Franco Garelli "La chiesa alla prova della pandemia. La Chiesa ritroverà il suo popolo?"
La chiesa alla prova della pandemia. La Chiesa
ritroverà il suo popolo?
L’effetto “scrollo”. I credenti più impegnati e
i “cattolici culturali”.
Franco Garelli
1. La Chiesa ritroverà
il suo popolo?
In questo tempo troppo
lungo della pandemia, c’è una preoccupazione diffusa negli ambienti ecclesiali
italiani che si esprime sotto forma di dubbi e di interrogativi ‘vitali’. Al termine di questa drammatica emergenza, torneranno i precedenti
equilibri, oppure la pandemia avrà modificato in profondità lo scenario
religioso del paese? Detto altrimenti: la Chiesa ritroverà il suo popolo? Chi
era solito partecipare in modo assiduo ai riti comunitari tornerà alla messa
domenicale in presenza o l’esperienza delle celebrazioni in streaming ha reso
più labile questo legame? Quali sono gli effetti del lockdown prolungato sulle
attività formative della chiesa di base, sui corsi di preparazione ai
sacramenti della vita cristiana, sulla formula e sulla prassi degli oratori,
sulle stesse dinamiche del volontariato di matrice cattolica?
Interrogativi come questi
sembrerebbero dunque auspicare perlomeno il ritorno ad un recente passato che
già di per sé non era roseo, in quanto segnato da un lungo processo di
secolarizzazione delle coscienze. Tuttavia, la situazione religiosa sembrava
sin qui ancora aperta ai valori cattolici, pur in un contesto in cui i credenti
per tradizione e cultura risultavano da tempo assai più numerosi dei credenti
‘convinti e attivi’. Il timore che oggi pervade molti ambienti religiosi è che
l’esperienza della pandemia possa produrre un ulteriore “scrollo” dell’albero
della fede e della chiesa in Italia, attenuando ulteriormente legami già labili
in ampie quote di popolazione, spezzando il ritmo delle proposte e delle
attività delle chiese locali, innescando (anche grazie ad internet) percorsi di
ricerca e di espressione religiosa oltre i confini abituali.
L’effetto ‘scrollo’
sembra già in atto, soprattutto per le persone il cui rapporto con la fede
cristiana e con la Chiesa appare più nominale che sostanziale; quelle che più
possono essere in difficoltà a discernere in chiave religiosa il dramma della
pandemia; quelle che meno interpretano la fede come una risorsa per la vita.
Per cui sembra questo il gruppo sociale che più interpreta il lockdown anche
come sospensione delle attività religiose, come allentamento di quei legami
(presenza ai riti comunitari, catechesi per i figli, rapporti con gli ambienti
religiosi) già di per sé vissuti più come un retaggio dell’ambiente e della
tradizione che come il frutto di una convinzione.
Diverso è invece lo
scenario dei credenti più impegnati, di quella minoranza religiosa che (come
alcune indagini hanno evidenziato) è risultata molto attiva nel periodo clou
della pandemia, compensando l’impossibilità di partecipare in presenza ai riti
comunitari, con uno zapping religioso e spirituale assai vivace ancorchè
disordinato, e aperto alle più diverse esperienze.
In sintesi, con
riferimento alla pratica e alle attività religiose, la Chiesa ritroverà il suo
popolo? Le parrocchie e la chiesa locale stanno oggi ritrovando i loro fedeli
più impegnati, pur a fronte di una comprensibile incertezza della quota più
anziana; mentre l’esperienza della pandemia sembra rendere ancor più volubile e
discrezionale la presenza ai riti dei credenti tiepidi o discontinui.
Ma su questo punto c’è
anche il rovescio della medaglia. In quanto il lockdown prolungato costituisce
una prova della capacità di attrazione esercitata dalle varie chiese e comunità
locali, Quelle più dinamiche e significative sembrano aver avuto un buon
ritorno di fedeli in presenza, mentre lo stesso non si può dire per gli
ambienti religiosamente più neutri e meno vivaci. Insomma, anche nel lockdown
la domanda sembra da mettere (almeno in parte) in relazione all’offerta.
