Clicca

Antonio Savone "Di fronte a malattia e morte"

stampa la pagina
Di fronte a malattia e morte – Incontro Medici e Operatori Hospice San Carlo

Premessa 

“La morte non sarebbe un problema, perché fin che noi ci siamo la morte non c’è, e quando c’è la morte non ci siamo più noi”. Così scrive il filosofo greco Epicuro. Cosa intendeva esprimere? Che tutti coloro che affrontano il tema della morte parlano di qualcosa che essi non conoscono perché gli unici a poter parlare della morte sono i morti che, ahimè, sono muti. Parlare di morte, dunque, secondo questa prospettiva è solo letteratura: il rischio, infatti, è quello di non riuscire a dire cos’è la morte effettivamente e cosa significa.

Tuttavia, per quanto non sappiamo esprimere cosa significa l’esperienza personale della nostra morte, di fatto, ogni volta che essa porta via persone care, ci lambisce alterando non pochi aspetti della nostra vita. Come si fa a dire a una madre che perde un figlio che ella non sa cos’è la morte? Nulla, nella sua vita, sarà come prima. La morte ci ferisce chiedendoci di guardare relazioni, affetti, luoghi, cose a partire da un’altra prospettiva. Certi luoghi, certi oggetti non sono più gli stessi.

Poiché siamo uomini e donne dotati di consapevolezza, per quanto riconosciamo la bellezza del vivere, ci appartiene pure la dimensione della mortalità: tutto potrebbe finire da un momento all’altro.

Sarebbe interessante, a tal proposito, verificare il nostro rapporto con il limite (sia esso una malattia, un abbandono, un tradimento, la solitudine, le rughe, i capelli bianchi…): esso rappresenta sempre un anticipo della fine, un “apparecchio alla buona morte” per dirla con sant’Alfonso. Per questo, non poche volte, abbiamo bisogno di esorcizzarlo, di rimuoverlo, di negarlo, perché si tratta di un vero e proprio lutto che ci fa toccare con mano l’amarezza stessa della morte.

L’esperienza della morte, dunque, muta inesorabilmente il modo di concepire l’esistenza dal momento che la morte mi porta via il mondo e la storia così come io li percepisco.

 

Cambiamento della percezione della vita

Cosa si intende per “cambiamento della percezione della vita”?

Esistono vari modi di affrontare l’argomento.

Il materialista o quello che la Scrittura chiama “empio”. Il Libro della sapienza descrive così il suo atteggiamento:

«Dicono fra loro sragionando: La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. È un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere (…) La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte (…) Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano 9 nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza (…)» (Sap 2,1-4.5.6-9).

È quello che Orazio esprimerà con il “carpe diem”. L’unico modo per fronteggiare la consapevolezza di una vita che ti sfugge dalle mani è quella di spremere il momento e attaccarti alla vita e ai beni che essa ti offre anche a costo di rendere infelice quella di qualcun altro.

Un altro atteggiamento è riportato dal Qoelet e potremmo riassumerlo cosi: poiché la mia vita è destinata a perire, tanto vale non darsi pensiero. Cosa fa Qoelet? Ha provato la vita e tutto quello che essa gli ha messo a disposizione quanto a realizzazione, lavoro, rapporti con gli altri e quando ha tentato un bilancio cosa ha concluso? “Tutto è vanità e un inseguire il vento” (Qo 1,14). Per quanto tu di dia da fare, cosa ti resta in pugno? Non c’è nulla per cui valga la pena lottare, perciò, meglio non prendersela troppo.

Un altro atteggiamento ancora è quello riportato dal Sal 90 che recita così: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”. Come a dire: se ti rendi conto che la vita ha un limite, questo ti permette di vivere con sapienza sia il tempo, sia le relazioni, sia le varie esperienze. Sapienza del cuore equivale a vivere in modo sano, corretto ogni cosa. Secondo questo atteggiamento, è proprio la prospettiva della morte a dare il giusto peso alla vita. Poiché c’è quel limite, noi siamo in grado di declinare una giusta scala di valori. Avrei tante possibilità davanti a me: se non ci fosse la morte, potrei viverle tutte. Ma poiché c’è la morte, sono chiamato a discernere qual è quella che ai miei occhi ha più plausibilità rispetto alle altre.

È la morte, perciò, a restituire il senso di serietà alle scelte della vita. La morte ci dice che la vita è una cosa seria e non posso tornare indietro per correggerlo e, nello stesso tempo, mi fa capire che la vita non è tutto, visto che essa ha un termine.

