Luigi Maria Epicoco "Mosè afghano"
Per quanto ci affanniamo con le parole a raccontare i fatti, ci sono immagini che sanno rendere l’idea meglio di mille parole. È quello che sta accadendo in Afghanistan in questi giorni.
Prima o poi nella vita, in ogni relazione di bene, bisogna che si arrivi alla maturità di un simile distacco: lasciare andare affinché la vita divenga possibile. Ma come per Mosè e come per i figli afghani, questo gesto non è la celebrazione di un distacco frutto di maturazione, ma un distacco traumatico frutto di violenza e sopruso. Nella nostra impotenza potremmo però diventare come Miriam e sentire la responsabilità di continuare a tenere lo sguardo su questi figli per vedere cosa ne sarà di loro, e cercare, come ella ha fatto, di trovare un modo affinché possa riaccadere un ricongiungimento necessario.
Qualcosa di simile è raccontato nel romanzo La strada di Cormac McCarthy. In un’atmosfera apocalittica un padre e un figlio tentano di salvarsi la vita mettendosi a fare un viaggio di cui sanno ben poco. Ma alla fine il padre non ce la fa, sente che è alla fine e spinge suo figlio a non arrendersi, a proseguire, ad andare avanti anche senza di lui: «L’uomo gli prese la mano, ansimando. Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. (…) Questo momento doveva arrivare da tempo. E adesso è arrivato. Continua ad andare verso sud. Fa’ tutto come lo facevamo insieme. (…) Voglio restare con te. Non puoi. Ti prego. Non puoi, devi portare il fuoco. Non so come si fa. Sì che lo sai. È vero? Il fuoco, intendo. Sì che è vero. E dove sta? Io non lo so dove sta. Sì che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo». Ancora una volta la storia ci mette davanti una tragedia. Abbiamo la responsabilità di non spegnere la speranza, di salvare il fuoco, di proteggere la vita specie quella dei più deboli, sapendo che dietro di loro c’è chi è disposto a sacrificarsi perché ciò accada. Il contrario del terrorismo è un amore così. Gesù stesso ci ha amati con un amore così.