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Da Israele lamenti e grida, Dio risponde con la fedeltà

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Sui passi dell’Esodo
a cura di 

Dopo essere stato nel grembo cieco dell’Egitto e essere venuto alla luce – sempre in senso metaforico – dalle acque color sangue del Mare dei Giunchi, il neonato Israele si è trovato dinanzi alla visione del deserto, un orizzonte desolato e duro, dove avrebbe dovuto affaticarsi per sopravvivere.

Una metafora perfetta dell’umano venire al mondo dove, subito, si deve fare i conti coi bisogni primari. Ed ecco la prima infanzia della “creatura” del popolo di Mosè: l’esperienza della sete e della fame e la paura di non farcela ad andare avanti. «Mosè fece partire Israele dal Mar Rosso ed essi avanzarono verso il deserto di Sur. Camminarono tre giorni nel deserto senza trovare acqua. Arrivarono a Mara ma non potevano bere le acque di Mara perché erano amare (…). Allora il popolo mormorò contro Mosè: “Che cosa berremo?”» (Es 15,22-24).

Mosè viene paragonato a una puerpera cui i figli reclamano un seno da succhiare. Una metafora materna che egli stesso si attribuirà nei momenti più tragici di quell’accidentato cammino, quando i lamenti d’Israele diventavano grida e anche Dio sembrava essersi dimenticato di lui. «Mosè udì il popolo che piangeva in tutte le famiglie, ognuno all’ingresso della propria tenda, l’ira del Signore si accese e la cosa dispiacque agli occhi di Mosè. Mosè disse al Signore: “Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: “Portalo in grembo”, come la nutrice porta il lattante, fino al suolo che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri?» (Nm 11,10-13a).

Come una nutrice che capisce di non aver più il necessario per sfamare i suoi figli, così Mosè denuncia, agli orecchi di Dio, dell’Alleato di Israele, il bisogno di aiuto. Tanto la fame doveva mordere lo stomaco e oscurare la vista dei neonati ebrei, da farli pentire di essere nati, vale a dire usciti dal grembo dell’Egitto: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto quando eravamo sedurti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà. Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Es 16,3).
La fame provoca una siffatta condizione di disagio, calca con una violenza tale sul corpo e sulla mente della gente, che può portarla, addirittura, a maledire la vita! O anche a preferire di essere schiavi, di pagare il prezzo della libertà, pur di mangiare. Dinanzi ad essa vediamo rivelarsi la debolezza, l’impotenza anche delle persone che riteniamo più forti poiché gravate da cariche di governo.

Nei momenti di grande insicurezza economica, anche noi, come gli antichi ebrei, siamo pronti alle critiche e alle querele. Per questo essa chiama all’appello la fedeltà di Dio che, infatti, manda la manna. Tra la fame e la manna intercorre, però, un intento importante che supera la scuola della Legge, che viene prima degli insegnamenti morali spezzati con le parole e la disciplina. Una scuola d’amore e d’umiltà.

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