Proprio della sapienza del cuore è arrivare alla consapevolezza che quella che per me è la fine di tutto, non lo è per tutti. Per qualcuno, la mia morte sarà una liberazione, qualcuno potrà persino gioire. Se così stanno le cose, la morte non è quell’evento tragico come io, invece, sarei portato a pensare.

“Non dimenticare che quando tu morrai qualcuno si sentirà sollevato”, ripeteva l’abate ad uno dei suoi monaci.

Se così stanno le cose, qual è, secondo la Parola di Dio, il modo appropriato di stare di fronte alla morte? Quello di Socrate il quale, poiché crede nell’immortalità dell’anima, ritiene che la morte sia la guarigione di quella strana malattia che è la vita e, perciò, va incontro ad essa serenamente chiedendo solo di offrire un gallo ad Esculapio, che era il dio della medicina?

 

Gesù di fronte alla morte

Tanto diverso il modo di andare incontro alla morte da parte di Gesù.

Mc 14,32-36 ci riporta degli insoliti sentimenti per quell’uomo che era il Figlio di Dio, il Messia, l’inviato da Dio: “cominciò a sentire paura e angoscia”. Più volte chiede al Padre che passi da lui il calice della passione. Quella che Gesù vive è una vera e propria “agonia”, una vera e propria “lotta”. Di fronte alla prospettiva della sua morte, Gesù prova a capirne il senso e lo fa ricorrendo a un Salmo: “La mia anima è triste fino alla morte…”. La paura e l’angoscia sono riconosciute e accolte, non sono negate: Gesù dà un nome a quello che vive e lo pone nel suo dialogo con Dio.

Proprio la preghiera che Gesù ripete più volte restituisce i tratti caratteristici del suo affrontare la morte:

“Padre! Tutto è possibile a te”.

C’è qualcuno più grande della stessa vita e della stessa morte.

“Allontana da me questo calice”.

In un primo momento Gesù chiede che gli venga risparmiata la morte. Se così stanno le cose, non è spontaneo consegnarsi alla morte: essa, infatti, provoca ribellione, rifiuto. Poi, però, aggiunge:

“Però non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu”.

Gesù riconosce che c’è qualcosa che va oltre il desiderio umano. Ciò che l’uomo desidera non è da censurare: Gesù non tace nulla. La paura, l’angoscia e la volontà umana, però, sono realtà penultime, sebbene siano passaggi inevitabili.

Se Gesù affronta così la sua morte, significa che la fede in Dio Padre suo e la fede nella risurrezione, non cancella la paura legata al morire. La fede nella risurrezione la oltrepassa ma non la elimina. Ecco il punto: per accedere all’esperienza della risurrezione è necessario attraversare (la Pasqua, appunto) tutto ciò che la morte porta con sé di tenebroso, di oscuro, di fatica e di paura. La morte è intesa, perciò, come un travaglio, un parto.

Cos’è che permette di andare oltre? Una pia illusione o qualcosa di fondato?

Ci viene in aiuto Eb 5,7-9

“Nei giorni della sua vita terrena Gesù offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.

“Fu esaudito per la sua pietà”.

Il Padre ascolta ed esaudisce la preghiera del Figlio. A noi, però, non risulta. Se è vero che Gesù aveva chiesto gli fosse allontanato il calice della morte, questo non è accaduto. La sua preghiera, però, aveva aggiunto: “Allontana questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). Dio ha ascoltato la preghiera del Figlio così come egli ha voluto e come il Figlio si era detto disposto a fare.

Per comprendere un tale modo di ragionare c’è da inquadrare tutta la vicenda terrena di Gesù all’interno della categoria dell’obbedienza: “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,8-9).

Un giorno – è Gv a raccontarlo al cap. 4 – quando i discepoli vogliono offrirgli da mangiare, Gesù risponde: “Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete» (Gv 4,32). E poi aggiunge: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera» (Gv 4, 34).

La vita di Gesù, perciò, è stata essenzialmente un cammino di obbedienza, un sì detto a Dio; che in concreto significa: un sì detto alla vita, e a quella vita che Gesù ha ricevuto; a quella vita Gesù ha detto di sì e ha portato questo sì come termine costante di tutti i suoi atteggiamenti e le sue scelte. La morte non è altro che il suo ultimo sì, l’obbedienza che viene portata al compimento dal momento che non è dato andare oltre. Ma proprio perché la vita e la morte di Gesù diventano obbedienza, allora la vita e la morte di Gesù fanno riferimento ad una volontà che va “oltre”.