2. I simboli
cristiano-cattolici nella tragedia del Coronavirus
L’effetto “scrollo” di
cui ho parlato, non sembra comunque indicare che vi sia un’uscita degli
italiani dalla cultura cattolica, come alcuni osservatori rilevano e come non
pochi uomini di chiesa temono. Certo, nell’insieme (come noto nelle mie
indagini) quello che oggi abbiamo di fronte è un cattolicesimo stanco, qualcuno
lo definisce esausto. Si tratta di una stanchezza che si manifesta soprattutto
nella caduta della pratica religiosa, nell’incertezza delle credenze, in un
rapporto assai ambivalente con la chiesa, in una presenza negli ambienti
ecclesiali più di teste bianche o calve che di teste folti o rasate; quindi di
un cattolicesimo più in sintonia con gli adagi della vita che con gli allegri. C’è un gap generazionale e sociale che pesa
oggi sul cattolicesimo italiano: da un lato gli indici di religiosità si
riducono sensibilmente man mano che si passa dalla condizione dei “nonni a
quella dei loro “figli” e alla situazione dei nipoti; dall’altro, la Chiesa
attrae assai più le persone con un livello medio-basso di istruzione e quanti
vivono nelle aree del paese meno dinamiche che coloro che manifestano altri
profili.
Quanto questa
stanchezza del cattolicesimo è dovuta a fattori esterni/oggettivi (al processo
di secolarizzazione, alla perdita di evidenza della fede religiosa nella
modernità avanzata); o quanto essa è imputabile anche a una
chiesa/cattolicesimo che fatica a raccordarsi alla coscienza moderna? E anche a
un clero che, in quanto sempre più anziano, ha difficoltà a dialogare con le
nuove generazioni?
Tuttavia, ancor oggi,
la maggior parte degli italiani continua in qualche modo a mantenere un legame
con la religione della tradizione, si considera – anche se con intensità e
qualità diversa – nell’alveo della cultura cristiana/cattolica.
Ciò che è successo nei
mesi più turbolenti del Coronavirus ne costituisce una conferma. Nella
tragedia, sono tornati alla ribalta i simboli di una cultura cristiana e
cattolica pur in una società alle prese con un lungo processo di
secolarizzazione delle coscienze.
Si pensi, ad esempio,
al rilievo attribuito nel periodo alla figura e ai gesti di papa Francesco,
oggetto di un riconoscimento pubblico che è andato oltre le contrapposizioni
ideologiche sulla questione della laicità dello Stato e sul ruolo della Chiesa
cattolica in un’Italia in cui molti ormai credono diversamente. O si pensi,
ancora, al rinnovo dei voti ai santi patroni che si è registrato in molti
centri di piccola-media dimensione e in alcune grandi città, per chiedere loro
di intervenire per liberare la popolazione dal male, come non avveniva dai
tempi della guerra. Una pratica questa, che non sembra aver sollevato
particolari obiezioni pubbliche, quasi rientrasse tra le attese
sacrali/religiose connesse ad eventi drammatici.
Durante il lockdown
poi, non sono mancate critiche pubbliche
alla Chiesa cattolica, ritenuta troppo pavida rispetto alle decisioni del mondo
politico che la riguardavano; o relative sia alla sua eccessiva preoccupazione
di riaprire le chiese e le celebrazioni liturgiche, sia circa il modo di
impiego del personale religioso. C’è chi al riguardo ha affermato che nella
chiesa di oggi sono mancati i santi, quelli che in epoche lontane - ai tempi di
San Borromeo – sfidavano la morte per soccorrerei malati di peste.
