Sabino Chialà "Nella preghiera cresce la nostra consapevolezza di essere figli, e figli amati"
Il modo di pregare di Gesù doveva avere qualcosa di particolare, di affascinante, se i discepoli, vedendolo raccolto, prima aspettano che abbia finito quasi per non interrompere un momento tanto intenso, poi chi gli chiedono che insegni anche a loro a fare altrettanto; e Gesù consegna una traccia, un canovaccio, perché questo è il “Padre nostro”. È quanto Luca ci racconta nel brano appena precedente il nostro (cf. Lc 11,1-4).
Ma subito aggiunge una precisazione, non richiesta dai discepoli, che egli evidentemente ritiene necessaria: “Poi disse loro …” (v. 5). Ai discepoli che hanno ammirato la bellezza di quel suo stare in preghiera, e che desiderano anch’essi farne esperienza, Gesù consegna delle parole e poi indica il modo per entrare in essa, rivelandone loro il prezzo: cioè che la preghiera richiede fatica. È un’intimità che si ottiene con la fatica della perseveranza. Difatti, come dice un apoftegma dei padri del deserto, tutte le lotte con il tempo vengono meno e chi le conduce trova pace, invece “la preghiera esige lotta fino all’ultimo respiro” (Serie alfabetica, Agatone 9).
La preghiera è una lotta, è un corpo a corpo che, come dice la parabola raccontata da Gesù, richiede insistenza e sfacciataggine. Non è razionale. È infatti difficile da comprendere con l’intelligenza. Per questo spesso, soprattutto la preghiera di intercessione, è stata mal compresa e banalizzata. Abbiamo presentato Dio come un despota severo che degli intercessori meno arcigni di lui tentavano di imbonire. Qui invece Luca ci dice che, a differenza di noi che siamo “cattivi” (v. 13), egli è buono e generoso.
Perché dunque chiedere? Peraltro nel vangelo secondo Matteo 6,8, passo parallelo al “Padre nostro” secondo Luca, Gesù dice di non domandare, perché il Padre sa ciò di cui abbiamo bisogno prima ancora che glielo chiediamo. E qui Luca esorta non solo a domandare, ma addirittura a insistere. Evidentemente quel dimorare nella richiesta non serve a convincere Dio, ma è la via per entrare nell’intimità con lui, per comprendere qualcosa dei suoi pensieri. Non vale come sforzo per far cambiare idea a Dio, perché faccia ciò che noi riteniamo necessario, ma come tempo in cui, dimorando presso di lui, facciamo in noi spazio a ciò di cui abbiamo veramente bisogno, lo “Spirito santo” (v. 13).
Perseverare e insistere nella preghiera è necessario perché ci fa dimorare presso Dio, perché ci fa fare esperienza della bontà del Padre che dona, perché purifica i nostri desideri conducendoci a comprendere che ciò di cui abbiamo davvero bisogno è lo Spirito santo. Così la preghiera diventa occasione di intimità con il Signore, di rendimento di grazie per i benefici che vengono da lui, di conversione e riorientamento dei desideri.
“Quale padre tra voi – dice Gesù – se il figlio gli chiede … Quanto più il Padre vostro del cielo, darà…?” (v. 13). La preghiera è il tempo e il luogo in cui ci è data occasione di crescere nella nostra consapevolezza di essere figli, e figli amati. È lì, nelle lunghe ore trascorse in preghiera, che Gesù ha assaporato il suo essere il Figlio amato; è lì che invita anche noi, perché riscopriamo e viviamo la nostra vocazione di figli.
La preghiera di domanda non intende relegarci nella condizione dello schiavo che deve elemosinare i favori del padrone, secondo un’immagine che ci è tristemente familiare, ma ci pone nella condizione di figli, faccia a faccia con un Padre buono e che vuole il loro bene.