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Enzo Bianchi, Ludwig Monti, Lucia Vantini "Commenti Vangelo 2 gennaio 2022: II domenica dopo Natale"

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Commento al Vangelo della domenica e delle feste 
di Enzo Bianchi fondatore di Bose

«Dio nessuno lo ha mai visto ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato»
2 gennaio 2022: 
II domenica dopo Nataleanno C

Gv 1,1-18

In principio era la Parola,
e la Parola era rivolta verso Dio
e la Parola era Dio.
Essa era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo suo
e senza di essa nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In essa era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno sopraffatta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne per una testimonianza,
per essere testimone della luce,
perché tutti credessero per mezzo di essa.
Non era lui la luce,
ma doveva essere testimone della luce.
Era la luce vera, quella che illumina ogni uomo,
a venire nel mondo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo suo;
eppure il mondo non l’ha riconosciuta.
Venne fra i suoi,
e i suoi non l’hanno accolta.
A quanti però l’hanno accolta
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E la Parola si fece carne
e piantò la sua tenda tra di noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come dell’Unigenito che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dietro a me
è ormai davanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
l’Unigenito, che è Dio
ed è rivolto verso il seno del Padre,
è lui che ce ne ha dato la narrazione. 
(testo dell'evangeliario di Bose)

Al cuore del tempo di Natale vi è l’annuncio dell’incarnazione, dell’umanizzazione di Dio nel Figlio unigenito Gesù Cristo. Oggi la chiesa ci invita a meditare su questo grande mistero attraverso il prologo del quarto vangelo, che ci rivela l’identità di quel bambino venuto al mondo. Egli è la Parola di Dio, il Figlio vivente in Dio dall’eternità: «In principio era la Parola, la Parola era rivolta verso Dio e la Parola era Dio … E la Parola si fece carne e piantò la sua tenda tra di noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come dell’Unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità».

Da questa pagina dalle inesauribili profondità scaturisce per noi cristiani la domanda decisiva: qual è il nostro Dio dopo la sua umanizzazione in Gesù? L’Antico Testamento è scandito dall’adagio «chi vede Dio muore» (cfr. Es 33,20): è questo il modo per esprimere la santità di Dio, la verità del Dio che non può ricevere un volto dall’uomo, ma che mostra lui stesso la sua immagine e si consegna per farsi conoscere nella sua Parola. Ecco perché il credente dell’Antico Testamento chiede con insistenza a Dio di mostrargli il suo volto: è la domanda di Mosè (cfr. Es 33,18), è l’invocazione del salmista (cfr. Sal 43,3; 63,3), ma questo volto è svelato all’uomo solo al di là della morte…

Ebbene, l’umanizzazione di Dio in Gesù ha reso possibile la visione del suo volto già qui sulla terra, sicché nella conclusione del nostro prologo si legge: «Dio nessuno lo ha mai visto ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato», narrato, spiegato… Il nostro Dio, dopo la sua umanizzazione in Gesù, può essere solo e unicamente il Dio da lui narrato, perché l’uomo Gesù è l’ultimo e definitivo racconto di Dio, e chi vede lui, chi contempla la sua vita conosce il Padre, perché nella carne di Gesù il Dio invisibile ha reso visibile la sua gloria. Ecco in cosa consiste la singolarità del cristianesimo rispetto a ogni religione e a ogni monoteismo: il suo essere adesione a un Dio-uomo, Gesù Cristo, e, attraverso di lui, a Dio. È proprio come Gesù ha detto ai suoi discepoli: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me … Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,6.9), cioè chi vede me uomo, carne fragile, nella mia vita umanissima può scorgere il racconto che io faccio di Dio.

Che cosa è avvenuto nella storia? Alcuni uomini, i Dodici, e alcune donne, diventati discepoli di Gesù, hanno colto nella sua esistenza delle tracce di Dio, e per questo durante la vita comune con lui l’hanno chiamato con fede profeta, maestro, Messia, ma nell’alba di Pasqua lo hanno riconosciuto come risorto da morte, vivente e lo hanno invocato come Kýrios, Signore, Figlio di Dio. Quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte: l’esistenza di Gesù di Nazaret, vissuta nella libertà e per amore, è parsa loro come rivelazione della vita stessa di Dio. Di più, la vita di Gesù è stata l’epifania, la manifestazione di Dio per gli uomini, ma nello stesso tempo l’epifania per tutta l’umanità dell’uomo vero, autentico, come Dio l’aveva pensato e creato. Come recita sempre il prologo: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini», cioè Gesù è stato un vero vivente e come tale «ci ha insegnato a vivere in questo mondo» (cfr. Tt 2,12)…

Se noi tenessimo con saldezza lo sguardo fisso su Gesù (cfr. Eb 3,1; 12,2) e credessimo veramente che la forma della vita di quest’uomo ci conduce a Dio, comprenderemmo anche che la nostra ricerca di Dio ormai è diventata anche ricerca dell’uomo. Sì, dopo Gesù Cristo chi cerca Dio passa necessariamente per la ricerca del vero uomo, e la vita cristiana coincide con un cammino di umanizzazione nella potenza della grazia. Non è possibile cercare Dio senza cercare la vera umanità, né fare un cammino di salvezza senza aprire strade di autentica umanizzazione: la vita umana autentica è sempre vita cristiana e quest’ultima è sempre un capolavoro di arte umana che attende la salvezza dalla morte, attende la resurrezione al seguito di Gesù, uomo e Dio!