Tuttavia, sono emersi
anche dei significativi riconoscimenti da parte di autorevoli esponenti del
mondo laico, come l’elogio dei parroci
vittime di questa pandemia per il loro impegno pastorale; o l’ammissione che in
tutto il periodo il mondo cattolico più impegnato si è distinto per un fermento
comunicativo (pur disordinato) di cui non si è avuto analogo riscontro in altre
aree culturali. Tra i riconoscimenti più toccanti, vi è stato l’elogio dei
parroci vittime di questa epidemia per il loro impegno pastorale. Nelle parole
di un noto editorialista laico (F. Merlo, su La Repubblica) nella strage dei parroci “c’è la nostra storia
nazionale”, che è fatta di tanti preti “ai quali l’Italia ha affidato
l’educazione dei bambini, il recupero dei tossicodipendenti, l’accoglienza agli
immigrati”. “Ci siamo dimenticati di loro”, tutti presi a “dibattere di
crocifissi da (non) togliere dai muri” o dei casi di pedofilia del clero. E
invece “questi 105 parroci morti” nella pandemia “ci rimescolano e ci fanno
piangere. (…) E’ un’antropologia cristiana che, persino nella tragedia del
Coronavirus, sfidando il contagio, crea comunità e conforto, assiste, chiude
occhi, benedice bare e… muore”.
La tragedia, dunque, ha ribadito ancora una
volta che il riferimento cattolico resta vivo e maggioritario nel paese. E ciò
pur in un’epoca in cui aumenta la differenza culturale e religiosa, per la
maggior presenza sia delle posizioni ateo-agnostiche, sia dei seguaci di fedi
religiose diverse, sia ancora di quanti praticano le nuove forme di
spiritualità.
In sintesi, anche nell’epoca del Coronavirus è
emersa l’ambivalenza religiosa del caso italiano. Di un paese non privo di
sentimento religioso, ma vissuto da molti più nel proprio intimo che nella
presenza ai riti comunitari; che in varie circostanze si sente rappresentato
umanamente e spiritualmente dal Papa, pur avendo un rapporto assai freddo con
la dottrina e la morale della chiesa; che rivaluta più la chiesa locale (e
soprattutto i preti che condividono il destino della loro gente) che quella dei
piani alti. Un paese, ancora, in cui molti riscoprono la fede della tradizione
di fronte alla crescita ‘sotto casa’ di fedi e culture prima assai distanti da
noi; o nel quale buona parte del mondo laico (e delle minoranze religiose)
riconosce l’autorevolezza spirituale di alcune figure cattoliche, pur
rivendicando da parte dello Stato e della Chiesa cattolica un maggior rispetto
del pluralismo religioso.
3.
Dinamiche del cattolicesimo impegnato. Un approfondimento.
Le diverse reazioni del “mondo cattolico” nel
tempo della pandemia e del confinamento meritano di essere approfondite.
Il maggior dinamismo, come s’è accennato, ha
riguardato l’area dei cattolici impegnati, quel cattolicesimo di minoranza che
nel nostro paese risulta ancora di una certa consistenza. Si tratta di circa
1/5 della popolazione italiana, composto da quei credenti/cattolici “convinti e
attivi” (anche se non sempre in sintonia col magistero) che frequentano con
buona regolarità i rituali religiosi, considerano la fede un principio vitale e
presentano una comune visione sui temi della famiglia, della bioetica, della
solidarietà, dell’educazione dei figli. E’ questo il bacino che alimenta il
tessuto di tante parrocchie, comunità, associazioni e reti di volontariato.
Non mancano in questo gruppo delle differenze
di sensibilità. Alcuni credono di più in una fede testimonianza, che accetta la
società plurale e la diversità religiosa. Altri sono più inclini a un
cattolicesimo identitario, per cui si battono per i “valori irrinunciabili” e
vivono a disagio in una società (in un’Europa) che misconosce le sue radici
cristiane.
Questo zoccolo duro del cattolicesimo italiano
non sembra aver patito più di tanto il divieto o l’annullamento delle
celebrazioni liturgiche decretato dal governo, in quanto sufficientemente ricco
di risorse (di punti e figure di riferimento, di prassi relazionali, di voglia
riflessiva) che si sono prontamente attivate in nuove forme comunicative.Per
molti cattolici impegnati il lockdown necessitato è stata un’occasione inedita
di confronto e di partecipazione spirituale.
