello, ma come una risonanza immediata, attivata dal meccanismo della simulazione incarnata: in poche parole la rappresentazione interna automatica di un movimento corporeo o di una espressione facciale, che consente di coglierne il significato.
Siamo allora predisposti per una socialità inconscia, fondata su quella base di interdipendenza corporea che ci contraddistingue come mammiferi, siamo predisposti per trasmettere e far circolare sensazioni e vissuti emotivi da un soggetto ad un altro.

Sono i famosi neuroni specchio, quelli per cui, per la nostra corteccia motoria, anche adulta, guardare e toccare sono la stessa cosa. Vedere è fare, per i neuroni specchio!
I neuroni specchio umani, diversamente da quelli studiati nelle scimmie, riconoscono anche le azioni mimate (fare finta di prendere qualcosa che non c’è) e anche le azioni intransitive, non dirette verso un oggetto (es. disegnare figure geometriche con la mano nell’aria).
Ma c’è di più: come umani siamo capaci di “rispecchiare” anche abilità motorie che non possediamo, ed è per questa via che sembra si impari a parlare, a camminare, a muoversi in modo organizzato.
I neuroni specchio trasformano la percezione dell’azione altrui in simulazione incarnata dell’azione. L’altro entra letteralmente dentro di noi, non solo attraverso la percezione visiva, ma fin dentro il cervello, dove i neuroni specchio si attivano come se stessero facendo anche loro la stessa cosa che fa l’atra persona.

SIMULAZIONE INCARNATA

“Già non attendere’io tua domanda, s’io m’intuassi, come tu t’inmii”.
Leggeteli lentamente, questi versi, sono densissimi; li scrive Dante, nella Divina Commedia, nel canto III del Paradiso.
Se ci fosse una perfetta penetrabiltà reciproca nella mente altrui, non servirebbero domande e nemmeno risposte….
Vittorio Gallese, uno degli scienziati che hanno scoperto i neuroni specchio, risponde idealmente all’ipotesi dell’Alighieri: «Forse non abbiamo bisogno di arrivare in paradiso per partecipare, almeno parzialmente, di questa capacità che ci viene data dal meccanismo dei neuroni specchio, per cui una parte del sistema motorio che consente alla scimmia di conseguire degli scopi come afferrare un oggetto, viene utilizzato per mappare azioni analoghe compiute da un altro»
Che cosa è allora la simulazione incarnata?
La risposta è un po’ tecnica, ma abbiate pazienza, è una delle scoperte più preziose delle neuroscienze: la simulazione incarnata, questa espressione così poetica, descrive la componente sensomotoria della percezione dell’altro, collegata alla attivazione emozionale che essa evoca. La simulazione incarnata è quindi il veicolo delle esperienze proiettive che sono generate dall’esperienza dell’interazione umana.
Grazie ai meccanismi di rispecchiamento e di simulazione incarnata, possiamo cogliere il significato di azioni, emozioni e sensazioni altrui per via empatica, dall’interno, riconoscendone scopi e intenzioni senza fare ricorso a strumenti cognitivamente più sofisticati.

E tutto ciò non vale solo per il mondo concreto e per le esperienze dirette, ma vale anche per le esperienze immaginate, o rappresentate da opere d’arte, dalla finzione scenica, dalla letteratura, dalla poesia, dal fumetto, dal cinema, dai video.
Siamo sensibili gli uni agli altri, sia direttamente che per tramite delle esperienze indirette che viviamo attraverso ogni forma di rappresentazione che viene prodotta sulle esperienze stesse.
Il confine tra mondo reale e mondo immaginario è davvero molto sfumato, quasi impercettibile.
C’è in noi umani la possibilità della conoscenza razionale e intellettuale, e però, prima ancora, c’è una conoscenza diretta e intima di ciò che si sta muovendo dentro il nostro cervello, in rispecchiamento alle azioni altrui.

COSÌ COMPLESSA, COSÌ FRAGILE

Empatia, non è solo una vibrazione dell’anima, una sensibilità interpersonale elevata: ne possiamo parlare ora come di un fenomeno molto complesso, stratificato, che varia in relazione alle differenze individuali, agli stati d’animo, alle motivazioni, ai tratti di personalità.
Ma non solo: per attivare rispecchiamento empatico servono anche specifiche condizioni ambientali, specifici percorsi nello sviluppo infantile, e giocano anche le caratteristiche dello stato emotivo altrui (es. l’intensità o la qualità).

Sono rilevanti, per attivare processi di rispecchiamento empatico, anche le valutazioni che facciamo rispetto al contesto, le credenze e le convinzioni su ciò che sta provando l’altro e, forse, anche radici genetiche e, soprattutto per via dei processi educativi differenziati, forse anche le differenze di genere.

Ma allora, se la questione dell’empatia, pur essendo così complessa, è presente come competenza inscritta nei nostri neuroni, come mai assistiamo sempre più a fenomeni di erosione dell’empatia?
Dalle neuroscienze sappiamo che questa abilità funziona meglio su una base di esperienze condivise, quindi soprattutto la si impara se la si riceve, poi la si sviluppa e la si pratica attraverso la partecipazione attiva a contatti di gruppo, mentre perde forza se si vive isolati o con pochi scambi significativi.
L’empatia è fragile, è delicata. Può prodursi un blocco nella capacità di rendersi conto della sofferenza degli altri: le condotte deumanizzanti e violente possono derivare non solo, come effetto, dalla mancanza di empatia, ma possono essere originate da una relazione confusa tra l’esperienza personale e quella altrui, dove l’altro, per dirla con Martin Buber, viene oggettivato e diventa un Esso, anziché un Tu.
C’è anche una forma di empatia che definiremo “tattica”, quella della personalità narcisista perversa o sadica e quella della personalità psicopatica, dove avviene la proiezione sull’altro di una immagine falsa o poco precisa, radicalizzando la sua alterità al fine di fargli del male.

La caduta della risposta empatica mostra il lato oscuro di noi umani, la possibilità dell’indifferenza e perfino della crudeltà, che può essere irreversibile e permanente come nei casi di psicopatia, in alcune forme di autismo, in presenza di specifiche anomalie genetiche.

Molto più spesso la caduta della risposta empatica è temporanea, e per fortuna anche reversibile, quando è collegata ad un forte stress, alla fatica fisica o psicologica, all’alcolismo e all’abuso di sostanze psicotrope, oppure, molto più spesso, è la conseguenza di pesanti vissuti depressivi e esperienze traumatiche non elaborate.
Ce ne sarebbe abbastanza per comprendere come, in certe circostanze penose, l’empatia venga eliminata, come un lusso a cui l’umano rinuncia facilmente… E invece è una abilità innata del nostro cervello di Sapiens, da valorizzare, proteggere, educare, sviluppare lungo l’arco di tutta la vita, l’abilità che, prima ancora di consentirci di sperimentare condivisione e solidarietà, ci ha permesso di imparare dall’esperienza degli altri.
Potremmo dire che rappresenti quella sottile area di intersoggettività che sta tra un Io e un Tu, quella in base alla cui esistenza possiamo dire: “Io sono”, e ancora: “Io sono perché Tu sei”, e ancora più profondamente: “Tu sei, dunque Io sono”.

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