Massimo Recalcati "Si cura a scuola la paura di vivere dei nostri figli"
La Stampa, 13 settembre 2021
L’anno scolastico che inizia oggi per molti giovani è all’insegna di una vera riapertura. Per un verso l’apertura,
come ho in più occasioni segnalato, è una definizione della Scuola in quanto tale. A cosa serve la Scuola se
non ad aprire le teste, i corpi, la vita dei nostri figli? A cosa serve se non a rendere possibile il pensiero critico,
a fare comunità, ad esporsi alla sorpresa dell’incontro? Per un altro verso però la pandemia che ha imposto
forzatamente la chiusura della Scuola per ragioni sanitarie, rende questa apertura già iscritta nel Dna della
Scuola ulteriormente significativa. Abbiamo, in questo tempo traumatizzato, constatato, non senza un certo
stupore, che la Scuola è stata finalmente avvertita dai nostri figli come una mancanza. È un meccanismo
psicologico conosciuto: nulla come la privazione di qualcosa che si dava per scontato può valorizzarne
l’esistenza.
Per molti dei nostri figli, anche per quelli per i quali essa era vissuta come un peso, la chiusura della Scuola è
stata percepita come una restrizione ingiusta della propria vita. Ritornare a Scuola significa allora innanzitutto
ritornare a vivere pienamente. Questo semplice dato di fatto dovrebbe essere in sé una bussola irrinunciabile
per comprendere l’importanza decisiva nella Scuola per il futuro del nostro paese. La comunità scolastica nella
sua composizione plurale e nella sua esistenza reale non è un’azienda, non deve generare profitti immediati,
non è il risultato di una tecnologia applicata, non può essere ridotta ad un luogo sterile di trasmissione di
informazioni e di competenze. Esiste un sostrato culturale più fondamentale della scuola che la rende un luogo
unico nel processo di formazione della vita. L’incontro con la cultura non è solo l’incontro con i diversi saperi
ma è l’incontro con la lingua prima della democrazia. Quale lingua? Quella che esclude l’esistenza di una sola
lingua. La democrazia è infatti, nel suo fondamento, incontro e contaminazione con la pluralità delle lingue.
Non vi sarebbe Scuola aperta se vi fosse una sola lingua. Non a caso quando le Scuole trasmettono dogmi
inviolabili, una sola lingua irrigidita nel suo codice senza vita, fomentano il terrore e il fanatismo rendendo
impossibile la formazione.
Nella Scuola la pluralità delle lingue non è solo tutelata dal lavoro degli insegnanti, ma informa anche il suo
essere una comunità. É quello che è mancato di più ai nostri figli: la possibilità dell’incontro con i propri pari.
La vita del gruppo costituisce una separazione necessaria dalla vita della famiglia. Se la vita del figlio resta
imbozzolata nella lingua della propria famiglia di origine, non c’è formazione, non c’è incontro possibile con
la pluralità aperta delle altre lingue. La vita in gruppo, la vita viva della comunità della Scuola, sostiene in
modo decisivo questo processo: rende possibile il passaggio dalla lingua materna alle altre lingue del mondo.
Il Covid ha invece rafforzato i legami familiari sottraendo ai nostri figli l’ossigeno a loro indispensabile della
vita al di fuori dalla famiglia. Non a caso un sintomo come quello degli attacchi di panico che ha nella
sensazione di mancanza d’aria una delle sue manifestazioni più eloquenti è apparso come un sintomo ricorrente
ed emblematico in molti giovani in questo periodo. Le misure di sicurezza hanno protetto la vita ma l’hanno
anche ammalata. Non a caso diversi giovani fanno fatica a tornare a Scuola, a ricominciare a vivere. La loro
prigione, necessaria alla difesa della salute, si è trasformata in un rifugio. La riapertura della Scuola spinge
anche questi ragazzi più in difficoltà a unirsi ai loro compagni. La paura di vivere è infatti uno dei sintomi più
inquietanti della giovinezza ipermoderna che il Covid ha potenziato. È il controcanto alla spinta iperattiva e al
consumo senza limiti di ogni esperienza che caratterizza la faccia egemone del disagio giovanile
contemporaneo. La paura di vivere è il disagio più segreto dei nostri figli: vivere l’incontro con l’aperto non
come un ossigeno necessario, ma come un fattore di angoscia e di destabilizzazione. Allora la Scuola deve
restare aperta soprattutto per chi si è rivelato più fragile e spaventato. È una delle sue funzioni culturali e civili
più alte: salvaguardare l’inclusione. É questa un’altra declinazione possibile del suo essere aperta. Essere
inclusiva non significa scoraggiare o non riconoscere il merito, ma essere garanti di coloro che cadono o che
corrono più piano.