Non c’era solo un bisogno di espressione
religiosa da soddisfare; né solo l’esigenza di restare connessi con gli amici e
le persone affini, per rinsaldare da remoto i rapporti comunitari e farsi
coraggio. Oltre a ciò era forte l’esigenza di capire, di trovare degli
ancoraggi, di accettare o svelare il mondo di mistero che ci ha sorpresi e reso
fragili. Ma anche di riflettere sul dramma che la società e i popoli stavano
vivendo, sui costi umani e sociali dell’emergenza sanitaria ed economica, sugli
effetti perversi della globalizzazione, sui limiti di un modello di sviluppo
che si pensava onnipotente e capace di autoregolarsi, sull’incapacità dei
grandi stati e dei governi di prevedere e governare processi complessi.
In questo quadro, si può dire che il lockdown abbia
favorito un nuovo dinamismo in quest’area cattolica più impegnata. Lo zapping digitale
attuato nel periodo da molti credenti/cattolici impegnati ha ampliato i loro
orizzonti, ha fatto loro conoscere nuovi siti e nuove esperienze religiose, li
ha abilitati a navigare nel mare ampio delle offerte spirituali. Molti si sono
spinti – nella loro ricerca di senso –
oltre i confini ordinari, entrando in contatto con le realtà più diverse,
maturando nuovi punti di riferimento, scoprendo la varietà dell’espressione
religiosa e spirituale sia dentro che fuori dal proprio mondo. Soprattutto cogliendo
il fascino di un nomadismo religioso assai congruente con la coscienza moderna,
dove è il soggetto a dominare la scena e a muoversi in modo libero e selettivo
tra le varie proposte di significato che incontra nel suo cammino.
Questo dinamismo, ovviamente, non nasce oggi,
non è un lascito soltanto del confinamento. Ma è indubbio che con il lockdown
si sia irrobustito, abbia fatto maggior breccia tra i credenti/cattolici
impegnati, portandoli a vivere in modo più flessibile e aperto la loro presenza
negli ambienti ecclesiali. Dietro questa propensione non c’è tanto la ricerca
di una chiesa o di preti più accomodanti, la domanda di scorciatoie in campo
etico e religioso; quanto la voglia di un cristianesimo più connesso alle
attuali condizioni di vita, in grado di proporre
un discorso sull’uomo, sulla natura, sulla vita sociale che sia significativo
per la coscienza moderna.
Sullo sfondo, si coglie comunque l’incertezza per il futuro di questa
sub-cultura cattolica, oggi ancora vivace, ma le cui quote giovani si stanno
via via assottigliando.
4. E che ne è dell’area grigia della religiosità?
Le riflessioni sin qui fatte non si applicano
invece a quel folto insieme di italiani che costituiscono la “penombra
cattolica”; quelli descritti a suo tempo dal cardinal Martini come i cattolici
che rispetto all’albero della fede (e a
quello della chiesa) rappresentano non la linfa o il tronco, ma la corteccia,
se non il muschio. Coloro che, in altri termini, sembrano essere attaccati solo
esteriormente all’albero.
Come ho detto, è
questo il profilo o il gruppo cattolico che ha vissuto la pandemia (dal punto
di vista religioso) più da spettatore che da protagonista. Ciò non toglie che
molti di questi soggetti abbiano condiviso (nel periodo considerato)
riflessioni e inviti meditativi; o abbiano avvertito il senso del mistero, del
limite umano, della necessità di ritrovare nuovi equilibri. Ma tali
stimoli sembrano aver avuto – per questo
insieme di soggetti – perlopiù un effetto di breve periodo, senza innescare un maggior
impegno religioso.