 

L’amore portato a compimento

“Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). Si tratta di un versetto programmatico che racchiude quanto verrà raccontato della morte di Gesù.

Cosa vuole dire: «passare da questo mondo al Padre»? E qual è la strada attraverso cui si «passa da questo mondo al Padre»?

Dice il Vangelo di Giovanni: «dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine»; cioè la “strada”, che dal nostro mondo porta alla comunione con Dio, quindi porta oltre la morte, è proprio la strada dell’amore: «avendo amato (…) amò sino alla fine».

“Avendo amato” significa: tutta la vita di Gesù è stata spesa nella logica del dono, della gratuità, del dono di sé. “Amare”, infatti, significa: a me interessa la vostra vita, e mi sta talmente a cuore da spendere la mia vita in modo che voi possiate vivere. L’amore (amors) è una presa di posizione a favore della vita e a favore della vita dell’altro: io voglio che tu viva; questo è il senso dell’amore di Gesù per i suoi. Un simile modo di amare viene portato al compimento, perché non si può amare di più che dare la vita “per”. E quando la morte diventa dare la vita “per”, allora la morte diventa espressione di un amore, l’amore portato al compimento.

Vivere bene la morte significa: imparare a vivere bene la vita

Non si tratta di vivere bene il momento della morte. Gesù non ha vissuto in obbedienza a Dio e nell’amore verso i fratelli solo il giovedì santo e il venerdì santo. L’atto del morire, infatti, sigilla la vita, e quindi è tutta la vita antecedente a dare un senso alla morte. Se la vita di prima è stata un segno di amore, la morte è il sigillo posto all’amore. Se la vita di prima è stata una vita di obbedienza a Dio, la morte è il sigillo posto all’obbedienza a Dio.

Chi ha una ragione per morire rende manifesta la ragione che ha avuto per vivere.

In questo modo la morte diventa, secondo il Vangelo, una consegna di sé a Dio la cui risposta è la risurrezione. La risurrezione è opera della potenza di Dio, ma è la potenza di Dio che riconosce la verità di una esistenza: di una esistenza vissuta nell’obbedienza a lui; o, che è la stessa cosa dall’altro punto di vista, nell’amore verso gli altri.

Se la morte, perciò, è il sigillo di un’intera esistenza, la sua qualità dipende dal modo in cui viene vissuta la vita. Ecco perché vivere bene la morte vuol dire imparare a vivere bene la vita.

Poi verrà pure la questione dell’“istante della morte” e delle cure palliative. Il problema, però, è molto più complesso: a tema, infatti, c’è la vita intera. La morte può essere vissuta nell’affidamento pieno di sé a Dio come compimento dell’umano esistere se la vita intera è stata vissuta secondo una logica di amore e, per un credente, in riferimento a Dio.

 

A mo’ di conclusione

Per poter vivere cristianamente la morte bisogna:

  • Amare la vita imparando a dire di sì ad essa così com’è, con le sue ricchezze e con i suoi limiti, con quello che abbiamo ricevuto come codice genetico, come famiglia, come esperienza psicologica relazionale, con il nostro passato, le nostre realizzazioni e con i nostri errori.
  • Questo non basta: “la tua grazia vale più della vita” (Sal 61). È necessario imparare ad amare qualcuno più della vita, Dio più della vita. La vita è straordinariamente preziosa, ma non è tutto. È una realtà penultima che rimanda a quello che sta prima e sta dopo, a quel Dio dal quale abbiamo ricevuto la vita, e a quel Dio al quale la vita la consegniamo. L’abbiamo ricevuta da Lui e siamo chiamati a dire di sì alla vita. Questo è il nostro compito: viverla appieno per poi restituirla a Lui ricca di opere buone.
  • Poi, siamo chiamati a dire di sì non tanto alla morte come atto ma a dire di sì a Dio anche di fronte alla morte, facendo nostre le parole che Gesù ha pronunciato sulla croce: «Padre, nelle tue mani consegno la mia vita» (Lc 23,46). E questo non secondo criteri eroici. Gesù stesso ha sentito la paura della morte, l’ansia, l’angoscia; poi, però, ha saputo attingere alla fiducia in Dio che lo ha accompagnato durante tutta la vita e perciò lo ha accompagnato anche nella morte affidando a Lui la risposta all’esistenza vissuta. Tutto questo, però, dipende dal modo in cui abbiamo vissuto e detto di sì alla nostra vita e abbiamo detto di sì alla vita degli altri nel gesto dell’amore.