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II domenica dopo Natale

Gv 1,1-18

Luce di Cristo! Rendiamo grazie a Dio!

Ludwig Monti, biblista

  

 Vi annuncio una grande gioia: oggi è nato per voi un Salvatore, il Cristo Signore” (Lc 2,10-11). Questa la buona notizia, il Vangelo che in forme diverse la chiesa ci fa contemplare nel tempo di Natale: l’umile nascita di Gesù a Betlemme, l’adorazione dei pastori, la circoncisione e l’imposizione del Nome dato dall’angelo al figlio concepito da Maria nella potenza dello Spirito santo.

Oggi, pochi giorni prima dell’Epifania, della manifestazione alle genti della terra, ascoltiamo la lettura dell’incarnazione nel vangelo “altro”, quello secondo Giovanni. Ascoltiamo il prologo di questo vangelo (già proclamato nella messa del giorno di Natale), un testo che è come una dossologia, una parola di sintesi e di gloria sul Natale; un brano che ci fa capire da un altro punto di vista l’unico Vangelo dell’incarnazione: un uomo come Gesù solo Dio ce lo poteva dare. È una pagina teologicamente ricchissima, che contiene in sé una miriade di riferimenti alla rivelazione del volto di Dio presente nell’Antico Testamento e di paralleli alla rivelazione presente nel Nuovo. È la sintesi ultima: se Gesù exeghésato, “ha narrato” in modo definitivo Dio – come il prologo si conclude (Gv 1,18) –, Giovanni ha narrato in modo definitivo Gesù in questa inesauribile ouverture.

Nello stesso tempo, si rimane colpiti dalla luminosa semplicità con cui Giovanni ha saputo comprendere e ha voluto narrare l’inesauribile mistero del Dio-uomo. Tutto sta in quella sintesi nella sintesi del v. 14: “E la Parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda, è venuta ad abitare tra di noi”. “La Parola si è fatta carne”: se sapessimo quello che diciamo, a questa affermazione sobbalzeremmo. Com’è possibile che la Parola eterna di Dio, quella Parola per mezzo della quale tutto è stato creato ed esiste, quella Parola che è Dio, diventi sárx, carne fragile, debole, tentata, mortale, in termini umani un figlio, un uomo che va verso la morte? Com’è possibile? Follia, diremmo. Sì, follia, ma follia voluta da Dio, libera sua scelta di svuotarsi. E perché? Per uscire da sé ed entrare in relazione con noi. E per quale motivo? Per amore, quell’amore che nel prologo risuona nelle parole “vita, luce, grazia”, anzi “grazia su grazia”, “amore su amore”. Se Dio scende dai cieli sulla terra prendendo carne in Gesù, è proprio per questo desiderio di relazione, di donarsi a noi, che l’evangelista non potrebbe esprimere con più chiarezza.

Ecco allora l’altra ottica da cui leggere il prologo, quella di noi umani: “… e ha posto la sua tenda tra di noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria”. Ma questo, altro non è che il punto di arrivo di varie espressioni disseminate nel prologo: “Nella Parola era la vita, la vita luce degli uomini … veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo … venne tra i suoi”. Tutto luminoso? No, nessuna illusione, ci sono le tenebre che lottano contro la luce, vorrebbero soffocarla, ma non possono vincerla, sopraffarla. È stato così per Gesù, venuto tra i suoi senza essere compreso, fino alla morte di croce, e Giovanni non lo nasconde: “il mondo non lo ha riconosciuto … i suoi non l’hanno accolto”! Nessuna ipocrisia, siamo onesti: quante volte le nostre tenebre soffocano la luce di Cristo, soprattutto con quella cattiveria o ignoranza che vorrebbe spegnere la luce in chi ci è accanto… Dobbiamo dunque disperare, oscurarci? No, ma solo accogliere il Vangelo, più forte, più luminoso, più vita di ogni morte: “A quanti hanno accolto la Parola fatta carne, ha dato potere di diventare figli di Dio … Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo accolto grazia su grazia”.

