Gianfranco Ravasi "VOI CHI DITE CHE IO SIA?" - Gesù storico e Cristo della fede
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Quinto evangelio s’intitolava il migliore e più affascinante romanzo di Mario Pomilio, pubblicato
nel 1975. Le ultime righe di quel
testo evocavano una domanda
che Gesù aveva indirizzato un
giorno ai suoi discepoli a Cesarea di Filippo, una città della Galilea situata alle
sorgenti del Giordano (Matteo 16,15): «Il
Cristo ci ha collocato di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Già
in quei giorni le risposte che circolavano
erano molteplici, e quella di Pietro è divenuta anche il ritratto fondamentale
adottato dalla fede cristiana nei secoli:
«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»
(16,16). È, comunque, interessante notare che l’evangelista Marco semplificava la
frase, impostandola solo in chiave messianica: «Tu sei il Cristo» (8,29).
Da allora è sterminata la serie delle risposte a quell’interrogativo da parte di credenti e non, così come imponente è la bibliografia che confermerebbe il giudizio del finale del Vangelo di Giovanni: «Se
fossero scritte una per una tutte le cose
compiute da Gesù, penso che il mondo
stesso non basterebbe a contenere i libri
che si dovrebbero scrivere» (21,25). La
base per ricostruire quella figura, che ancor oggi scandisce cronologicamente la
nostra storia, è costituita dai Vangeli,
quattro libretti appartenenti a un genere
letterario piuttosto originale, segnato appunto da questo vocabolo greco euanghélion, «buona notizia», usato anche
nella classicità ma con un’accezione militare, sportiva o imperiale.
i Vangeli, storia e messaggio
A differenza delle biografie greco-romane (ad esempio, le Vite parallele di Plutarco o il De viris illustribus di Svetonio), i
Vangeli intrecciano programmaticamente e sistematicamente storia e messaggio,
eventi e interpretazione, sarx («carne») e
Lógos trascendente, per usare il noto binomio del prologo giovanneo (1,14). È per
questo che è impossibile usarli solo come testi biografici o, al contrario, soltanto
come trattati teologici. Ed è proprio in
questo intreccio che si annida la molteplicità degli approcci interpretativi, sospesi tra due estremi, con infinite modulazioni intermedie. Da un lato, le riduzioni radicali a meri scritti mitici o teologici e, d’altro lato, le appropriazioni apologetiche storicistiche.
È così che è scattato il celebre dualismo
tra il Gesù storico e il Cristo della fede.
L’immensa bibliografia dedicata alla questione scoraggia in questa sede ogni tentativo di analisi. Se, ad esempio, si volesse seriamente contestare un saggio riduzionistico complesso come quello recente di F. Bermejo-Rubio sull’Invenzione di
Gesù di Nazareth, sarebbe necessario approntare una vasta documentazione e
un’argomentazione puntuale e rigorosa.
Noi ora ci accontentiamo – a livello divulgativo – di affrontare in una trilogia
di tappe solo qualche dato elementare
della ricerca sul Gesù storico evangelico.
Notiamo a margine che il «Gesù storico»
non coincide pienamente col «Gesù della storia», la cui vicenda fu ovviamente più
ricca di eventi, atti, parole, reali ma non
registrati, come accade alla completa storia personale di ogni figura.
Non si deve, poi, ignorare che paradossalmente di certi personaggi capitali del
passato abbiamo a disposizione molte
meno informazioni storiche di quelle riguardanti Gesù (si pensi, ad esempio, ad
Alessandro Magno). Certo, la documentazione evangelica da usare, come si diceva, è ardua da utilizzare correttamente
per l’impasto già evocato tra storia e teologia, tra memoria e fede, tra dati e kérygma che la costituisce. A margine notiamo
anche che le conferme esterne profane
sono secondarie e posteriori: la lettera X
di Plinio il Giovane, un passo degli Annali di Tacito (XV,44), di Svetonio, di Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche
(XVIII, 63-64), e del trattato talmudico
Sanhedrin (43a) e poco altro.
Cerchiamo, allora, in modo estremamente
semplificato di inseguire il percorso adottato in sede critica per cercare di identificare i dati autenticamente storici evangelici su Gesù. Dobbiamo, però, partire
dall’«inventore» della formula binaria già
citata, lo studioso tedesco Martin Kähler:
essa era presente già nel titolo di una sua
conferenza (il cui testo fu pubblicato a Lipsia nel 1892), Il cosiddetto Gesù storico e
il reale Cristo biblico. Alle sue spalle, però,
c’era già una lunga ricerca critica iniziata nel ’700-’800 con autori vari (Reimarus, Strauss, von Harnack, Renan e così
via). Nelle pagine di Kähler e negli stessi
saggi antecedenti (e susseguenti) appariva una figura bifronte: da un lato, l’uomo
Gesù di Nazareth, essere storico che ha
lasciato – come si è detto – qualche labile
traccia nei documenti romani e giudaici
e un’impronta decisiva (ma problematica) nei Vangeli; d’altro lato, il Cristo, figlio di Dio, Messia e Signore, che domina in tutte le pagine neotestamentarie.