La debole reazione
ai tempi del Coronavirus appare congruente con i tratti di questo cattolicesimo
diffuso, che potremmo definire ‘culturale’ o ‘etnico-culturale’. Si tratta oggi
dello stile cattolico più diffuso, in forte crescita negli ultimi decenni, tipico dei molti italiani che continuano a
definirsi credenti e cattolici più per ragioni ‘ambientali’ o di ‘nascita’ (per
il fatto di essere nati e cresciuti in un contesto cristiano) che per
motivazioni specificamente religiose o spirituali. Un tipo di cattolicesimo che
oggi accentua la sua matrice identitaria (o etnico-culturale, appunto), anche
per reazione al diffondersi nel paese di altre fedi e culture. E’ questa anche
l’area cattolica che guarda con maggior favore ai simboli cristiani che tornano
alla ribalta della cronaca politica; che risulta quindi più sensibile ai
messaggi lanciati dalle forze sovraniste.
Il diverso modo in
cui l’area cattolica (analizzata in questo caso nei due tipi religiosi
prevalenti) ha vissuto l’esperienza della pandemia, mi conferma nell’idea che
non sia più possibile rappresentare il nostro Paese come quello caratterizzato
ancora da un “cattolicesimo di popolo”. Perché troppe sono le differenze di
sensibilità tra questi due mondi, perché si tratta di realtà che si stanno
sempre più separando; caratterizzati da una diversa biografia religiosa, da un
diverso grado di alfabetizzazione al linguaggio cristiano.
Come comportarsi di fronte ai credenti/cristiani
perlopiù nominali e ‘impliciti’? Che valore attribuire a questo legame
religioso? Come far convivere sensibilità religiose così diverse? Questa area grigia
della religiosità è vista con sospetto o sufficienza in vari ambienti
ecclesiali, come una fede residua o decaduta. Eppure anch’essa coltiva le sue
domande di senso, pur difficili da decifrare; o esprime un bisogno di Dio o del
sacro che si attiva in particolari circostanze. Molte persone stanno ai margini
della fede e della chiesa perché non si sentono accolti e rappresentati; o
perché hanno un contenzioso con la fede e la chiesa che viene da lontano.
Di
per sé, può essere questa l’area di impegno di una Chiesa “in uscita”, come la
vorrebbe papa Francesco: che non si rapporta soltanto ai pochi che stanno nel recinto, ma
guarda ai molti ormai situati oltre gli steccati. Qui sta una delle grandi intuizioni
dell’attuale pontefice, che dimostra di ben conoscere la composizione del suo
gregge; attento non soltanto ai “vicini”, ma ai molti che pur standosene ai
margini sono restii a spezzare del tutto l’antico legame. Ecco la Chiesa
“ospedale da campo”. Una chiesa che – a detta del Papa – deve essere capace di
curare le ferite, riscaldare il cuore dei fedeli. “E poi potremo parlare di tutto il resto”. “Dobbiamo annunciare il vangelo su ogni strada, predicando la buona
notizia del Regno e curando ogni tipo di malattia e ferita”.
5. Crisi di leadership e deficit di discernimento
E
vengo ad un altro punto della riflessione. L’esperienza della pandemia non ha
reso soltanto più evidente una frattura interna al cattolicesimo italiano.
Oltre
a ciò, vari esponenti del mondo cattolico hanno colto un dramma nel dramma,
hanno maturato la sensazione che la Chiesa (come soggetto collettivo, come
corpo sociale, come struttura organizzata) sia stata del tutto marginale nella
gestione e nell’interpretazione dell’emergenza sanitaria. La chiesa è stata
reattiva in varie realtà locali, nelle molte azioni di solidarietà, nei preti
che hanno affiancato i medici e gli infermieri, nella figura di riferimento del
pontefice. Ma al di là di questi aspetti, l’impressione diffusa è che la Chiesa
italiana nel suo insieme non sia stata capace di giocare un ruolo di rilievo
nell’imprevedibilità della tragedia: quel ruolo che le deriva dall’essere una
componente importante nel paese, custode
di un messaggio religioso che accompagna tutte le vicende umane, dall’avere il
compito di aiutare il popolo di Dio a discernere soprattutto le tappe più
difficili del suo cammino nella città terrena.
