Enzo Bianchi "Il Natale e il vero significato dei regali"
Questi giorni di feste natalizie e dell'inizio di un nuovo anno sono contraddistinti dallo scambio dei doni. I bambini attendono i regali sotto l'albero di Natale, gli uomini e le donne li fanno e li ricevono da parenti e amici, e poi ci sono quelli che fanno doni di carità a chi è nel bisogno. Si scambiano auguri, parole di affetto, "cose" pensate e scelte per rallegrare o aiutare i destinatari. La carità "organizzata" imbandisce tavole alle quali chiamare per un posto i più poveri, i senza casa. Sembra un trionfo della bontà, e a molti questa atmosfera di regali appare come una verifica della buona qualità della nostra vita.
Ma io confesso che sovente mi interrogo e resto perplesso: non dimentico infatti che anche nella stagione della mia infanzia, il Dopoguerra povero, si scambiavano regali, ma per conservare l'anonimato del donatore e affinché nessuno se ne assumesse la paternità i doni si attribuivano a Gesù bambino o Babbo Natale. Sapevamo che non c'era nessuna discesa di Gesù nel camino della cucina ma, in questo modo, i doni venivano da chi ci amava senza individualismi né protagonismi.
Era un canto alla gratuità, alla non reciprocità (perché i bambini non sapevano fare doni), era un accogliere i regali con stupore e meraviglia. Per tutti c'erano doni, ai bisognosi si portava qualcosa affinché potessero anche loro fare un dono ai figli, altrimenti non sarebbe stato Natale. Nessun idealismo, perché allora come oggi chi festeggiava soffriva nello stesso tempo ferite.
Oggi viviamo nell'abbondanza, in una società segnata da un accentuato individualismo con tratti di narcisismo, tentati di assumere la logica del do ut des, la logica del mercato: c'è posto per l'arte del donare, per esercitarci a donare resistendo alla perversione del dono? Il dono è contraddistinto dalla gratuità, o la simula facendo regnare la legge del tornaconto?
Perché ormai abbiamo imparato a interrogarci e a diffidare anche di questo atto del donare. Basterebbe pensare agli "aiuti umanitari" con cui abbiamo voluto nascondere il male operante nella realtà della guerra.
Ma oltre alla perversione del dono è possibile anche la sua banalizzazione: il dono viene depotenziato e stravolto quando gli si assegna il nome di "carità", e si dona con un sms una briciola, illudendoci di essere capaci di compassione. Io chiamo questa emozione "carità presbite", che si indirizza ai lontani ed è incapace di vedere nella vita quotidiana chi è bisognoso ed è vicino a noi.
Fare doni è un movimento asimmetrico, unilaterale, che nasce da libertà ed è capax amoris. Sa assumere i rischi, ma così nega l'autosufficienza e si pone come gesto eversivo, facendo emergere che ognuno deve donare perché sempre e comunque debitore dell'amore verso l'altro.
E non si dimentichi che il dono all'altro per eccellenza è la propria presenza, la propria vita, il proprio tempo, la vicinanza nella gratuità. Da questo esercizio del dono può essere generata la capacità del dono dei doni: il perdono.