 

Francesco d’Assisi: “Sorella morte”

La sera del 3 ottobre 1226, quando tutto sembrava portare i segni evidenti della fine della vicenda terrena di Francesco d’Assisi, accade invece qualcosa di insolito per la vita di un uomo. Quell’uomo il cui corpo era segnato da non poche ferite e il cui spirito annoverava non poche amarezze, va incontro alla morte dandole il benvenuto nella sua vita: “Ben venga sorella morte! Ben venga!”. La morte viene vissuta da Francesco come un incontro e perciò se ne celebra il transito.

Ma può essere un incontro la morte quando, nella nostra esperienza pressoché quotidiana, essa è piuttosto la negazione di ogni relazione, l’esaurirsi di ogni possibilità e, perciò, la fine della vita stessa? Non così per Francesco. Anche alla fine, fino alla fine, Francesco non si sottrae all’esperienza della fraternità neppure con l’ultimo nemico qual è la morte. E, infatti, la chiama “sorella”, egli il fratello che non recede da nessun legame.

Un tale modo di morire non si improvvisa ma lo si prepara e lo si attende.

Quando Francesco scrive il suo Testamento lo fa proprio a partire dalla categoria dell’incontro. Tutto per lui è stato un incontro. Dapprima l’incontro con il lebbroso e con i poveri, poi quello con il Cristo di San Damiano e con il Vangelo alla Porziuncola, poi ancora l’incontro con la Chiesa e quello con i fratelli che gli chiedono di vivere come lui. Inoltre, l’incontro con Chiara, quello con il sultano, con chi condivideva il suo sentire come con chi faceva fatica a trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda. Infine, l’incontro con la sofferenza e persino con il non riconoscimento da parte dei suoi fratelli dai quali verrà rifiutato.

Prima di conoscere il Signore, al centro della sua vicenda c’è Francesco e Francesco soltanto: tutto ruota attorno a lui, concentrato com’era su se stesso. Gli altri esistono nella misura in cui sono funzionali a lui e ai suoi sogni di gloria. Quando accetta di rientrare in se stesso e smette di adorare se stesso, la vita di Francesco si popola di volti: tutti diventano suoi fratelli, persino gli animali e le cose.

La vita di Francesco ha inizio quando offre diritto di ospitalità all’altro così come gli si presenta, alla vita come accade, quando accoglie ciò e chi è altro da sé. È possibile convertirsi – e Francesco lo attesta – quando ti accorgi che oltre te c’è altro, quando scopri di essere unico ma non l’unico, quando accetti di non essere il centro di riferimento di ogni cosa: c’è altro a cui cedere il posto se vuoi fargli spazio.

Qualcosa di nuovo accade nella vita di Francesco quando smette di rincorrere un’immagine di sé falsata per misurarsi, invece, con chi egli è realmente.

E, tuttavia, questo non accade mai in modo indolore: la vita è generata sempre attraverso un travaglio. La prima esperienza di morte Francesco la vivrà proprio nell’iniziare ad affidarsi a qualcuno, non senza un’esperienza di buio e di fatica.

È l’incontro con l’altro, chiunque egli sia, che plasma l’identità nuova di Francesco. Ogni momento, ogni situazione, ogni persona diventano quel materiale prezioso attraverso cui qualcosa del vecchio Francesco viene messo a morte per generare l’uomo pensato secondo Dio.

Ripenso alle tante situazioni con cui mi confronto e alla rigidità con cui le affronto: a volte si resta impermeabili a tutto, persino all’incontro con il Signore, un incontro che non segna un prima e un poi. Convertirsi, ci ricorda Francesco, è offrirsi agli eventi così come accadono: il problema non è che non accada più nulla. Semmai lo è il fatto che siamo già morti prima della morte: per questo i nostri occhi non si dischiudono più. Gesù non è forse l’imprevisto per la samaritana? Non lo è per Zaccheo che si credeva tranquillo su quell’albero di fortuna o per Matteo che se ne stava al banco delle imposte o per quanti altri di cui le sorprese del cammino sono rimaste nascoste? L’altro, ossia l’imprevisto per eccellenza è il modo attraverso cui Dio ci visita. Già: perché a tutte le ore succede qualcosa.

Guardando a Francesco si scopre che proprio la sua disponibilità a lasciarsi trasformare dalla vita, gli permetterà di trasformare la morte. Tutto diventa occasione e motivo per amare senza tirarsi indietro. E così, proprio il dolore diventerà il luogo dell’amore vero.

stampa la pagina



Gli ultimi 20 articoli