Enzo Bianchi "Ricordare i morti per onorare la vita"
di ENZO BIANCHI
per gentile concessione dell’autore.
Già il grande Omero osservava che “le generazioni umane sono come le foglie degli alberi”, e
anche noi in questi giorni autunnali vedendo le foglie che cadono dagli alberi siamo portati a questo
paragone. D’altronde anche l’abbreviarsi dei giorni, il sopraggiungere del buio, l’apparire delle
nebbie… Tutto ci parla della vigilia dell’inverno, quando la terra riposa e la vita sembra
abbandonarla. Forse per l’atmosfera è stata fatta la scelta di ricordare i morti in questi giorni.
Ricordare i morti, pensare ai morti, è semplicemente riconoscerci debitori verso chi ci ha preceduto
ed essere consapevoli che trasmettiamo ciò che da loro abbiamo ricevuto. Viviamo un’ora in cui
sovente ci viene ricordato che siamo debitori verso le generazioni future, che determiniamo la vita
di chi verrà dopo di noi, a livello culturale, politico, economico, ecologico; ma è possibile lasciare
una buona eredità se non si è capaci di riconoscere l’eredità ricevuta?
Ricordare i morti è assumere una responsabilità, è acquisire una dimensione necessaria al nostro
passaggio su questa terra come mortali, inseriti in genealogie non solo familiari ma culturali. È
molto significativo che nella tradizione ebraica e cristiana sia stato percepito come necessario il
seppellimento, un luogo nel quale il corpo trova collocazione, segnato da una pietra che testimonia,
attraverso il nome, un’esistenza terrena unica conclusasi con la morte.
Proprio perché il ricordo è essenziale all’umanizzazione, non solo l’Homo Sapiens, ma già l’uomo
di Neanderthal dava sepoltura ai suoi morti, sovente li riuniva in un luogo e deponeva fiori sui loro
cadaveri. Testimonianza, questa, di una coscienza della morte inscritta tra gli elementi più decisivi
nella differenziazione tra umani e animali.
Ricordare i morti, però, conduce anche a pensare la morte e a interrogarci sul senso della vita. La
certezza di dover morire unisce uomini e donne, è la base dell’etica dell’empatia, della
compassione, è ciò che ci spinge a sentirci tutti e tutte insieme fragili, con un comune destino, e
nello stesso tempo ci porta a essere consapevoli del valore della nostra vita: unica, una sola, una vita
di istanti eterni.
Nella nostra tradizione ebraica e cristiana in questi giorni si va a “visitare” i morti nei cimiteri:
luoghi dove si piange, si vivono nostalgie, si misurano e si contano i propri giorni. Credenti e non
credenti compiamo questo gesto che sentiamo doveroso verso chi abbiamo amato, verso coloro ai
quali, proprio perché li amavamo, dicevamo con convinzione: “Tu non morirai!”, come suggerisce
Gabriel Marcel. Ma i cimiteri sono anche luoghi di pace, in cui quelli che erano nostri nemici sono
morti, e quindi ora non sono più nemici, mentre quelli che erano amici, anche se morti, continuano
a essere tali, fedelmente. Rainer Maria Rilke ci ha lasciato questa preghiera che faccio mia nei
cimiteri: A ciascuno, Signore, dona la sua propria morte, il morire che viene dalla sua vita nella
quale trovò amore, senso e anche pena.
Questi pensieri non sono lugubri, né devono incutere tristezza, ma vogliono indicare la bontà del
pensiero del limite, che noi cerchiamo sempre, soprattutto oggi, di rimuovere, tentati da un
individualismo che nega i legami e spegne la responsabilità. La pienezza di vita nell’accettazione
della finitudine accende la nostra speranza e ci impedisce di pensare a una eternità nel nulla.