Molti hanno denunciato questa ‘afonia’ pubblica
e spirituale della Chiesa alta nell’emergenza sanitaria, proprio in un momento
in cui la politica e la scienza hanno giustamente dominato la scena, ma nel
quale si apriva un grande spazio per offrire alle persone non soltanto risposte
tecniche a ciò che stava succedendo, ma anche prospettive umane e spirituali di
cui si avverte un gran bisogno proprio nei periodi più ostici.
L’italiano medio (ha detto qualcuno) ha vissuto
male l’assenza della ‘sua’ chiesa a questo livello. Una chiesa che sembra
dunque aver subito la situazione, non soltanto per le ‘chiese chiuse’ o di
fronte a un potere politico che ha condizionato l’autonomia e le scelte del
mondo ecclesiale, ma anche per la difficoltà di riflettere pubblicamente sui
drammi che si stavano vivendo, sulle morti in solitudine e senza funerali,
sulle bare accatastate, sul senso di eventi che hanno stravolto la vita umana,
civile e quella ecclesiale.
Un qualificato teologo ha letto la grande prova
dell’anno 2020 come una conferma della preoccupante evanescenza della
dimensione escatologica del cristianesimo; come a dire che dinanzi all’ecatombe
di morti da coronavirus non siamo stati in grado di richiamare la speranza
ultraterrena nella risurrezione, per cui la comunicazione pubblica della fede è
stata debole o pavida in questo dramma sociale e sanitario.
Ad eccezione del Papa e di qualche caso esemplare, si è avvertita la
carenza di figure religiose di rilievo e di grande autorevolezza capaci di
accompagnare la nazione in questa esigenza di riflessione spirituale e di
autocoscienza.
Nella pandemia, dunque, la Chiesa ha
manifestato la sua fragilità, una fragilità che tuttavia viene da lontano.
Perché il cattolicesimo sta vivendo nelle nostre società la sua stagione
autunnale, testimoniata dal calo della pratica religiosa e della domanda dei
sacramenti, dalla crisi delle vocazioni, dalla difficoltà degli uomini di
chiesa di intercettare le istanze culturali e spirituali dell’epoca attuale. E
poi da tutta una serie di questioni irrisolte che condizionano la presenza
della chiesa e delle comunità locali nell’epoca attuale, come la carenza di
leadership, il ruolo subordinato delle donne, le divisioni interne al mondo
cattolico, il peso delle strutture ecc.
Di qui l’idea del declino della chiesa e della
cultura cattolica nell’Italia di oggi, della perdita di attrattività della
chiesa, della sua irrilevanza sociale, culturale e spirituale. E la minor
incidenza del cattolicesimo nella vita pubblica, nonostante il grande ruolo che
esso continua a svolgere nella società a livello caritativo ed educativo. Lottare contro l’irrilevanza (è stato detto)
non è aspirare al potere o ad un nuovo interventismo politico, come alcuni
gruppi cattolici vorrebbero. Ma è impegnarsi perché la cultura cattolica (che è
una radice importante del paese) sia feconda anche in questa società,
contribuisca ad arricchire le coscienze, a rendere più umana e spirituale la
nazione.
6. Le tensioni del tempo lungo del pontificato
Questo
tempo troppo prolungato dalla pandemia, è stato anche un periodo caratterizzato
da molte tensioni all’interno della chiesa di Roma, e dell’insieme della
cattolicità.
Papa
Francesco gode ancor di un elevato consenso nella sua chiesa e tra molti non
credenti. Tuttavia, è evidente come (in questa seconda fase del suo pontificato)
la sua azione e figura si presentino sempre più come un segno di
contraddizione. Col passare gli anni, sembrano crescere (o comunque non
diminuiscono) le prese di distanza all’interno del mondo cattolico circa la sua
visione e gestione della chiesa.
Così
si ha l’impressione di un papa che è al centro di una contesa tra “i
progressisti” e “i tradizionalisti” che non si attenua nel tempo. Di qui le
voci ricorrenti che nei piani alti della chiesa si stia progettando il dopo
Francesco; ma anche la constatazione che nelle comunità cristiane (nei piani
bassi della chiesa) cresca la quota di fedeli che ha difficoltà a raccordarsi
in toto gli indirizzi e gli orientamenti di questo pontificato.