l’uomo Gesù e il figlio di Dio
La domanda fondamentale era una sola:
il Gesù storico e il Cristo della fede possono essere accordati in un unico personaggio oppure il secondo prevarica e offusca il primo? Una risposta che condizionò molto la ricerca storica e teologica
del ’900 fu pronunziata da un altro professore tedesco, Rudolf Bultmann (1884-
1976), docente in un’università di provincia, Marburg, a una novantina di chilometri a nord di Francoforte, una figura
molto discussa divenuta famosa. Per comprenderla è necessario partire un po’ da
lontano e usare termini che diverranno
comuni nell’esegesi contemporanea.
Iniziamo col nome di una «scuola» a cui
partecipò anche Bultmann, quella di Formgeschichte, «storia delle forme (e formazione)» dei Vangeli. Per illustrarne il metodo ricorriamo a un’immagine. Il critico d’arte, quando deve studiare una tela
determinando l’elaborazione progressiva
del soggetto che su di essa è stato dipinto, può ricorrere anche alla radiografia:
essa rivela che sotto la superficie dell’opera finale sono spesso presenti abbozzi o
schizzi o varianti. Ebbene, quella «scuola» di ricerca voleva appunto andare al di
là della superficie dei Vangeli, cercando
di risalire oltre la redazione finale fino alla
predicazione dei primi annunziatori del
messaggio cristiano e possibilmente fino
alla memoria dello stesso Gesù.
Il desiderio era proprio quello di approdare alla sorgente, alle parole e alle opere
del Gesù storico. Si cercava, quindi, di delineare la «formazione» (Form) dei Vangeli nella loro storia (Geschichte). Questa
formazione si era attuata attraverso il calarsi delle parole e delle opere di Gesù in «forme» (Form) letterarie, simili a piccoli stampi fissi (pensiamo alle parabole, ai
racconti di miracoli, ai lóghia, cioè a frasi lapidarie o detti di Gesù, alle polemiche o controversie di Cristo coi suoi avversari e così via).
Questa operazione che selezionava e adattava le memorie di Gesù e su Gesù nella
cristianità delle origini avvenne – secondo questa «scuola» di studiosi tedeschi
sorta ai tempi della Prima Guerra Mondiale – sulla spinta di diversi contesti,
chiamati Sitz im Leben, cioè «situazione
nella vita» o ambiente vitale, entro cui venivano trasmessi la memoria e il messaggio di Cristo. Per Bultmann si trattava di
ambiti popolari, inclini alla creazione di
miti e di leggende, pronti a esasperare gli
aspetti clamorosi e religiosi, ad adattare
e a deformare la vicenda di Gesù secondo le istanze concrete delle varie comunità.
Sulla base di queste considerazioni è facile immaginare quale sia stato il risultato dell’investigazione della Formgeschichte e di Bultmann. Una parete divisoria
invalicabile separa il Cristo della fede, a
noi pienamente disponibile, dal Gesù storico: non sappiamo quasi nulla del Wie di
Gesù, cioè del «come» egli abbia parlato,
amato, vissuto; non sappiamo quasi nulla del suo Was («ciò»), cioè dei contenuti
reali della sua predicazione e della sua
umanità storica; sappiamo solo che Gesù
è stato un Dass, cioè un dato esistente, e
questo ci dovrebbe bastare perché i Vangeli vogliono presentare ai credenti solo
il Cristo della fede e della gloria pasquale, il Figlio di Dio, il Salvatore.
In sintesi, «in principio c’era soltanto la
predicazione», il kérygma, cioè l’annunzio di fede, e non il Gesù della storia. La
sorgente del cristianesimo non è nell’ebreo Gesù di Nazareth ma nel Cristo
predicato e creduto, nell’annunzio pasquale degli apostoli. Come è evidente, su
una via antitetica rispetto a quella razionalistica dei professori dell’Ottocento,
Bultmann, che aveva invece imboccato
una via fideistica, approdava però allo
stesso esito: il Gesù storico ci sfugge, avvolto negli incensi dell’adorazione cristiana; ad apparirci è solo il Cristo glorioso e
per gli evangelisti è solo lui che deve interessare. Fermiamoci per ora qui, in attesa di illustrare – sia pure sempre in
modo semplificato – in una puntata successiva l’investigazione critica sul Gesù
evangelico votata all’identificazione dei
dati storici autentici, isolandoli rispetto
alla dimensione teologica.