Uno scrittore dichiaratemente ateo, che forse si rivolterebbe nella tomba a sentirsi citato in un contesto cristiano, ha scritto: “Da qualche parte c’è luce. Forse non sarà una gran luce, ma la vince sulle tenebre … Non puoi sconfiggere la morte ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta. E più impari a farlo di frequente, più luce ci sarà” (Charles Bukowski). Tutti gli umani cercano luce, vita, amore; nelle forme più diverse e a volte contorte non cercano nient’altro! Noi cristiani, umani come tutti, dovremmo fare una sola cosa, per noi e per tutti: cogliere la luce, la vita, l’amore, la bellezza nel Vangelo che è l’uomo Gesù Cristo, Parola fatta carne, e nella sua umanità accogliere e donare il racconto di Dio. Accogliere e donare la sua luce, la sua vita, il suo amore, la sua bellezza fatti carne in un uomo, in Gesù.

Forse tutto sta nel saper rendere grazie, con la vita, per questo dono luminoso e totalmente immeritato, come la chiesa ci fa cantare nella notte di Pasqua: “Luce di Cristo! Rendiamo grazie a Dio!”. “Luce di Cristo! Rendiamo grazie a Dio!”. “Luce di Cristo! Rendiamo grazie a Dio!”. Nonostante tutto e tutti, nonostante noi stessi.


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Lucia Vantini 

 La Buona Notizia Il Vangelo della ii Domenica dopo Natale 

(Giovanni 1, 1-18) 

La luce del Verbo 

L'Osservatore romano 28 dicembre 2021


Ci vuole un po’ d’incoscienza a commentare il Prologo del vangelo di Giovanni, perché ogni sua parola sprigiona mistero. Se ci si libera della preoccupazione di spiegarlo o di renderne conto in modo completo, è il testo stesso a venirci incontro con una buona domanda: “Dove credevi che fosse e cosa pensavi che facesse il Verbo prima di farsi carne e di venire ad abitare in mezzo a noi?”.

Nel Prologo si trova la risposta: il Verbo lasciava delle tracce di luce nella creazione. Secondo Giovanni, infatti, il Verbo si trova in mezzo alla tempesta del gesto creativo di Dio e vi si trova coinvolto in modo così stretto che nulla al mondo può dirsi estraneo al suo influsso.

Il testo non descrive in modo esplicito queste tracce, ma è molto chiaro nel mostrarne l’incertezza del destino: fin troppo facili da rifiutare, da strumentalizzare e persino da cancellare, eppure estremamente potenti per chi le riconosce e vi si affida. Lo si può intuire da ciò che è accaduto storicamente al Verbo incarnato.

Guardando alla vicenda di Gesù, si può dire che i semi del Verbo si trovino in tutti i processi in cui la vita nasce, si riprende o si sbilancia verso un bene appena sbocciato.

Se ne fa esperienza contemplando la natura nella sua forza vitale: così Mosè ha guardato il fuoco del roveto, Elia ha avvertito il mistero di un vento leggero, Geremia ha visto il ramo di mandorlo, Agar si è accorta della sorgente d’acqua in mezzo al deserto; così Giobbe ha provato a ri-vedere le sorgenti del mare, l’aurora che esce dal buio della notte, la pioggia sul deserto, la rugiada del mattino, il parto delle cerve, il vigore dei cavalli, lo sparviero che migra verso il sud, il canto del gallo che annuncia il giorno; così noi vogliamo guardare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, il sole che sorge sui buoni e sui cattivi e la pioggia che bagna i giusti e gli ingiusti, il granello di senapa da cui nasce una pianta enorme e ogni seme che muore portando frutto.

Se ne fa esperienza vivendo. La luce del Verbo, infatti, illumina ogni essere umano che viene nel mondo e ci raggiunge singolarmente, nella contingenza spirituale, culturale, sociale e affettiva delle nostre piccole storie. Un elemento di grazia viene inscritto in noi fin dall’inizio e fa sì che ogni nostro vissuto sia già una risposta — consapevole o inconsapevole — alla sua presenza.

Dai vangeli impariamo che alcune esperienze ne rivelano le tracce in modo particolare: sono quelle in cui amiamo in modo sconfinato e gratuito, attraversiamo o incrociamo il dolore senza maledire la vita, speriamo nella pace dentro i conflitti o scommettiamo sulle possibilità di chi non ha credenziali. Questi vissuti ci accomunano, in un modo o nell’altro. Le tracce del Verbo si presentano dunque come passaggi capaci di avvicinare gli esseri, come sorgenti di prossimità.

In questo senso il Verbo — in cui il cristianesimo riconosce il volto femminile della Sapienza ebraica e l’identità originaria del Cristo incarnato — brilla come raggio vivo in tutte le religioni e in tutte le culture. È questa meravigliosa e affidabile presenza diffusa a farci sperare che possiamo davvero essere fratelli e sorelle in un mondo da abitare con cura.

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