Ciò
che fa problema ad una parte dell’episcopato e dei fedeli non sono tanto le sue
prese di posizione sulla questione dei migranti, che pur sono un elemento di
divisione nell’opinione pubblica italiana e in parte in quella ecclesiale; né
il fatto che sia andato a vivere a Santa Marta (un gesto di essenzialità e
povertà che viene ammirato); né ancora che abbia rapporti tesi con la Curia,
che pur ha difficoltà a riformare. Le riserve nei suoi confronti riguardano
altri temi, hanno radici più dottrinali e istituzionali. Tra le critiche, c’è
l’idea di un papa che ha reso un po’ spoglia la sua chiesa e la liturgia stessa;
più incline a parlare della ricerca della verità che a ribadire la centralità
della verità cristiana; la cui aperture in campo morale non sembrano
sottolineare a sufficienza la distinzione cristiana; un Papa ancora che sembra
un po’ depotenziare il suo alto ruolo con le interviste a braccio che rilascia
in areo, al ritorno dai grandi viaggi, su temi impegnativi per la coscienza
cristiana, che richiederebbero (a detta dei critici) pronunciamenti più attenti
e ripensati
C’è una parte del
popolo di Dio che non è pronta ad accettare questo stato di cose, questa
visione della realtà; che vorrebbe una chiesa non solo mater, ma soprattutto
magistra; reattiva ad un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità;
che teme che dietro l’affermazione “chi sono io per giudicare un gay”… ci sia
un cedimento su alcune convinzioni morali ritenute non ‘negoziabili’.
Che
fare dunque come comunità cristiana per compore queste tensioni e le diverse
sensibilità? Ecco un tema che ci
interpella tutti.
7. In sintesi
Ho elencato alcuni
aspetti problematici dell’essere chiesa e comunità cristiana oggi, dopo o
dentro la prova della pandemia. Tuttavia in questo scenario si colgono pure numerosi
segni di speranza. Non solo per le molte comunità credenti che operano in modo
costruttivo sui vari territori, sia a livello solidale e caritativo, sia in
campo educativo, sia con proposte spirituali coinvolgenti. Ma anche per la
grande domanda di senso che ancora si riscontra in molti italiani (come emerge
dalle mie ricerche). Concordo con quanti affermano che “la nostra è una società post-cristiana, ma ciò non significa che sia
anti-cristiana”; e con la riflessione di Enzo Bianchi di qualche anno fa,
quando aveva parlato di “un
mondo non cristiano, eppure ancora capace di ascoltare il Vangelo”.
Ancor oggi, infatti,
l’apertura al senso del mistero della vita risulta diffusa nella popolazione,
come è emerso appunto nel dramma della pandemia, e come ci dicono due dati
empirici recenti poco conosciuti o su cui poco si riflette: oltre il 70% degli
italiani ammette (anche nell’epoca attuale) che credere in Dio sia un bisogno dell’uomo;
e una quota analoga ritiene che non sia anacronistico avere una fede religiosa
nella modernità avanzata. Si tratta di convinzioni perlopiù radicate tra i
credenti, ma espresse anche da circa la metà delle persone “non credenti”, le
quali dunque ammettono la legittimità di un’opzione ultima (per l’uomo
contemporaneo) anche se la cosa non li riguarda.
Qualche
testo di riferimento:
F. Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso
nell’Italia incerta di Dio, Il Mulino, 2020.
F.
Merlo, Cari, amati preti da oratorio vi
sia lieve la terra, in “La Repubblica”, 14 aprile 2020, pag. 30.
Essere
Qui, Il gregge smarrito. Chiesa e società
nell’anno della pandemia, Rubettino, 2021
A.
Riccardi, La Chiesa brucia? Crisi e
futuro del cristianesimo, Laterza, 2021.